2022-01-08
Il dolce da guerrieri che mordono la vita
È Cremona a rivendicare la maternità del torrone, fissandone la nascita il 25 ottobre 1441 per le nozze di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Ma sono tanti i paesi e le città pronti a giurare sulla primogenitura della delizia amata da papi e imperatori.Cremona è la città delle tre T: Turòon, Turàss, Tetass. Torrone, Torrazzo e Tettone. Gusto, vista e tatto. Non frequentando assiduamente la città lombarda ci guardiamo bene dall’entrare nel merito della terza specialità cremonese, ma sulle prime due siamo pronti a mettere le mani sul fuoco: sulla bontà del torrone e sulla bellezza e l’imponenza del campanile del duomo di Cremona, alto 112 metri, finito di costruire nel 1309 dopo una cinquantina d’anni dall’inizio dei lavori, non si discute. Il popolare detto delle tre T risale ad oltre un secolo fa ed è entrato nell’immaginario collettivo della geografia italiana. . Da allora, e fino ai giorni nostri, le cartoline con le tre specialità cremonesi si sono moltiplicate. In cent’anni non c’è stato viaggiatore né turista né giovanotto che ha fatto il militare a Cremona che non abbia spedito agli amici un’ammiccante cartolina illustrata con pin-up scollacciata, torrone e Torrazzo. Esiste una versione purgata del detto: Turòon, Torass, Tognass. L’ultima T è riferita a Ugo Tognazzi. Ma, con tutto il rispetto per il grande attore nato a Cremona - e lui sarebbe d’accordo - non esiste confronto col detto originale.A noi, qui, interessa la prima delle tre T, il torrone. Cremona, città femmina, ne rivendica la maternità fissandone la nascita il 25 ottobre 1441 in occasione delle nozze di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Al fastoso banchetto nuziale, tra le tante buone cose imbandite, venne servito un dolce con albume d’uovo, miele, zucchero, mandorle e due sottili ostie a racchiudere l’impasto che deliziò i palati dei duchi di Milano. Aveva la forma del Torrazzo dal quale, sostengono i cremonesi, prese il nome.Bellissima storia, ma che non tiene conto di Federico II, degli Arabi e dei Romani. E non tiene conto neppure delle rivendicazioni di altre città e paesi italiani ognuno dei quali è pronto a giurare sulla primogenitura o sulla provata storicità del proprio torrone. Tra gli altri Benevento, che lo fa risalire ai Sanniti; Dentecane in provincia di Avellino dove c’è un torronificio artigianale ogni 200 abitanti (sono 800 in tutto); Tonara, in Barbagia, il cui torrone è stato cantato e decantato da Grazia Deledda; Cologna Veneta in provincia di Verona dove lo chiamano mandorlato; Caltanissetta dove usano mescolare a miele e mandorle anche i pistacchi; Sulmona in Abruzzo, famosa per averlo ricoperto di cioccolato; Bagnara in Calabria che propone un torrone speziato con chiodi di garofano in polvere e cannella. E così via. Ma partiamo da Roma dove ci portano tutte le strade e da dove, sostiene qualche studioso, sono partiti tutti i torroni d’Italia camminando sui calzari di architetti, costruttori di strade e di ponti, duces et milites, letterati e navigatori. Marco Terenzio Varrone nel primo secolo avanti Cristo descrive la cuppedia (ghiottoneria) come un dolce impasto di miele, albume e semi oleacei. Cuppedia deriva dal verbo cùpere che vuol dire desiderare ed è quanto meno singolare, se non significativo, come in Campania, Puglia, Calabria, regioni conquistate e percorse dai Romani, il torrone si chiami ancora cuppedia, cupita, copita, cupeta tosta. Il sempiterno Marco Gavio Apicio nel De re culinaria propone la ricetta del nucatum, una ghiottoneria preparata con noci (o nocciole: entrambe in latino fanno nux al nominativo e nucis al genitivo), miele e albume d’uovo: è il dolce romano che, almeno negli ingredienti, è più simile al nostro torrone. Il quale prenderebbe il nome non dal Torrazzo cremonese, ma dal verbo torrere, abbrustolire, tostare.A Caltanissetta il torrone è chiamato