2020-10-13
Tra divieti e mascherine per i bimbi stare in classe è diventato un incubo
Stefano Guidi/Getty Images
Le assurde regole imposte anche ai più piccoli distruggono la socializzazione La paura del contagio inocula in loro il senso di colpa e danneggia la psiche.Ricevo dalla dottoressa Isabella Rigillo, insegnante, psicologa e psicoterapeuta, questa mail, che riporto integralmente. Le parentesi sono mie.Ore 8, ingresso nell'ospedale di malattie infettive «scuola statale italiana»: mettere mascherina, scanner usato da un collaboratore per misurare la febbre, seguire le frecce e linee posizionate a terra già dal cancello e fino all'interno delle aule. (Queste disposizioni avrebbero senso in un gruppo di bambini reduci dal trapianto di midollo, cioè immunodepressi. Il Covid 19 è un virus ad alta infettività, ma bassa virulenza, che sembra aver perso potenza. Queste regole distruggono la socializzazione e danneggiano la psiche del bambino sprofondandolo nella fobia e soprattutto nella colpa: ti sei tolto la mascherina? Tuo nonno morirà e sarà colpa tua. Anche al corpo non fa bene: il sistema immunitario per funzionare ha bisogno di restare in allenamento. Il distanziamento sociale lo indebolisce. Per diventare insegnanti occorre studiare per anni pedagogia, con master sulla socializzazione e la psicomotricità. Gli insegnanti hanno rinnegato tutto). Cambio mascherina con quella fornita dalla scuola. (11 milioni di mascherine al giorno, ha detto il commissario Arcuri forse certo delle commesse della Fca degli Elkann. Queste mascherine come vengono smaltite? Se fossero tossiche, se ci fosse il pericoloso virus dovrebbero essere rifiuti speciali, ma sono rifiuti qualsiasi. L'uso continuativo di mascherine, soprattutto in bambini, altera il microbiota orale e può favorire tonsilliti e faringiti).Gel disinfettante da usare all'entrata e ogni volta che bambini e adulti vanno al bagno sia prima che dopo (alcuni gel aumentano il rischio di cancro alla tiroide, tutti modificano il microbiota delle mani e se troppo usati aumentano il rischio di dermatiti). Al primo starnuto o accenno di raffreddore o malesseri vari, mandare il piccolo nella stanza Covid per controllo temperatura e invio a casa (perché stanza Covid? Non potevano continuare a chiamarla infermeria? Il Covid è molto improbabile nei bambini. Perché il Covid è l'unica malattia esistente?). Tutto ciò durante il tempo di permanenza in aula. Le finestre restano aperte per il cambio dell'aria (anche in inverno? Tempra il carattere, ma può causare parecchie malattie da raffreddamento, dette raffreddori, e poi si finisce nella stanza Covid). Messaggio della dirigenza: «Data la situazione si lavora molto sull'educazione civica e prevenzione da Sars Cov 2, molto sulle regole del distanziamento, i saperi sono quelli essenziali, la didattica va solo su matematica e italiano» (ottimo, i popoli analfabeti sono più felici).Bambini sempre seduti anche durante la ricreazione, banchi monoposto mai arrivati, uno sta al posto solito e l'altro seduto al lato del banco senza potersi avvicinare e infilare le gambe sotto. Se parla uno l'altro deve tirare su la mascherina, così se si alza per temperare una matita. L'insegnante può togliere la mascherina nell'area tra cattedra e lavagna garantendo due metri di distanza dagli alunni, non può toccarli né correggere loro i compiti, va tutto sull'autocorrezione. Eventuali verifiche dovranno attendere due giorni prima di poter essere visti dall'insegnante. Sconsigliato farli cantare. In palestra, impossibile svolgere attività, perché occorrerebbe disinfettare attrezzi e palestra ogni volta, oltre ad avere una distanza di almeno due metri tra i bambini. A mensa possono toglierla quando mangiano, ma sono a distanza di un metro