2019-06-30
Tra infanzia e morte non siamo più addestrati alla vita
Il cittadino dell'Occidente contemporaneo fatica ad uscire dall'adolescenza. L'educazione viene delegata alla tecnologia.Siamo tutti ragazzini. È il lato «perturbante» del nostro tempo, dai calzini arcobaleno del sindaco alla sorprendente e sguaiata macumba degli ultrasessantenni vincitori delle Olimpiadi invernali a Milano, a tante altre e più inquietanti istantanee della vita quotidiana. Ma perché il cittadino dell'Occidente contemporaneo fatica ad uscire dall'adolescenza e dalle sue manifestazioni? Il fatto è che si è accantonato uno dei saperi su cui da millenni e in ogni continente si è fondata la pedagogia e l'educazione delle persone e dei giovani: la conoscenza delle «età della vita», che insegnava a stare al proprio posto del mondo. Dove molto dipende da quanto tempo ci sei: appena entrato, o non più bebè ma bambino, adolescente, adulto, anziano. Non si tratta di «ghettizzazioni ideologiche» come credevano i fantasiosi psicologi che negli anni Settanta facevano vagire signore di mezz'età in cerca di rinascita. La vita è questo: un imparare a «durare» nel tempo (come pensava il filosofo Henry Bergson); passando dalle prime fasi di competenza soprattutto materna, a quelle ulteriori dove per entrambi i sessi diventa importante la spinta e l'attenzione del padre. A cambiare infatti, che lo si voglia o no, è innanzitutto il corpo, e con lui la psiche che accompagna lo sviluppo cerebrale e affettivo. Dimenticare che il tempo scorre e noi cambiamo con esso, produce appunto il teatro dell'assurdo rappresentato nella società occidentale. Dove al proprio posto non ci sta più nessuno, anche perché nessuno gli ha più insegnato a riconoscerlo. Al massimo tutti gli chiedono di essere «figo» e «rock». È da questa grottesca banalizzazione e mancato insegnamento, da questa assenza di iniziazione alla propria attuale posizione nel mondo, che ha origine gran parte del caos attuale. Ne parla Le età della vita del filosofo e teologo cattolico italo-tedesco Romano Guardini, oggi disponibile nella prima traduzione integrale italiana delle lezioni tenute sul tema all'Università di Monaco dagli anni Cinquanta ai Sessanta. Un libro utile, agilissimo e chiaro, al contrario dei concettosi tomi sfornati oggi dall'editoria psicologica a furia di copia e incolla. Guardini ricordava già allora che la prima fase della vita, dalla quale dipenderà poi molto di ciò che accade dopo, è la «vita del grembo», quando siamo nella pancia della madre e in comunicazione con lei. La vita pratica quotidiana conosceva da sempre ingenui «riti di iniziazione» al transito dall'ospitalità materna alla scoperta del mondo attorno: le parole che a volte la mamma sussurra al suo piccolo, le canzoncine che anche il papà può cantargli, la musica. Quel passaggio dal grembo al mondo è delicato, e Guardini già all'inizio degli anni Cinquanta scrive che a colpi di tecnica si cercherà di renderlo più rapido e inconsapevole possibile, e ciò potrebbe dare problemi sia alla madre sia al bambino. Come poi purtroppo accadde, soprattutto in Italia, fra i Paesi in testa alla classifica mondiale per parti cesarei e conseguenti problemi, specialmente dei bambini non aiutati da quel veloce e «programmato» ingresso nella vita ad affrontare gli sforzi per governare la successiva complessità dei processi di sviluppo e adattamento. La grande avventura continua poi nell'infanzia, con i suoi passaggi decisivi come la conquista dell'autonomia dal seno materno, e il passaggio alla posizione eretta: prima immagine dell'Io, assieme alla parola. A cominciare dal «cos'è questo?». È questa «la grande domanda» che svela l'estraneità del bambino al mondo attorno, ma anche la sua decisione di conoscerlo ed entrarci. La vera vita umana comincia lì. L'esistenza del bambino sarà tanto più forte e felice quanto più serrato sarà il dialogo con adulti che lo amino e accompagnino in questa conquista. Sbarazzarsi del bambino mettendogli in mano un gadget elettronico, smartphone o altro, blocca invece il processo di sviluppo umano e ne inaugura un altro, attuale, di sottomissione umana alla tecnologia. In esso il bambino deve rinunciare ad essere il creatore e protagonista dello sviluppo della propria vita per adattarsi ai supporti tecnologici. È quanto accade in Occidente, dove la tecnica si è sviluppata autonomamente dall'uomo che contemporaneamente ha smesso di riflettere su di sé e sui cicli della propria vita.Comprendere le forme e il significato dei cicli della vita dalla nascita alla morte, infatti, non si esaurisce con razionalizzazioni e concetti, ma porta a confrontarsi coi grandi temi trascendenti del «da dove veniamo e dove andiamo», da cui dipende anche la nostra vita quotidiana. Ciò però non è consentito dall'attuale modello di sviluppo, rigidamente materialistico. Non a caso Guardini è filosofo e teologo e i non molti che hanno sviluppato ricerche in questo campo, come il medico e pedagogista Bernard Lievegoed, in Le età evolutive dall'infanzia alla maggiore età (Natura e cultura), o gli O'Neil-Lowndes in Il cammino della vita (Aedel) fanno riferimento all'antroposofia di Rudolf Steiner. Difficile, infatti, capire la vita umana parlando con i computer e senza guardare in alto, al cielo. Il rifiuto di genitori e educatori ad accompagnare e rispondere personalmente alle «grandi domande» poste da bambini e adolescenti, delegando la cosa alle tecnologie non aiuta l'adolescente a trovare la propria forza personale nell'auto autoaffermarsi, che è poi l'aspirazione e difficile compito di quella fase. Che invece diventa spesso, oggi, l'affermazione di un narcisismo fine a sé stesso o l'avanzare incerto sotto la guida dell'influencer: il contrario di una figura educativa, e un adattatore personalmente interessato a moltiplicare individui manipolati. Ciò impedisce poi alla fase successiva, la giovinezza (ormai indistinguibile dall'adolescenza, meta comune di vecchi e bambini) di realizzare il suo scopo: «il rafforzarsi della personalità e la spinta vitale». Entrambe sono infatti ormai diventate appannaggio di interminabili pratiche sociopsicologiche che coprono la questione con fiumi di parole o imbarazzati silenzi, invece di invitare i giovani a entrare finalmente nella vita per quello che è, e al punto in cui sono, mettendo fine ai preparativi. Non arriva mai, così, il «coraggio di prendere le risoluzioni che decidono della propria vita... come ad esempio la professione». Ma anche altre, a cominciare dall'amore, con il suo compito di togliere l'individuo dalla famiglia e «portarlo a creare un nuovo centro della propria vita». Questo coraggio c'è poco, anche perché per la prima volta nella storia, in Occidente l'uomo rotola dall'infanzia al fine vita senza mai essere stato addestrato e iniziato alla fase della vita in cui è, né a quella dove andrà. Sempre per questa ignoranza l'adulto fatica a raggiungere la stabile fermezza di quella fase, e l'anziano non accetta la fine della vita con le sue consapevolezze, sdrammatizzazioni e profondità. È solo lo «stare al proprio posto», nella fase di vita che si sta attraversando, che dà quel coraggio e quell'interesse.
«Petra Delicato» (Sky)
La terza stagione della serie con Paola Cortellesi (Sky, 8 e 15 ottobre) racconta una Petra inedita: accanto alla sua solitudine scelta, trovano spazio l’amore e una famiglia allargata, senza rinunciare al piglio ironico e disincantato.