Anna Gallucci e Roberto Scarpinato (Imagoeconomica)
Il giornale tenta di scaricare sulla pm il fallimento di «Voto connection». Senza riuscirci.
L’attacco alla pm Anna Gallucci sul Fatto quotidiano continua. La donna, in un’intervista alla Verità, ha avuto l’ardire di riferire ciò che il suo ex capo alla Procura di Termini Imerese, Ambrogio Cartosio, le avrebbe detto sull’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. E cioè che quest’ultimo, per quanto riguardava l’inchiesta Voto connection, condivideva la decisione di chiedere la misura di custodia cautelare per due esponenti leghisti e l’archiviazione per i rappresentanti del centrosinistra.
Tra i nomi più significativi del campo progressista c’era Giuseppe Ferrarello, ras delle preferenze, tuttora sotto processo. Nell’articolo del Fatto di ieri, l’articolista prova a scaricare sulla pm la responsabilità per il fallimento della nota indagine sul voto di scambio, a partire dal proscioglimento dei due uomini vicini al Carroccio, addebitando alla Gallucci l’effettuazione di intercettazioni poi dichiarate inutilizzabili. Il cronista, oltre a non ricordare che Ferrarello non è stato archiviato e resta alla sbarra, afferma che la sentenza di «non luogo a procedere» del gup è del giugno 2021 senza tuttavia precisare che le intercettazioni furono richieste dalla Gallucci e autorizzate dal gip negli anni 2018 e 2019 mentre la cosiddetta sentenza Cavallo delle sezioni unite della Corte di cassazione, che ha sancito l’inutilizzabilità delle captazioni disposte in altri procedimenti, è stata depositata il 2 gennaio 2020. Ma ciò che ha dichiarato alla Verità la Gallucci nulla ha a che fare con tali profili tecnici, evidentemente non ben compresi, che hanno condotto ad assoluzioni generalizzate non soltanto a Termini Imerese, ma in tutti i tribunali della Penisola che avevano, fino a quella data, utilizzato le intercettazioni a prescindere dal procedimento nel quale erano state disposte. Per estenderne l’uso ad altri fascicoli bastava perseguire reati puniti con pena superiore ai cinque anni. La Gallucci ha sollevato il problema dell’indipendenza interna del pubblico ministero, vale a dire del rapporto tra il pm titolare delle indagini e il dirigente dell’ufficio, che spesso interviene sulle scelte di merito orientando le indagini «a destra o a sinistra», spesso senza conoscere gli atti e senza che questa cattiva abitudine venga mai sottoposta al vaglio del Csm e dei Consigli giudiziari, avallando quella prassi che ha consentito l’isolamento e la punizione dei magistrati «non allineati» e il riconoscimento di meriti e promozioni ai dirigenti allineati al pensiero dominante che nella magistratura, anche in quella apparentemente moderata, si identifica con la sinistra giudiziaria antileghista e antiberlusconiana.
La Gallucci ha denunciato tale tendenza subita, nel silenzio, da tutti i pubblici ministeri che ben sanno quali siano le regole auree per continuare la propria vita professionale senza scossoni e, magari, ottenere le agognate promozioni assicurate ai fedeli osservanti del suddetto pensiero dominante.
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Il mosaico romano scoperto dai bersaglieri dopo la battaglia di Ain Zara (Getty Images)
Il 4 dicembre 1911, durante la guerra Italo-Turca, i bersaglieri conquistarono l'oasi di Ain Zara. Durante i lavori di trinceramento venne alla luce un mosaico. Era il primo reperto dell'antica città di Oea, l'attuale Tripoli.
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Il 4 dicembre 1911 i cannoni italiani tuonarono ad Ain Zara, un’oasi fortificata a circa 15 chilometri a sud di Tripoli, capitale conquistata dagli Italiani nell’ottobre precedente, all’esordio della guerra di Libia. La zona era ancora fortemente presidiata da truppe arabo-ottomane, che minacciavano costantemente la città in mano agli italiani.
