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2024-04-07
Togliete dai social le foto dei bimbi
Nel riquadro una recente foto di Chiara Ferragni, con i bimbi di spalle (iStock)
«L’unica cosa che mi tranquillizza è che il figlio di Chiara Ferragni e Fedez avrà una grande possibilità nella vita. Arrivato a 18 anni potrà andare da un qualsiasi avvocato e dirgli: “Avvocato, io dal primo giorno della mia vita sono stato messo sui social senza che nessuno mi avesse chiesto il consenso perché ero un bambino. Secondo lei, c’è la possibilità di chiedere un risarcimento danni?” Caro Leone, ti garantisco che qualsiasi avvocato al mondo ti dirà una e una sola cosa: “Je levamo tutto”».
Questa conversazione immaginaria, profetizzata dal comico Filippo Giardina nel suo spettacolo Formiche, in un futuro non troppo lontano potrebbe divenire realtà. Il mese scorso, infatti, è stata depositata alla Camera la prima proposta di legge italiana volta a regolamentare lo sharenting (crasi tra «share», condividere, e «parent», genitori), ovvero l’esposizione dei minori sui social da parte di madri e padri. Il testo, intitolato «Disposizioni in materia di diritto all’immagine dei minorenni» è stato presentato da Alleanza Verdi Sinistra a firma degli onorevoli Angelo Bonelli, Luana Zanella, Elisabetta Piccolotti e Nicola Fratoianni, e si compone di tre articoli.
Il primo si concentra sulla tutela dei minori di 14 anni e propone una modifica alla legge del 2004 sul sistema radiotelevisivo per introdurre una dichiarazione scritta che i genitori (o i tutori) devono firmare per poter mostrare il volto dei loro figli sui social. La dichiarazione deve poi essere inviata all’Agcom, l’Autorità per le Garanze nelle Comunicazioni. Il vero incubo di «mamme e padri influencer», celebri tendenzialmente per campare a spese dei pargoli, è però la seconda parte del primo articolo: in caso di profitti generati dall’immagine dei minori (la cosiddetta «monetizzazione» dei contenuti) si propone che il denaro venga depositato su un conto bancario intestato al minore, inaccessibile fino al compimento dei 18 anni. È prevista la possibilità di prelievi solo in casi eccezionali, autorizzati dall’autorità giudiziaria. Un bel colpo per gli affari. Anche per le aziende, le quali, in caso di campagne marketing con protagonisti under 14, dovranno chiedere esplicita autorizzazione a chi esercita la responsabilità genitoriale e informare l’Agcom.
Il secondo articolo, invece, riguarda il diritto all’oblio digitale: una volta raggiunti i 14 anni, i giovani possono chiedere la rimozione dai motori di ricerca di contenuti pubblicati online prima di questa età. L’articolo 3 dispone infine che venga aggiornato il Codice di autoregolamentazione tv e minorenni, recepito dalla legge n.112 del 2004, secondo le disposizioni della nuova proposta di legge. Il testo prevede anche l’emanazione di un Dpcm con disposizioni e linee guida per i servizi di piattaforme di condivisione foto e/o video, volto a informare sui rischi della diffusione dell’immagine dei minorenni e a «incoraggiare gli utenti a segnalare contenuti audiovisivi con bambini di età inferiore ai quattordici anni che possano ledere la loro dignità o integrità morale o fisica».
Misure che potrebbero sembrare forse eccessive agli occhi dei più distratti, ma mai come ora necessarie ad arginare la deriva innescata dai social e alimentata dai genitori esibizionisti. Infatti, nell’epoca in cui il narcisismo è un business, i social, fabbriche dell’egotismo per eccellenza, sono divenuti vere e proprie vetrine in cui esporre i più piccoli. I quali sono lo strumento perfetto per macinare facilmente milioni di visualizzazioni e like. Come spiegato nel corso della presentazione della legge alla Camera dalla giornalista e social media strategist Serena Mazzini, le interazione di contenuti che hanno come protagonisti i bambini è circa 3 volte maggiore rispetto ai contenuti con solo adulti. Dati che, ovviamente, non sono sfuggiti alle piattaforme e alle agenzie di comunicazione, che fanno a gara per firmare contratti da decine di migliaia di euro con madri e padri influencer, fin dai primi mesi della gravidanza.
