2020-02-25
Torna la favoletta: «Il problema è lo Stato»
«La sanità è troppo importante per lasciarla nelle mani dei Paesi sovrani», scrive Sabino Cassese sul «Corriere». Persino il coronavirus serve a sostegno di una tesi a prescindere: bisogna affidare ogni decisione a enti senza volto, non votati da nessuno.«Sovrano», secondo Carl Schmitt, «è chi decide sullo stato di eccezione». L'esplosione del coronavirus è uno stato d'eccezione? Possibile. Quel che è certo è che di aspiranti «sovrani» è pieno. Di fronte alla paura del contagio, alle indecisioni nella gestione del fenomeno, è molto facile invocare soluzioni drastiche, minimizzare con il sopracciglio levato, esibire la spiegazione cui nessuno aveva pensato, indicare lo «scienziato» che fornisce una base di competenza alle nostre tesi impacchettate.Finché lo si fa a tavola con amici e parenti, può anche essere considerato un passatempo gradevole e un modo per esorcizzare i momenti più cupi. Sulla prima pagina del Corriere della Sera il discorso cambia. È da lì che Sabino Cassese, ex ministro di Carlo Azeglio Ciampi, ex consigliere di Olivetti, Lottomatica, Autostrade, Generali, giudice emerito della Corte costituzionale, ha diramato la sua «ricetta globale» contro il coronavirus. Il livello della riflessione offerta sul quotidiano diretto da Luciano Fontana è il seguente: «Se il problema è globale, la soluzione non può che essere globale». Pensieri che riportano all'eterna diatriba tra il «pennello grande» e il «grande pennello» per affrescare pareti di dimensioni importanti. Nello spot del Cinghiale, va detto, i due attori raggiungevano un'efficacia dialettica più compiuta.Il kingmaker per eccellenza Cassese (dai giudici della Consulta come Marta Cartabia ai futuri inquilini del Colle, passando per i concorrenti dello Strega come Gianrico Carofiglio) usa il coronavirus per rinverdire suggestioni stantie sui meccanismi decisionali (anche detti democrazia) che si concludono più o meno sempre allo stesso modo: le società contemporanee sono meccanismi troppo delicati per lasciarle in mano a cittadini ed elettori. Occorre quantomeno introdurre qualche stilla di «epistocrazia correttiva», visto che - come ha scritto in una recente prefazione - «non si può fare a meno» del suffragio universale.L'eterno ritornello torna in auge grazie alla minaccia virale: «Ogni volta che si presenta un problema di queste dimensioni», spiegava ieri sul Corriere, «si deve constatare che “blindare porti e confini" (come qualcuno ha proposto) è inutile: occorre, invece, rafforzare la cooperazione internazionale. Non meno, ma più globalizzazione».La dimensione dialettica è la stessa che coinvolge il discorso medio sull'Unione europea. Non funziona? «Serve più Europa». E se non funziona? Per forza, non ce n'è ancora abbastanza. Della stessa, violenta e deludente pasta, sono fatti i refrain sull'ambiente («Abbiamo un solo pianeta») che convergono su una, inevitabile, indiscutibile agenda. E infatti l'onnipresente giurista conclude: «La sanità globale è un bene troppo importante per lasciarlo nelle sole mani degli Stati, prigionieri dei risorgenti sovranismi, e dei servizi sanitari nazionali [...] La salute è un diritto umano fondamentale, assicurato a livello internazionale».C'è da dire che l'incauta cronaca non soccorre il professore. Giusto ieri il capo dell'Oms - quello che secondo Cassese non ha abbastanza poteri - ha scandito le seguenti parole sul coronavirus: «Ogni Paese deve fare le sue valutazioni a seconda del proprio contesto». Nelle stesse ore, come spieghiamo nelle pagine precedenti, gli Stati (gli stessi che hanno erogato incarichi a Cassese per decenni, e lì andavano bene, si suppone) hanno disposto misure «blindando i confini» per contenere il virus, come sa tristemente proprio l'Italia, trattata come Paese untore. Né si vede chi abbia il potere effettivo di diramare indicazioni, attuarle, di farle rispettare se necessario con la forza. Ma non è solo per questo che la filastrocca del problema-globale-soluzione-globale batte in testa. C'è una questione più profonda. In molti hanno salutato, nella grave disgrazia sorta a Wuhan, una consolazione. Per dirla con le parole di Matteo Renzi: «È molto interessante notare che non c'è più nessun no vax che parla, perché quando la realtà presenta il conto poi la serietà vince sul populismo». È l'idea, cioè, che finalmente con la malattia arriva una lezione: bisogna seguire la scienza e smetterla con le chiacchiere della politica. Che è un pensiero «populista», perché - come vediamo ogni ora - purtroppo «la scienza», come il populismo, come le semplificazioni consolanti, non esiste, né da una parte né dall'altra. Non troveremo «porti chiusi» né «frontiere aperte» che, nella loro dimensione di slogan, risolveranno mezzo problema, tanto meno quello del coronavirus. E allora, sotto la storia della salute come «diritto globale» c'è una faccenda più prosaica: un potere reclamato. La caratteristica immancabile delle sedi necessarie (al nostro bene, si intende) in cui spostare i centri decisionali, siano essi economici, sanitari o ambientali, è una sola: sono immancabilmente privi di responsabilità politica, in senso letterale. Il vituperato Stato, con i suoi limiti e i suoi errori che vediamo giorno dopo giorno, presenta la possibilità - spesso allentata e distante, certo - di una sanzione: il voto. Se sbagliano i giudici delle Corti, o l'Oms cui Cassese vuole dare più fondi e potere, o le Banche centrali, che succede? A loro, nulla. C'è da augurarsi che la salute resti «prigioniera» - come ha scritto con disprezzo - degli Stati, perfino quando sono gestiti da persone giudicate inadeguate: ogni alternativa è un pezzo di democrazia in meno.