cubaita. Secondo Michele Scolari, autore del documentatissimo Il torrone, un dolce arabo, cubaita deriva dalla parola araba qubbayt, mandorlato. Leonardo Sciascia nel Giorno della civetta dichiara il suo amore per la cubaita più buona, «quella che ci vuole il martello a romperla». Andrea Camilleri nell’Elogio della cubaita dell’antico torronificio Nisseno la definisce «dolce da guerrieri» che «a fatica riesci coi denti a staccarne un pezzetto e non lo devi aggredire subito, lo devi lasciare ad ammorbidirsi un pochino tra lingua e palato, devi quasi persuaderlo con amorevolezza ad essere mangiato».Sono proprio gli Arabi dopo alcuni secoli (bui) in cui si perde ogni traccia del presunto torrone romano a riportare sulle tavole un dolce fatto con le mandorle (o noci o pistacchi) legato con miele e zucchero e aromatizzato con le spezie. Ne scrivono nei loro trattati di medicina Ibn Butlan, Ibn Jazla, entrambi di Bagdad, e Abdul Mutarrif, medico e farmacista di Toledo, tutti vissuti nell’11° e, guarda un po’, tradotti in latino tra il 12° e il 13° secolo da Giambonino da Cremona e da Gherardo da Cremona.Secondo molti storici non furono né Giambonino né Gherando e tanto meno il banchetto nuziale Visconti-Sforza a introdurre il torrone nella città padana, ma Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero. Federico, che amava circondarsi di intellettuali islamici, apprezzava moltissimo la cucina e i dolci siciliani, tra i quali il torrone, che erano poi quelli di origine araba fatti di miele, mandorle, frutta candita. Tra i fuochi e le pignatte della reggia di Palermo si muovevano cuochi e pasticcieri siculi fedeli interpreti della cucina arrivata con i califfi, ma perfezionata dagli chef della Trinacria. Cuochi che lo Stupor Mundi, così era appellato l’imperatore, non esitò ad arruolare nell’esercito con cui mosse al nord contro la Lega Lombarda. Fu durante queste campagne militari che Federico II elesse Cremona, fedele città alleata, a capitale provvisoria. Ad essa lasciò in eredità cultura, arte, stile di vita e il toròon.Torrone o mandorlato? I dogi e gli aristocratici signori della Serenissima Repubblica di Venezia, così raccontano a Cologna Veneta dove si fa uno dei più squisiti e apprezzati mandorlati d’Italia, andavano pazzi per il mandolato scaligero. Mandorle tostate, miele, albume d’uovo fusi in caldaia di rame e, infine, una cialda nel lato B del dolce: è il tradizionale «amen» della tavola natalizia. Lo si spezzetta con l’apposito martelletto e lo si accompagna con la grappa (e ti pareva che in Veneto non finisse tutto nell’acquavite di vinaccia?) prima del caffè. Leggenda ducale a parte, il mandorlato di Cologna come lo si conosce oggi, caratterizzato dalla superficie ingobbita di mandorle, è nato alla metà dell’800.Oltre a imperatori e dogi, anche i papi e i santi hanno rischiato i denti spezzando torroni e mandorlati. Riccardo Morbelli, scrittore e autore radiofonico e televisivo, oltreché «gastronomo avveduto», racconta nel Boccafina che Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento per trent’anni, era talmente ghiotto dello squisito torrone che si faceva nel capoluogo campano che, quando fu eletto al soglio di Pietro, lo introdusse in Vaticano consacrandolo dolce natalizio e depennandolo, di fatto, dai peccati di gola. Pare che nel 1905 - ma forse è un’altra storia messa in giro dai veronesi che sfornano leggende per ogni piatto e ogni prodotto della tradizione -, sia arrivato dentro le mura leonine anche il mandorlato di Cologna. Lo testimonierebbe una lettera inviata al donatore, un produttore di mandorlati in Cologna, dal segretario particolare di Pio X. L’ex patriarca di Venezia, il trevigiano Giuseppe Melchiorre Sarto, eletto papa nel 1903, morì nel 1914 e fu canonizzato nel 1954. Ai veronesi piace pensare che il mandorlato e gli altri dolci di Natale, il pandoro, l’offella e il nadalìn, abbiano un profumato alone di santità.