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2021-07-21
Bullismo a scoppio ritardato. Cacciato compositore delle Olimpiadi
Il compositore Cornelius, al secolo Keigo Oyamada (Getty Images)
Persino il Sol Levante diventa calante al cospetto delle diatribe sul politicamente corretto, soltanto l'ultimo dei guai che attanagliano le Olimpiadi di Tokyo 2020, nate sotto una cattiva stella, allestite nell'incertezza e oggi, a due giorni dall'inaugurazione - si dovrebbe cominciare venerdì 23 luglio - addirittura a rischio cancellazione per gli alti numeri da Covid-19 e un'opinione pubblica diffidente nei confronti della riuscita della manifestazione. Ma procediamo con ordine.
L'ultima mazzata reputazionale all'evento nipponico l'hanno data i social, che hanno chiesto a gran voce la cancellazione di una canzone inclusa nello show inaugurale, 4 minuti di musica elettro-pop composta da un membro dello staff creativo. L'artista in questione si chiama Cornelius, al secolo Keigo Oyamada, cinquantaduenne polistrumentista, dj e produttore tra i più popolari in Giappone. A leggere la notizia, si potrebbe ipotizzare che il suo pezzo fosse inascoltabile, magari frutto di qualche plagio, cose così. Invece la radiazione di Oyamada ha radici nel suo passato di adolescente turbolento. Qualcuno ha scartabellato nella vita del personaggio, capello corvino a caschetto, aria tormentata da esistenzialista, precursore dello stile musicale Shibuya-kei - di gran rilevanza sulla scena internazionale fin dalla fine degli anni Novanta - individuando un episodio non proprio lusinghiero, risalente a circa 40 anni fa.
Oyamada, da liceale, avrebbe maltrattato un compagno disabile sottoponendolo a scherzi da caserma, costringendo il malcapitato, pare, a mangiare le proprie feci, a masturbarsi di fronte ai compagni e legandolo a una sedia mentre gli gettava sulla testa polvere di gesso. La vicenda, non certo commendevole per la biografia del musicista, è ascrivibile a un episodio di ijime, fenomeno sociale giapponese più o meno assimilabile al bullismo scolastico d'occidente. A nulla sono valse le scuse dell'artista: «Mi pento dal profondo del cuore per aver suscitato ricordi dolorosi in molti. Ho rassegnato le mie dimissioni. Voglio riflettere sul mio comportamento e i miei pensieri. Con dolore ho capito che accettare di partecipare all'ideazione della colonna sonora olimpica sarebbe stata una mancanza di rispetto verso molte persone». La pressione degli utenti sui social ha convinto il comitato organizzativo a cacciare Oyamada e a cancellarne la canzone.
Riproponendo una disputa assai attuale, quella sul green pass, in questo caso non il salvacondotto per i vaccinati dal covid, ma il lasciapassare etico capace di decidere della carriera e del futuro di chiunque, persino su episodi molto lontani nel tempo. Al netto della gravità del fatto specifico, è la riproposizione in salsa olimpica delle sovrapposizioni dogmatiche care a un certo pensiero ultraliberal: o la vita privata di un personaggio pubblico è immacolata e rispetta determinati standard di livellamento linguistico e comportamentale, o gli verrà preclusa ogni possibilità di carriera, in barba al talento, alla contingenza, alla propria autosufficienza morale. Ma la girandola di dimissioni olimpiche non finisce qui.
Qualche giorno prima è toccato a Yoshiro Mori, presidente del comitato olimpico, a essere messo nelle condizioni di andarsene. Durante una riunione sul web, gli sarebbe scappato un commento impertinente sulle colleghe femmine. Mori avrebbe detto che «parlano troppo», scavandosi la fossa professionale. Stessa sorte è toccata a Hiroshi Sasaki, direttore creativo di Tokyo 2020: avrebbe proposto a Naomi Watanabe, attrice comica molto nota in patria e dalla corporatura non accostabile a una silfide, di esibirsi durante lo spettacolo inaugurale indossando orecchie da porcellina, aggiungendo commenti poco cortesi sulla massa ponderale della ragazza al cospetto della bilancia. «In occasione delle Olimpiadi, potresti esibirti come Olympig», avrebbe detto, giocando sul termine «pig», che significa porcello, appunto.
Un caso classico di body shaming, letteralmente «derisione del corpo», che ha innescato un prevedibile vespaio. Fino alla beffa definitiva. Le Olimpiadi potrebbero addirittura saltare a causa del covid. «Ci siamo riuniti, ripromettendoci di monitorare la situazione» - ha annunciato il presidente del comitato organizzativo Toshiro Muto rispondendo a chi gli chiedeva se fosse ipotizzabile una cancellazione o un ulteriore rinvio. «Non possiamo prevedere che cosa accadrà con i casi di coronavirus, ma se l'infezione si dovesse diffondere ulteriormente, dovremo consultarci ancora». Forse non è un caso che l'accorta dirigenza Toyota, potentissimo marchio nazionale, abbia ritirato i propri video promozionali dalla manifestazione. Considerati gli auspici non certo tonitruanti, potrebbe non avere del tutto torto.