Ma al di là della questione giuridica ed economica e dei rischi per la sicurezza dei bambini (foto e video vanno spesso ad arricchire le gallerie pedopornografiche), l’aspetto più preoccupante dell’esposizione incontrollata dei minori è di carattere morale. Fin da prima della loro nascita, i bambini sono inconsapevolmente esposti al pubblico: basti pensare al caso scuola dei Ferragnez, con post e video fin dal test di gravidanza, come in un reality al quale non hanno mai accettato di partecipare. Proprio come in The Truman show, le vite di migliaia di bambini sono costantemente riprese e condivise con milioni di sconosciuti, che conoscono così i loro gusti, il loro carattere, le loro debolezze, grazie a foto e video che resteranno online per sempre. Sono sempre più numerosi infatti i profili dedicati alla maternità o all’esperienza genitoriale, in cui le madri espongono i figli nei momenti più delicati della giornata, come i pasti, i cambi pannolino e i pisolini, per stimolare la reazione del pubblico e diventare così più appetibili per i brand. Gli influencer sanno infatti che il successo dei loro profili dipende per buona parte dalla percezione di autenticità della loro vita quotidiana, che accresce la fiducia dei follower e il loro attaccamento anche ai bambini, talvolta morboso.
I contenuti spesso sono disturbanti: dalle scenette imbarazzanti con dialoghi imparati a memoria a balletti di bambine ipersessualizzate o bambini malati ripresi nei momenti di dolore o difficoltà. Uno dei trend più visti su TikTok, per esempio, riguarda l’uso del vasino per fare i propri bisogni o i lavaggi nasali, in cui bambini disperati vengono sbattuti sul palcoscenico digitale mentre hanno mal di pancia, soffrono, piangono e urlano. Pensiamo a cosa succederebbe se lo stesso trattamento fosse riservato agli adulti, magari ripresi mentre subiscono un intervento medico, o sono spaventati su una barella o nel proprio letto. L’esposizione si tradurrebbe in senso di impotenza, vergogna e profonda umiliazione. Il minore costantemente esposto, inoltre, una volta cresciuto dovrà confrontarsi con l’immagine costruita sui social, attraverso una narrazione scelta dai genitori. Ognuno di noi, infatti, sceglie quale lato del proprio carattere mostrare, cosa lasciare nel privato e far conoscere alle persone più intime, o a addirittura a nessuno. Un diritto che migliaia di bambini non hanno più. Capire le conseguenze di questa violazione sarà la sfida dei prossimi anni. Oltre a porvi rimedio.
«Senza l’educazione delle famiglie una legge non basta»
Giovanni Ziccardi è professore di Informatica giuridica presso l’Università degli Studi di Milano.
Perché social e aziende incoraggiano l’esposizione dei minori? Il bambino «tira» di più?
«Certo, il dato del minore è il dato del futuro. La società è sempre più anziana e i minori sbarcano sempre prima sul web, già da 5-6 anni hanno smartphone che consentono loro di svolgere attività sulle piattaforme. Una bambina tipica di 9 anni oggi sta 8-10 ore a guardare video. Ogni visione genera introiti per la piattaforma e anche per lo youtuber. Ma soprattutto per la piattaforma. I dati dei bambini sono i dati più richiesti e più cercati dalle aziende oggi. Sono le persone più attive e sono i soggetti più attivi online, perché non sono controllati dai genitori».
Alcuni profili, soprattutto su TikTok, sono vere e proprie vetrine di sfruttamenti e abusi sui minori. Possibile che le piattaforme non abbiano sviluppato sistemi di controllo adeguati?
«I problemi più trascurati dalle piattaforme sono la verifica e il controllo dei contenuti. Le piattaforme non hanno mai investito su questi aspetti. Lasciano il controllo ai genitori. Nell’ottica delle piattaforme moderne, sono i genitori e la famiglia a doversi prendere carico dell’educazione, delle modalità di controllo e della presenza dei minori online. Cosa che oggi non avviene. Un po’ perché c’è l’istituto della famiglia che è in crisi. Un po’ perché non c’è tempo”.
Genitori che andrebbero quindi educati?
«Sì. Lo so che è un tema difficilissimo, ma intervenire su come i genitori stanno educando digitalmente i minori è probabilmente la parte più importante. Se un genitore, già quando il figlio nasce, si comporta in maniera non opportuna, si immagini come potrà educare il minore. Serve un’educazione civica digitale, che si trasmetterebbe, perché i minori sono delle spugne. Guardano come usano gli smartphone i genitori e li usano allo stesso modo».