All’alba del giorno stabilito per l’offensiva, il Regio Esercito iniziò la marcia diviso in tre colonne cui presero parte quattro Reggimenti di fanteria, uomini del 4°Reggimento artiglieria da montagna e del 1° Artiglieria da campagna supportati da reparti del Genio. Lo scontro fu duro, gli arabi (che eguagliavano quasi nel numero gli italiani) offrirono una strenua resistenza. Solo l’azione delle artiglierie fu in grado di risolvere la situazione e, dopo una battaglia corpo a corpo all’interno dell’oasi e 15 caduti tra gli italiani, poco dopo le 15 su Ain Zara sventolava il tricolore con lo stemma sabaudo. Fu per la campagna di Libia una vittoria importante perché da quel momento Tripoli non fu più minacciata e perché fu la prima azione concertata del Regio Esercito fuori dall’Europa.
Il 6 dicembre 1911 un avvenimento legato al combattimento di due giorni prima aggiunse importanza all’oasi appena conquistata. Nel pomeriggio i bersaglieri del 33°battaglione dell’11°Reggimento che stavano eseguendo lavori di trinceramento si accorsero di aver dissotterrato dalla sabbia un mosaico. Verso le 17 emerse dal terreno quello che appariva un raffinato manufatto perfettamente conservato, con disegni geometrici e motivi vegetali, di 6,75X5,80 metri. A prima vista, quella dei bersaglieri e dei loro ufficiali sottotenente Braida e più tardi maggiore Barbiani e colonnello Fara, appariva come il pavimento di una villa. Inizialmente attribuito all’età degli Antonini (92-192 d.C.). Più tardi, dopo l’analisi fatta dagli archeologi guidati dal professor Salvatore Aurigemma, si ipotizzò una collocazione cronologica più precisa e corrispondente all’età di Marco Aurelio. I bersaglieri, con la conquista dell’oasi di Ain Zara, avevano riportato alla luce un frammento dell’antica Oea, l’attuale Tripoli. Negli anni successivi, a poca distanza dal campo di battaglia del dicembre 1911 fu riportato alla luce quello che attualmente è l’unico monumento integro dell’antica città della Tripolitania romana: l’arco di Marco Aurelio, che fu trovato poco dopo la fine delle ostilità. Un altro pezzo del grande patrimonio archeologico della Libia romana, che i pezzi da 149/23 e quelli da 75/27 dell’artiglieria alpina contribuirono involontariamente a riportare alla luce.
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Gianluca Savoini (Ansa)
Nelle carte di Roma e Perugia sugli «spioni» la frenetica ricerca dei nomi legati alla macchinazione contro la Lega.
I faldoni dell’inchiesta sulle spiate nelle banche dati investigative ai danni di esponenti del mondo della politica, delle istituzioni e non solo, che ha prodotto 56 capi d’imputazione per le 23 persone indagate, contengono le tracce che portano dritte al complotto Metropol come epicentro di un complotto politico-finanziario russo-italiano. A un’ossessione che non è solo una storia, ma un format. Costruito, emerge dalle informative, su un metodo: quello del tenente della Guardia di finanza, Pasquale Striano, l’investigatore del Gruppo Sos della Direzione nazionale antimafia attorno al quale ruota tutta l’indagine della Procura di Perugia, poi trasferita a Roma.