La schiacciata buonista va a segno. Alla fine la Egonu sarà portabandiera
Portabandiera doveva essere e portabandiera sarà: ma non del tricolore, bensì del vessillo olimpico. Qualcuno dirà che alla pallavolista Paola Egonu - che sarà una degli atleti a reggere la bandiera coi cinque cerchi alla cerimonia d'apertura di Tokyo 2020 - sia quindi andata meglio del previsto. Già, perché i rumors di metà maggio la indicavano come portabandiera dell'Italia, ipotesi che la diretta interessata aveva accolto con giubilo, non senza affibbiare immediatamente alla cosa significato politico.
«Mi piacerebbe prendermi sulle spalle questa responsabilità, davvero», erano state infatti le parole dell'atleta, che aveva tenuto subito a ribadir la sua identità multiculturale: «Io, di colore, italiana e la bandiera. L'ignoranza e certe cose del passato hanno bisogno di un taglio netto. Sono pronta. Facciamola, bum, questa rivoluzione!».
La «rivoluzione» contro «l'ignoranza» era stata però stoppata da un cavillo. Tradizione vuole infatti che i portabandiera siano gente reduce da vittorie olimpiche, requisito di cui la pur talentuosa schiacciatrice del 1998, nata a Cittadella da genitori di nazionalità nigeriana, è priva. Non a caso il tricolore sarà portato da Jessica Rossi, oro nel tiro al volo nel 2012, ed Elia Viviani, oro nel ciclismo su pista nel 2016.
Tuttavia, siccome la «rivoluzione» di Egonu era troppo bella per esser rinviata - specie dopo che la nazionale di Roberto Mancini ha osato trionfare agli Europei di calcio senza neppure un giocatore di colore - ecco che quel che era uscito dalla porta è rientrato dalla finestra. Finestra si fa per dire dato che Egonu sarà in pole position addirittura all'apertura delle olimpiadi.
A dare la notizia alla pallavolista ci ha pensato il presidente del Coni, Giovanni Malagò. Informata dall'onore che le sarà concesso venerdì prossimo, Egonu non ha trattenuto lacrime d'emozione. «Sono molto onorata per l'incarico che mi è stato dato a far parte del Cio per portare la bandiera olimpica», è stato il suo commento. «Mi ritrovo a rappresentare gli atleti di tutto il mondo», ha aggiunto, «ed è una grossa responsabilità: attraverso me esprimerò e sfilerò per ogni atleta di questo pianeta». Dunque la «rivoluzione» che rischiava di saltare per ragioni di protocollo non solo avrà luogo, ma avrà più visibilità che mai.
Beninteso, Paola Egonu è atleta di prima grandezza, e non solo per il suo metro e 93 di statura: ancora nel 2015 era nella nazionale under 18 vincitrice della medaglia d'oro al campionato mondiale, ove si aggiudicò pure il premio Mpv, che sta per Most valuable player. Suo pure il record, pari a 47 punti, di una giocatrice in una singola partita di serie A1. Sul valore della stella dell'Imoco Volley, insomma, non si discute. Ciò tuttavia non attenua l'impressione che aver scelto come portabandiera olimpica la Egonu - che non è certo la sola azzurra di carnagione non bianca, si pensi a Yeman Crippa, nostro mezzofondista che macina record su record - abbia riflessi politici.
«Tricolore, nera e arcobaleno», titolava infatti ieri Open, sottolineando che, oltre al colore della pelle, a caratterizzare l'atleta c'è pure l'identità gender fluid. «Mi ero innamorata di una collega», aveva infatti spiegato tempo fa la pallavolista al Corriere della Sera, «ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo, o di un'altra donna». La sensazione che Egonu sia stata scelta come emblema d'una più ampia «rivoluzione» poggia pure su altri elementi.
Per esempio, lo scorso anno è stata chiamata a doppiare la voce di un personaggio nel film d'animazione Soul di Disney e Pixar, e ad aprile la rivista Forbes l'ha inclusa nientemeno che tra gli under 30 più influenti d'Europa. Nessuno dunque discute i numeri della Egonu, ma è indubbio che ci si stia industriando per farne un personaggio. Lavori in corso.