In linea con gli altri Paesi, in Italia è vietato avere un profilo social sotto i 14 anni. Ci sono genitori, però, che aprono i profili con nome e foto dei figli di anche 2 o 3 anni, tenendone la gestione (scrivendo, per esempio, «managed by mamma e papà»). È legale?
«È legale nel momento in cui non si inganna l’utente. È illegale la creazione di un profilo falso, far credere di essere un’altra persona. Se invece il genitore apre il profilo di un figlio, indicando chiaramente che è un profilo gestito dai genitori, è legittimo. Se non c’è inganno verso l’utente che guarda il profilo, giuridicamente è tutto lecito».
Certo, non c’è inganno verso l’utente ma neanche il consenso del minore, protagonista del profilo.
«l consenso fino alla maggiore età è in capo ai genitori. È come se il minore non avesse il “diritto” al consenso».
Un grosso cortocircuito.
«Assolutamente. Alcuni studi parlano addirittura di minori adulti, sostenendo che i giovanissimi, a 10 anni, 11 anni, 12 anni, possono avere la stessa consapevolezza che avevano le nostre generazioni di adulti. Quindi molti parlano della necessità di abbassare l’età del consenso ai minori, perché molto spesso sono più svegli loro dei genitori, e anche più sensibili e attenti».
Però per i più piccoli così non ci sarà mai tutela, ovviamente non si può abbassare l’età del consenso a 3 anni e allo stesso tempo un bambino così piccolo non ha dato il suo consenso all’apertura di un profilo social.
«Certo, ma come dicevo il tema dell’educazione dei genitori è assai difficile da sviluppare, l’intervento dello Stato nella famiglia, nell’educazione dei genitori, scatena sempre polemiche. Io sono per l’educazione, anche sull’uso dei cellulari da parte degli adulti. È mancato completamente un piano educativo nell’uso di questi strumenti. Un genitore su due che ha in mano lo smartphone non ha la minima idea di come si possa utilizzare in maniera corretta. Se prima non si fa una politica vera di educazione digitale all’uso degli smartphone, non si va da nessuna parte. Agli incontri organizzati nelle scuole, anche medie, ho incontrato migliaia di bambini in questi anni, anche in periodo di pandemia, ma non siamo mai riusciti a incontrare i genitori. Ogni volta che si organizza un incontro per i genitori sull’uso dello smartphone, si trovano le aule vuote».
Trova soddisfacente la proposta di legge da poco presentata al Parlamento italiano sullo sharenting?
«La proposta di legge fa un po’ di confusione, poiché non è dedicata soltanto alla condivisione delle foto da parte dei genitori ma si occupa anche dei cosiddetti baby influencer e dello sfruttamento economico da parte dei genitori. Secondo me, la prima cosa da fare sarebbe di dividere le fattispecie».
Se però un bambino diventa un baby influencer a 5, 6, 7 anni, per esempio, è perché il genitore l’ha piazzato davanti alla telecamera, tendenzialmente con l’obiettivo di incassare le sponsorizzazioni dalle aziende.
«La possibilità che il genitore sfrutti il minore è un tema serio, non nuovo. È fondamentale un intervento delle piattaforme tecnologiche. Ogni questione tecnologica, dal punto di vista giuridico, si può regolamentare in tre ambiti. La legge, l’educazione e l’intervento delle piattaforme. Secondo me andrebbero divisi al 33%. E al momento le piattaforme non stanno facendo niente, come d’altronde i genitori. Allora interviene il diritto, ma l’approccio corretto sarebbe partire con l’educazione digitale e sollecitare le piattaforme a intervenire e investire nella tutela dei soggetti vulnerabili. Invece si ricorre al diritto, ma molto spesso questo approccio è sintomo di un fallimento».
I bebè in vetrina di Ferragnez & C.
L’attenzione mediatica attorno ai neo genitori è il momento ideale per stringere nuovi accordi commerciali. E questo l’hanno capito subito Chiara Ferragni e Fedez, il caso scuola sull’esposizione dei minori sui social. Il post più emblematico, tra le diverse migliaia, è forse quello pubblicato dalla Ferragni subito dopo la nascita della secondogenita Vittoria: nella foto si vede la neonata sulle gambe della madre, mentre entrambe indossano vestiti della Chiara Ferragni collection, poi esauriti in poche ore.
Come dimenticare poi il video estratto delle videocamere di sorveglianza di casa Ferragnez, in cui il figlio dell’influencer scambia parole dolci con la madre, prontamente scaricato, tagliato e sbattuto sui social?