e ogni gruppo classe necessita di due lunghi tavoli. L'acqua deve versarla l'insegnante munita di guanti, mentre loro devono restare seduti tutto il tempo. A solo due settimane dall'inizio dell'anno scolastico, due classi sono in quarantena perché alcuni sono risultati positivi al tampone, ma nessuno ha l'influenza vera! All'uscita anche i genitori indossano la mascherina e qualche volta pure gli occhiali da sole, rendendo complesso il riconoscimento. Non ci si può fermare a parlare con loro per evitare assembramenti e probabili contagi: ognuno prende il figlio e va via. I collaboratori hanno un quaderno nel quale annotano quando e cosa hanno fatto in ogni aula, con un nebulizzatore disinfettano gli ambienti, ora più sporchi e segnati da gocce di questo liquido di cui non si conosce la composizione chimica. Tutti sotto stress a protezione di un virus i cui dati si leggono su giornali e si vedono in televisione, invece nella vita pratica la gente muore per lo più di tumori, malattie cardiovascolari e altre patologie. La scuola per quello che si conosceva è morta. Uccisa dalla «banalità del male». I bambini stanno già cominciando a manifestare disturbi psicologici come pianto apparentemente immotivato, attacchi d'ansia, difficoltà di concentrazione e apprendimento. Gli adulti per ora insonnia, atteggiamento passivo di indifferenza, abulia e delega. È solo l'inizio dell'incubo se non si mette fine a questo lager per l'infanzia. Il silenzio non è mai stato così pesante pericoloso. Così si conclude la lettera della dottoressa Rigillo. Io in conclusione riporto le parole del dottor Alberto Villani del Cts. Il Cts vuol dire tizi non eletti da nessuno, nominati esperti da tale Conte, pure lui non eletto da nessuno in base a competenze che ci sono rimaste oscure. Non conosciamo le competenze dei tizi chiamati a decidere di una nazione né le competenze del tizio che li ha scelti. Quello che ci è chiaro è l'incredibile fiume di denaro con cui sono pagati. Il vate Alberto Villani ha detto al Corriere della sera: «Non importa se le mascherine all'aperto hanno scientificamente un senso oppure no: sono un segnale».Lo sanno che non c'è nessuna evidenza scientifica sul valore protettivo per virus, mentre già sono evidenti dermatiti, micosi e faringiti. È un segnale. Un segnale di sottomissione a regole insensate, perché si obbedisce alle regole sempre. Il buon suddito fa così. Un tampone per cercarli, un tampone made in China spesso falso positivo, un tampone per trovarli, un tampone che il suo stesso inventore ha dichiarato non idoneo a trovare i malati, un tampone per ghermirli escludendoli dalla vita sociale, e nel buio incatenarli. Un buio che potrebbe non essere casa ma una struttura idonea accuratamente preparata.Sono tutte le mattine all'ufficio postale, e con gli impiegati ci scambiamo i pacchetti che spedisco, il modulo della raccomandata, i soldi. Lo stesso con le cassiere del supermercato, che toccano i prodotti che ho preso e poi i soldi. Una maestra ha fatto soffrire per ore la sete a un bimbo di sei anni per non toccare lei la borraccia che lui non riusciva ad aprire. Una maestra che fa una cosa del genere, il giorno in cui andranno a prendere i bambini ebrei, o quelli armeni o quelli che hanno il cognome che comincia per M, li consegnerà senza fiatare, lieta e giuliva di aver fatto il suo dovere e poi lieta e giuliva spiegherà agli altri bambini quanto è giusto e quanto e bello. Oppure consegnerà i bambini «positivi», o quelli figli di genitori omofobi, come già fatto a Bibbiano e come normalmente faranno dopo che il ddl Zan Scalfarotto sarà stato approvato. Lo ha detto lo stato. È vero e giusto.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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