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Riduci
Cornelius paga le vessazioni a un compagno più di 30 anni fa. Si allunga la lista di big fatti fuori dal tribunale della morale.La pallavolista gender fluid Paola Egonu porterà il vessillo del Cio all'inaugurazione dell'evento.Lo speciale contiene due articoli.Persino il Sol Levante diventa calante al cospetto delle diatribe sul politicamente corretto, soltanto l'ultimo dei guai che attanagliano le Olimpiadi di Tokyo 2020, nate sotto una cattiva stella, allestite nell'incertezza e oggi, a due giorni dall'inaugurazione - si dovrebbe cominciare venerdì 23 luglio - addirittura a rischio cancellazione per gli alti numeri da Covid-19 e un'opinione pubblica diffidente nei confronti della riuscita della manifestazione. Ma procediamo con ordine. L'ultima mazzata reputazionale all'evento nipponico l'hanno data i social, che hanno chiesto a gran voce la cancellazione di una canzone inclusa nello show inaugurale, 4 minuti di musica elettro-pop composta da un membro dello staff creativo. L'artista in questione si chiama Cornelius, al secolo Keigo Oyamada, cinquantaduenne polistrumentista, dj e produttore tra i più popolari in Giappone. A leggere la notizia, si potrebbe ipotizzare che il suo pezzo fosse inascoltabile, magari frutto di qualche plagio, cose così. Invece la radiazione di Oyamada ha radici nel suo passato di adolescente turbolento. Qualcuno ha scartabellato nella vita del personaggio, capello corvino a caschetto, aria tormentata da esistenzialista, precursore dello stile musicale Shibuya-kei - di gran rilevanza sulla scena internazionale fin dalla fine degli anni Novanta - individuando un episodio non proprio lusinghiero, risalente a circa 40 anni fa. Oyamada, da liceale, avrebbe maltrattato un compagno disabile sottoponendolo a scherzi da caserma, costringendo il malcapitato, pare, a mangiare le proprie feci, a masturbarsi di fronte ai compagni e legandolo a una sedia mentre gli gettava sulla testa polvere di gesso. La vicenda, non certo commendevole per la biografia del musicista, è ascrivibile a un episodio di ijime, fenomeno sociale giapponese più o meno assimilabile al bullismo scolastico d'occidente. A nulla sono valse le scuse dell'artista: «Mi pento dal profondo del cuore per aver suscitato ricordi dolorosi in molti. Ho rassegnato le mie dimissioni. Voglio riflettere sul mio comportamento e i miei pensieri. Con dolore ho capito che accettare di partecipare all'ideazione della colonna sonora olimpica sarebbe stata una mancanza di rispetto verso molte persone». La pressione degli utenti sui social ha convinto il comitato organizzativo a cacciare Oyamada e a cancellarne la canzone. Riproponendo una disputa assai attuale, quella sul green pass, in questo caso non il salvacondotto per i vaccinati dal covid, ma il lasciapassare etico capace di decidere della carriera e del futuro di chiunque, persino su episodi molto lontani nel tempo. Al netto della gravità del fatto specifico, è la riproposizione in salsa olimpica delle sovrapposizioni dogmatiche care a un certo pensiero ultraliberal: o la vita privata di un personaggio pubblico è immacolata e rispetta determinati standard di livellamento linguistico e comportamentale, o gli verrà preclusa ogni possibilità di carriera, in barba al talento, alla contingenza, alla propria autosufficienza morale. Ma la girandola di dimissioni olimpiche non finisce qui. Qualche giorno prima è toccato a Yoshiro Mori, presidente del comitato olimpico, a essere messo nelle condizioni di andarsene. Durante una riunione sul web, gli sarebbe scappato un commento impertinente sulle colleghe femmine. Mori avrebbe detto che «parlano troppo», scavandosi la fossa professionale. Stessa sorte è toccata a Hiroshi Sasaki, direttore creativo di Tokyo 2020: avrebbe proposto a Naomi Watanabe, attrice comica molto nota in patria e dalla corporatura non accostabile a una silfide, di esibirsi durante lo spettacolo inaugurale indossando orecchie da porcellina, aggiungendo commenti poco cortesi sulla massa ponderale della ragazza al cospetto della bilancia. «In occasione delle Olimpiadi, potresti esibirti come Olympig», avrebbe detto, giocando sul termine «pig», che significa porcello, appunto. Un caso classico di body shaming, letteralmente «derisione del corpo», che ha innescato un prevedibile vespaio. Fino alla beffa definitiva. Le Olimpiadi potrebbero addirittura saltare a causa del covid. «Ci siamo riuniti, ripromettendoci di monitorare la situazione» - ha annunciato il presidente del comitato organizzativo Toshiro Muto rispondendo a chi gli chiedeva se fosse ipotizzabile una cancellazione o un ulteriore rinvio. «Non possiamo prevedere che cosa accadrà con i casi di coronavirus, ma se l'infezione si dovesse diffondere ulteriormente, dovremo consultarci ancora». Forse non è un caso che l'accorta dirigenza Toyota, potentissimo marchio nazionale, abbia ritirato i propri video promozionali dalla manifestazione. Considerati gli auspici non certo tonitruanti, potrebbe non avere del tutto torto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tokyo-olimpiadi-cornelius-egonu-2653877230.