Ma la (ormai ex) coppia di City Life (che, guarda caso, dalla presentazione della proposta di legge ha iniziato a fotografare i figli solo di spalle), è in buona compagnia per quanto riguarda la condivisione senza freni di figli e momenti intimi. A scorrere diversi profili di «influencer», i contenuti inerenti ai bambini e alla gravidanza appaiono pre impostati, con addirittura i test gravidanza sponsorizzati, gender reveal party faraonici interamente offerti dalle aziende per pubblicizzarsi, ecografie in diretta, insieme a passeggini, pannolini e vestitini «supplied», comodo stratagemma per farsi regalare l’universo mondo (dalle vacanze ai croccantini per cani).
Per restare in Italia, si va dal figlio dell’influencer napoletana Chiara Nasti, esposto su Instagram fin dalla prima ecografia, al modello Mariano di Vaio e la moglie Eleonora Brunacci, i quali hanno aperto e gestiscono, fin dalla loro nascita, i profili social dei loro quattro figli (il più «vecchio» nato nel 2016). Gaia Masseroni, è figlia «d’arte» della fashion blogger Elisabetta Bertolini e di Diego Masseroni, che si occupano del suo profilo. La bambina vanta su Instagram circa 32.000 follower e nella sua biografia si legge «fashion blogger e modella».
C’è poi chi giustifica l’esposizione dei minori giocando la carta della battaglia per i diritti civili. È il caso di Carlo Tumino e Christian De Florio, che nel loro profilo «papaperscelta», raccontano la loro quotidianità insieme ai loro due gemelli nati a Las Vegas attraverso utero in affitto. «Ci siamo chiesti tante volte: ma se il nostro progetto editoriale non mostrasse i gemelli, avrebbe la stessa efficacia comunicativa utile a sensibilizzare sull’omogenitorialità? Crediamo di no», spiegavano Tumino e De Florio. Probabilmente, senza i gemelli ci sarebbero anche meno sponsorizzazioni e viaggi offerti.
Il caso più eclatante però proviene dagli Stati Uniti e riguarda Wren Eleanor. La bambina, oggi di 5 anni, è protagonista di un profilo TikTok aperto dalla madre, in cui la piccola è costantemente ripresa nella vita di tutti i giorni. Il profilo ha guadagnato milioni di follower e di conseguenze numerosissime collaborazioni, tra cui Shein, che fruttano decine di migliaia di dollari a post. Alcuni dei video pubblicati dalla madre, però, sono volutamente maliziosi: spesso la bambina è ripresa mentre mangia alimenti di forma fallica (hot dog, pannocchie, zucchine), mentre fa il bagnetto e addirittura mentre gioca con degli assorbenti interni avvicinandoli alle parti intime. La polemica sul profilo di Wren è scoppiata quando un utente ha fatto notare che un video della bambina che si lava era stato salvato oltre 50.000 volte, mentre quello in cui mangiava un wurstel oltre 350.000. Contenuti che collezionano migliaia di commenti inappropriati e sono creati appositamente per strizzare l’occhio ai predatori sessuali. I quali si scambiano informazioni in chat private e gruppi Telegram, creando una rete in cui condividere ogni aspetto del loro interesse verso i bambini, facendo crescere maggiormente gli account più ricchi di contenuti «maliziosi». Un «costo» che tanti genitori divenuti «manager» e sciacalli sono pronti a pagare. O meglio, far pagare ai loro figli.