Nel 2019 gli «scoop» dell’Espresso, firmati dai giornalisti Giovanni Tizian e Stefano Vergine, indagati insieme con Striano e successivamente passati al quotidiano Domani, raccontavano di un presunto accordo tra rappresentanti della Lega e intermediari russi, vicini all’entourage di Vladimir Putin, per finanziare il partito attraverso una compravendita di petrolio a tariffa agevolata. Gli autori delle pubblicazioni a puntate sostenevano di aver seguito dal vivo quelle trattative e di essere entrati in possesso dell’audio di uno degli incontri. La storia ebbe un’enorme risonanza internazionale e spinse la Procura di Milano ad avviare un’indagine per corruzione internazionale (poi archiviata). Con quella serie di articoli e con il volume che ne derivò (Il libro nero della Lega di Tizian e Vergine), stampa e avversari politici tentarono di mettere Matteo Salvini all’angolo proprio alla vigilia delle elezioni europee. Quando il fascicolo penale è stato archiviato, la storia del Watergate de noantri è stato riscritto dalla Verità alla luce di un’informativa della Guardia di finanza, datata luglio 2020. Un’annotazione che gettava una luce sinistra sull’intera inchiesta giornalistica del settimanale. Le Fiamme gialle meneghine hanno, infatti, ricostruito come uno dei partecipanti all’incontro dell’albergo moscovita, l’avvocato Gianluca Meranda, fosse da tempo in contatto con i cronisti, quasi un agente provocatore.
L’inchiesta su Striano portata avanti dalle Procure di Perugia e Roma aggiunge nuovi tasselli a questo inquietante quadro. Basta leggere le carte per capire che i protagonisti di quella vicenda, i nomi che hanno riempito le pagine dei giornali (e poi Il libro nero della Lega), dall’autunno 2018, sono stati compulsati di continuo, pescati nei database, estratti dalle Sos, cercati e ricercati negli anni. Un pattern investigativo e mediatico martellante, quasi compulsivo. Il primo nome, quello da cui tutto parte, è Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini con solidi legami a Mosca. «Questa Pg», annota la Guardia di finanza, «ha proceduto ad analizzare le digitazioni nominative effettuate da Striano in banca dati dal 6 marzo al 29 agosto 2019, riscontrando la ricerca di nominativi […] collegati alla Lega Nord in quanto emersi dagli articoli stampa relativi alle vicende Fondi Lega e Caso Metropol, riportanti il contenuto di segnalazioni di operazioni sospette consultate da Striano in data antecedente alla pubblicazione degli articoli». Gli atti mostrano consultazioni ripetute sulle sue società, sui movimenti e su associazioni come Lombardia-Russia, considerate hub dell’intero affare. Tre accessi su Savoini vengono cristallizzati: 3 settembre 2019, 7 dicembre 2020, 7 aprile 2022. A quelle date, però, non corrispondono tutte le ricerche. Agli investigatori risultano «attività antecedenti al 2019», ma le «informazioni relative alle visure eseguite dal tenente Striano in possesso» della polizia giudiziaria «partono […] dal gennaio 2019».
In sostanza le ricerche degli investigatori hanno preso in considerazione (anche per non inseguire reati prescritti) un arco di tempo successivo al summit del Metropol. Ma qualche impronta è rimasta. Infatti, secondo gli inquirenti, «l’analisi delle email rinvenute sul personal computer di Striano ha consentito di riscontrare un fitto scambio di corrispondenza con il giornalista (Tizian, ndr) a far data dal 2012 fino al novembre 2022». La ricerca attraverso la parola chiave «Tizian» avrebbe «consentito», ricostruiscono i finanzieri, «di disvelare che lo scambio di email e l’invio di informazioni da parte di Striano al giornalista, tutte tratte dalle banche dati in uso al corpo e da altri archivi risale al 2012. Lo stesso si interrompe tra il 2014 e il 2018». Ma proprio nel 2018 «la modalità di invio dei documenti cambia, in quanto i due cominciano a utilizzare il servizio Wetransfer». L’ultima email inviata risale al 29 ottobre 2022. E in quel lasso di tempo di informazioni ne sarebbero transitate parecchie. E su diversi nominativi ricercati dal tenente.