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-schiacciata-buonista-va-a-segno-alla-fine-la-egonu-sara-portabandiera" data-post-id="2653877230" data-published-at="1626859739" data-use-pagination="False"> La schiacciata buonista va a segno. Alla fine la Egonu sarà portabandiera Portabandiera doveva essere e portabandiera sarà: ma non del tricolore, bensì del vessillo olimpico. Qualcuno dirà che alla pallavolista Paola Egonu - che sarà una degli atleti a reggere la bandiera coi cinque cerchi alla cerimonia d'apertura di Tokyo 2020 - sia quindi andata meglio del previsto. Già, perché i rumors di metà maggio la indicavano come portabandiera dell'Italia, ipotesi che la diretta interessata aveva accolto con giubilo, non senza affibbiare immediatamente alla cosa significato politico. «Mi piacerebbe prendermi sulle spalle questa responsabilità, davvero», erano state infatti le parole dell'atleta, che aveva tenuto subito a ribadir la sua identità multiculturale: «Io, di colore, italiana e la bandiera. L'ignoranza e certe cose del passato hanno bisogno di un taglio netto. Sono pronta. Facciamola, bum, questa rivoluzione!». La «rivoluzione» contro «l'ignoranza» era stata però stoppata da un cavillo. Tradizione vuole infatti che i portabandiera siano gente reduce da vittorie olimpiche, requisito di cui la pur talentuosa schiacciatrice del 1998, nata a Cittadella da genitori di nazionalità nigeriana, è priva. Non a caso il tricolore sarà portato da Jessica Rossi, oro nel tiro al volo nel 2012, ed Elia Viviani, oro nel ciclismo su pista nel 2016. Tuttavia, siccome la «rivoluzione» di Egonu era troppo bella per esser rinviata - specie dopo che la nazionale di Roberto Mancini ha osato trionfare agli Europei di calcio senza neppure un giocatore di colore - ecco che quel che era uscito dalla porta è rientrato dalla finestra. Finestra si fa per dire dato che Egonu sarà in pole position addirittura all'apertura delle olimpiadi. A dare la notizia alla pallavolista ci ha pensato il presidente del Coni, Giovanni Malagò. Informata dall'onore che le sarà concesso venerdì prossimo, Egonu non ha trattenuto lacrime d'emozione. «Sono molto onorata per l'incarico che mi è stato dato a far parte del Cio per portare la bandiera olimpica», è stato il suo commento. «Mi ritrovo a rappresentare gli atleti di tutto il mondo», ha aggiunto, «ed è una grossa responsabilità: attraverso me esprimerò e sfilerò per ogni atleta di questo pianeta». Dunque la «rivoluzione» che rischiava di saltare per ragioni di protocollo non solo avrà luogo, ma avrà più visibilità che mai. Beninteso, Paola Egonu è atleta di prima grandezza, e non solo per il suo metro e 93 di statura: ancora nel 2015 era nella nazionale under 18 vincitrice della medaglia d'oro al campionato mondiale, ove si aggiudicò pure il premio Mpv, che sta per Most valuable player. Suo pure il record, pari a 47 punti, di una giocatrice in una singola partita di serie A1. Sul valore della stella dell'Imoco Volley, insomma, non si discute. Ciò tuttavia non attenua l'impressione che aver scelto come portabandiera olimpica la Egonu - che non è certo la sola azzurra di carnagione non bianca, si pensi a Yeman Crippa, nostro mezzofondista che macina record su record - abbia riflessi politici. «Tricolore, nera e arcobaleno», titolava infatti ieri Open, sottolineando che, oltre al colore della pelle, a caratterizzare l'atleta c'è pure l'identità gender fluid. «Mi ero innamorata di una collega», aveva infatti spiegato tempo fa la pallavolista al Corriere della Sera, «ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo, o di un'altra donna». La sensazione che Egonu sia stata scelta come emblema d'una più ampia «rivoluzione» poggia pure su altri elementi. Per esempio, lo scorso anno è stata chiamata a doppiare la voce di un personaggio nel film d'animazione Soul di Disney e Pixar, e ad aprile la rivista Forbes l'ha inclusa nientemeno che tra gli under 30 più influenti d'Europa. Nessuno dunque discute i numeri della Egonu, ma è indubbio che ci si stia industriando per farne un personaggio. Lavori in corso.
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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