2025-05-28
Per vedere il marcio delle università Usa bastava leggere i libri di Tom Wolfe
Lo scrittore statunitense Tom Wolfe (Getty). Nel riquadro, il suo libro «Io sono Charlotte Simmons»
Con vent’anni di anticipo, «Io sono Charlotte Simmons» descrisse il degrado morale all’interno degli atenei statunitensi.Venti anni fa, quando Io sono Charlotte Simmons uscì per la prima volta negli Stati Uniti, la gran parte dei recensori non perse tempo e si precipitò a fare ciò che da tempo desiderava: stroncare un libro di Tom Wolfe. Cioè l’uomo che aveva demolito una volta e per sempre la sinistra intellettuale mondiale coniando il termine - fortunatissimo e abusato - radical chic, uno dei più grandi autori e ideologi conservatori di sempre. Il romanzo fu accusato di essere superficiale, arrogante, snob, pieno di pregiudizi, e in fondo bigotto. Fortunatamente, qualcuno volle distinguersi dal gregge e intuì che Wolfe, al solito, ci avevo visto giusto. Su The Michigan Review, pubblicazione studentesca conservatrice dell’Università del Michigan, Matt Mulder scrisse che Charlotte Simmons mostrava «ciò che molti di noi sperimentano da tempo: la vita universitaria è caratterizzata da un’ossessione per il sesso, il politicamente corretto e l’assenza di moralità». A due decenni di distanza è abbastanza facile comprendere chi avesse ragione. Wolfe è morto nel 2018, ma i romanzi che ha lasciato - benché in Italia non sia troppo facile rintracciarli in libreria, eccezion fatta per Il falò delle vanità - restano più potente che mai. Negli Stati Uniti l’editore Picador ha deciso di ripubblicarne alcuni dei più noti, tra cui appunto Charlotte Simmons. E rileggendolo oggi è impossibile non pensare allo scontro in corso fra Donald Trump e i vertici dell’università di Harvard. Il prestigioso ateneo al centro del libro di Wolfe si chiama Dupont, ma potrebbe prendere uno qualsiasi dei nomi delle grandi università d’élite statunitensi. La protagonista, Charlotte Simmons, è una giovane intelligentissima che arriva dai monti del North Carolina. È figlia di una famiglia colpita dalla globalizzazione: il padre lavorava in una fabbrica che è stata chiusa per via della delocalizzazione in Asia, e si è dovuto adattare a un pesante impiego da custode e tuttofare. È un uomo grosso dalle mani callose, immerso in una piccola cittadina montana con 900 abitanti. Nel tratteggiarlo, Wolfe aveva già colto il dramma dei forgotten men americani, la spazzatura bianca devastata dall’economia senza confini. Di nuovo si è ributtati nell’attualità: sembra a tratti di rileggere Elegia americana, il libro in cui J.D. Vance racconta le sue origini montanare, la povertà bianca e la frustrazione di un popolo invisibile offeso dalla modernità liquida. Charlotte Simmons è una sorta di J. D. Vance ante litteram: entrambi brillanti, entrambi lanciati in un mondo lontanissimo da quello d’origine. Lo ha notato anche Merve Emre, docente di scrittura creativa e firma della New York Review of Books in un saggio che fa da prefazione alla nuova edizione del romanzo. «Quando uscì, molti giudicarono Charlotte Simmons il romanzo peggiore e più crudo di Wolfe; oggi, offre una genealogia piuttosto accurata del pernicioso conservatorismo elitario che ha nel mirino l’altrettanto elitaria università. Per molto tempo ho pensato di essere Charlotte Simmons; “Charlotte Simmons, c’est moi!”. Ora, capisco che è J.D. Vance». Vero: Wolfe demolisce le ipocrisie dell’appartato universo dei campus, e frusta tanto i liberal quanto i conservatori. La sua eroina Charlotte - bella e pura di cuore - arriva alla Dupont munita soltanto, come scrive Merve Emre, «della sua semplice fede nell’università come nel luogo in cui sarebbe stata finalmente riconosciuta per ciò che era: eccezionale nella mente e nel corpo, e pura nel cuore.Eppure Dupont sembrava anche progettato per mettere alla prova la sua fede», continua Emre. «Gli studenti leggevano e scrivevano pochissimo. Invece, fumavano, bevevano e barcollavano dentro e fuori da feste affollate, dove si urlavano addosso in una lingua strana e ridevano di niente in particolare. Facevano sesso, mai con piacere, e si svegliavano in letti estranei con vergogna e rimorso. Tradivano i loro amici con noncuranza, crudelmente - anche se traditi non era la parola giusta, perché tra loro non c’era alcuna aspettativa di lealtà o rispetto. Charlotte Simmons cercò di elevarsi al di sopra delle lusinghe del sesso, del denaro e dello status sociale, del desiderio fatale di essere qualcuno che tutti conoscevano e di cui tutti parlavano. [...] Ma non riuscì a resistere allo squallore della vita universitaria. Perse la verginità con un bel compagno di confraternita in autunno e cadde in una depressione incurabile, perdendo ogni interesse per i suoi libri, per il suo aspetto, per la vita intellettuale che aveva tanto desiderato guidare, finché non emerse dal suo letargo in primavera come fidanzata dell’attaccante stella della squadra di basket». L’università corrompe Charlotte, moralmente e intellettualmente. Nel suo caso, a metterla alla prova (e ad abbatterla) sono soprattutto la superficialità dei ricchi compagni, l’arrivismo e l’egotismo che la circondano. Forze negative potenti a cui, negli ultimi anni, si è aggiunta l’influenza nefasta del wokismo, fenomeno che Wolfe non ha visto manifestarsi nella sua piena potenza ma di cui ha colto per primo l’avanzare. A differenza di Philip Roth, Wolfe non descrive l’orrore banale della cultura della cancellazione, non depreca il puritanesimo di ritorno dei liberal. Anzi, si può dire che sia lui a farsi puritano per fustigare il malcostume diffuso. Con una differenza: Tom il conservatore, a differenza dei progressisti, non va in cortocircuito, ha sempre saputo dove avrebbero condotto eccessive dosi di lassismo. Nel suo romanzo, gli insegnanti sono spesso obnubilati dal politicamente corretto, pensano alle parole giuste da usare per non offendere e nel contempo fanno finta di non vedere lo scempio che le circonda, lo sfascio generazionale che dovrebbero invece premurarsi di arrestare. Io sono Charlotte Simmons, insomma, era un trailer del futuro dell’Occidente. Come in altre opere di Wolfe, in particolare Le ragioni del sangue, le tensioni razziali e culturali pulsano sempre in sottofondo, si intuisce che siano destinate a deflagrare. Il crollo (morale) dell’impero culturale americano è prefigurato nella sua rovinosa maestà, e sembra che l’unica alternativa possibile sia una sorta di ritorno alle radici. Gli unici puri, nel libro, sono i genitori di Charlotte: gente d’altri tempi, che fatica onestamente, e soffre. E che pur piena di limiti culturali e intellettuali, sa ancora distinguere chiaramente il bene dal male. Cosa che nelle blasonate accademie pare impossibile ai più.
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
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