Il secondo nome fisso nella costruzione del caso Metropol è proprio quello di Meranda. Compare, insieme a Savoini, in una Sos cercata da Striano. Poi c’è il bancario toscano Francesco Vannucci, anche lui coinvolto nel presunto affare del petrolio. L’uomo viene «menzionato», annotano gli investigatori, «in articolo stampa intitolato “Soldi pubblici per mr. Russiagate” pubblicato su L’Espresso in data 15 settembre 2019». La ricerca del nominativo nella banca dati è del 14 marzo dello stesso anno. Un nome poco noto fuori dagli atti, ma ricorrente dentro, è quello di Ernesto Ferlenghi. Compare in tre Sos e in un appunto redatto da Striano. «Un’ulteriore ricerca sui supporti informatici e in particolare sul cellulare in uso a Striano», evidenziano gli investigatori, «ha consentito di riscontrare, a riprova dell’illiceità del proprio operato, la presenza di un’email, già approfondita nel paragrafo relativo a Tizian, con la quale utilizzando l’applicazione Wetransfer, Striano invia gli allegati alla segnalazione in analisi». Su Ferlenghi, gli accessi si ripetono: settembre 2019, dicembre 2020, aprile 2022. In alternanza con Savoini e Glauco Verdoia.
Per Verdoia, manager piemontese coinvolto (e mai indagato) nella trattativa del Metropol come potenziale intermediario bancario, gli atti raccolti dal tenente Striano parlano di «attività pre-investigativa» avviata nel 2021 nella «prevenzione dei fenomeni di criminalità finanziaria connessi all’emergenza Covid-19». Ma la sua scheda investigativa compare accanto agli stessi nomi del cluster Metropol. La Sos su Oleg Kostyukov, console russo, descrive invece una operazione: «Ha convertito in contanti [...] Usd 25.000 [...] e Usd 100.000 [...] senza farli transitare dal proprio conto corrente». Striano lo cerca nelle banche dati quattro volte in due giorni. Una frequenza «anomala», scrivono gli inquirenti, «non riconducibile ad alcuna diretta attività investigativa delegata». E, coincidenza, «a tal proposito», aggiungono i finanzieri, «si evidenzia che il contenuto della Sos è confluito nell’articolo dal titolo “Quei 125.000 euro in contanti per il convegno con Salvini e Putin" pubblicato dal Domani in data 30 luglio 2022 a firma, tra l’altro, di Tizian».
Ma non è finita: «Attesa la coincidenza tra la data della visura e la data di creazione del file, appare verosimile ritenere che lo stesso sia riconducibile alla predetta consultazione effettuata da Striano, i cui dati sono successivamente confluiti nell’articolo». Il format Metropol è stato costruito così.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Ipotesi maggioranza qualificata per utilizzare gli asset. Il titolare della Farnesina propone il Mes, no della Lega.
La Commissione non sembra conoscere ostacoli nell’ormai disperato tentativo di assicurare un prestito per le ormai semivuote casse di Kiev. A Ursula von der Leyen non è bastata la lettera del premier belga Bart De Weiver, né il secco rifiuto da parte della Bce (ieri ribadito da Christine Lagarde in audizione al Parlamento Ue) di predisporre un prestito «paracadute» per gli Stati membri, qualora questi ultimi fossero costretti a onorare in pochi giorni la garanzia eventualmente prestata alla belga Euroclear, depositaria dei fondi russi. La bozza del testo, che si intende adottare e su cui si cercherà il consenso politico durante il Consiglio europeo del 18 dicembre, ripropone pedissequamente tutte le idee già bocciate dai belgi nei giorni scorsi e anzi rilancia sugli importi e sul tema delle garanzie. Due sono gli aspetti molto controversi.
Per tacitare, almeno in parte, i timori del Belgio di ritrovarsi a dover restituire immediatamente i fondi russi sequestrati, a causa del mancato rinnovo semestrale delle sanzioni, a Bruxelles si sono inventati un aggiramento della regola dell’unanimità, definito «pazzesco» da alcune fonti diplomatiche. Poiché quel rinnovo semestrale deve essere votato all’unanimità, che Ungheria e Slovacchia potrebbero far mancare, a Bruxelles si sono inventati una scappatoia legale per far votare quel rinnovo a maggioranza qualificata. Facendo leva sull’articolo 122 dei Trattati che prevede «circostanze eccezionali non controllabili» come base giuridica per votare a maggioranza qualificata. La tesi (molto ardita secondo numerose fonti citate dal Financial Times e da Politico.eu) è che l’improvvisa mancata proroga delle sanzioni e il conseguente diritto dei russi di vedersi restituire i loro depositi, nel frattempo indisponibili perché utilizzati per il prestito all’Ucraina, sarebbe una minaccia per la stabilità finanziaria e il mercato interno. Per evitare l’emergenza basta la maggioranza qualificata, sostiene la Commissione. Ammesso e non concesso che questa ennesima forzatura della Von der Leyen riesca a superare le perplessità di ordine legale, dal Belgio ieri si sono affrettati a rendere nota tutta la loro insoddisfazione. Infatti il timore di un rinnovo delle sanzioni era solo una delle obiezioni del governo belga. Un altro serio motivo che potrebbe dare ai russi il diritto di esigere immediatamente la restituzione della loro liquidità è l’eventuale vittoria in un arbitrato in una qualsiasi sede giurisdizionale internazionale. E in quel caso Euroclear sarebbe insolvente all’istante, a meno che non soccorrano le garanzie degli Stati membri. Ma anche in quest’ultimo caso - ecco il perché del maldestro tentativo di chiedere un prestito «paracadute» alla Bce - qualche Stato membro potrebbe avere difficoltà ad onorare in tempi rapidi la garanzia prestata. Con evidente disprezzo di tutti questi rischi, la Commissione ieri ha proposto un prestito per complessivi 210 miliardi, facendo leva sui 185 miliardi sequestrati presso Euroclear e altri 25 presso altre istituzioni nella Ue. Alla difesa dell’Ucraina saranno riservati 115 miliardi, mentre al finanziamento del bilancio di Kiev saranno destinati altri 50 miliardi. Tutti prestiti che dovrebbero essere rimborsati dall’Ucraina alla Ue se e quando Mosca pagherà a Kiev le riparazioni di guerra. Un evento così improbabile che induce a considerarli di fatto dei sussidi. Al momento, sul tavolo negoziale, purtroppo per noi, ci sono solo le garanzie degli Stati membri che somigliano tanto a un assegno «in bianco» a favore della belga Euroclear, in assenza del quale dal Belgio non uscirà un solo centesimo.
Se questo è il terreno scivoloso su cui ci si muove a Bruxelles, in Italia ci ha pensato il ministro degli Esteri Antonio Tajani a gettare altra benzina sul fuoco, tirando in ballo il Mes. «Un’ipotesi per esempio potrebbe essere secondo me l’utilizzo del Mes come garanzia», ha buttato là il ministro.
Tale affermazione si scontra platealmente con ciò che può fare il Mes. L’intervento viene eventualmente richiesto (il Mes non arriva da solo) in caso di minaccia alla stabilità finanziaria e concreto pericolo di perdita dell’accesso ai mercati da parte di uno Stato membro. Ricordiamo tutti come finì il cosiddetto Mes «pandemico», messo a punto dopo mesi di trattativa, per consentire una torsione dei fini statutari del Mes, e mai richiesto da nessuno. «No a fughe in avanti sul Mes: i soldi degli italiani non possono essere usati né per finanziare il riarmo europeo, né per gli asset russi. Piuttosto, quei fondi vanno utilizzati per ridurre la pressione fiscale a favore di lavoratori, imprese, famiglie italiane», ha dichiarato ieri la Lega.
Nessuno sa cosa ci sia oltre la linea rossa che si valica confiscando di fatto le riserve di una banca centrale. Meglio non provarci.
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