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Un contenuto con un minore per protagonista ha il triplo delle interazioni. Per questo i più piccoli vengono continuamente lanciati online da influencer e aspiranti tali. Ora un’iniziativa parlamentare vuol mettere qualche paletto.L’esperto Giovanni Ziccardi: «Ormai una bambina di nove anni passa 8-10 ore al giorno a guardare video. Per le aziende è il target principale».I Ferragnez hanno sovraesposto i pargoli (ora fotografati solo di spalle), ma non sono i soli. E negli Usa una «star» di 5 anni viene ripresa in pose volutamente maliziose.Lo speciale contiene tre articoli.«L’unica cosa che mi tranquillizza è che il figlio di Chiara Ferragni e Fedez avrà una grande possibilità nella vita. Arrivato a 18 anni potrà andare da un qualsiasi avvocato e dirgli: “Avvocato, io dal primo giorno della mia vita sono stato messo sui social senza che nessuno mi avesse chiesto il consenso perché ero un bambino. Secondo lei, c’è la possibilità di chiedere un risarcimento danni?” Caro Leone, ti garantisco che qualsiasi avvocato al mondo ti dirà una e una sola cosa: “Je levamo tutto”».Questa conversazione immaginaria, profetizzata dal comico Filippo Giardina nel suo spettacolo Formiche, in un futuro non troppo lontano potrebbe divenire realtà. Il mese scorso, infatti, è stata depositata alla Camera la prima proposta di legge italiana volta a regolamentare lo sharenting (crasi tra «share», condividere, e «parent», genitori), ovvero l’esposizione dei minori sui social da parte di madri e padri. Il testo, intitolato «Disposizioni in materia di diritto all’immagine dei minorenni» è stato presentato da Alleanza Verdi Sinistra a firma degli onorevoli Angelo Bonelli, Luana Zanella, Elisabetta Piccolotti e Nicola Fratoianni, e si compone di tre articoli.Il primo si concentra sulla tutela dei minori di 14 anni e propone una modifica alla legge del 2004 sul sistema radiotelevisivo per introdurre una dichiarazione scritta che i genitori (o i tutori) devono firmare per poter mostrare il volto dei loro figli sui social. La dichiarazione deve poi essere inviata all’Agcom, l’Autorità per le Garanze nelle Comunicazioni. Il vero incubo di «mamme e padri influencer», celebri tendenzialmente per campare a spese dei pargoli, è però la seconda parte del primo articolo: in caso di profitti generati dall’immagine dei minori (la cosiddetta «monetizzazione» dei contenuti) si propone che il denaro venga depositato su un conto bancario intestato al minore, inaccessibile fino al compimento dei 18 anni. È prevista la possibilità di prelievi solo in casi eccezionali, autorizzati dall’autorità giudiziaria. Un bel colpo per gli affari. Anche per le aziende, le quali, in caso di campagne marketing con protagonisti under 14, dovranno chiedere esplicita autorizzazione a chi esercita la responsabilità genitoriale e informare l’Agcom.Il secondo articolo, invece, riguarda il diritto all’oblio digitale: una volta raggiunti i 14 anni, i giovani possono chiedere la rimozione dai motori di ricerca di contenuti pubblicati online prima di questa età. L’articolo 3 dispone infine che venga aggiornato il Codice di autoregolamentazione tv e minorenni, recepito dalla legge n.112 del 2004, secondo le disposizioni della nuova proposta di legge. Il testo prevede anche l’emanazione di un Dpcm con disposizioni e linee guida per i servizi di piattaforme di condivisione foto e/o video, volto a informare sui rischi della diffusione dell’immagine dei minorenni e a «incoraggiare gli utenti a segnalare contenuti audiovisivi con bambini di età inferiore ai quattordici anni che possano ledere la loro dignità o integrità morale o fisica».Misure che potrebbero sembrare forse eccessive agli occhi dei più distratti, ma mai come ora necessarie ad arginare la deriva innescata dai social e alimentata dai genitori esibizionisti. Infatti, nell’epoca in cui il narcisismo è un business, i social, fabbriche dell’egotismo per eccellenza, sono divenuti vere e proprie vetrine in cui esporre i più piccoli. I quali sono lo strumento perfetto per macinare facilmente milioni di visualizzazioni e like. Come spiegato nel corso della presentazione della legge alla Camera dalla giornalista e social media strategist Serena Mazzini, le interazione di contenuti che hanno come protagonisti i bambini è circa 3 volte maggiore rispetto ai contenuti con solo adulti. Dati che, ovviamente, non sono sfuggiti alle piattaforme e alle agenzie di comunicazione, che fanno a gara per firmare contratti da decine di migliaia di euro con madri e padri influencer, fin dai primi mesi della gravidanza.Ma al di là della questione giuridica ed economica e dei rischi per la sicurezza dei bambini (foto e video vanno spesso ad arricchire le gallerie pedopornografiche), l’aspetto più preoccupante dell’esposizione incontrollata dei minori è di carattere morale. Fin da prima della loro nascita, i bambini sono inconsapevolmente esposti al pubblico: basti pensare al caso scuola dei Ferragnez, con post e video fin dal test di gravidanza, come in un reality al quale non hanno mai accettato di partecipare. Proprio come in The Truman show, le vite di migliaia di bambini sono costantemente riprese e condivise con milioni di sconosciuti, che conoscono così i loro gusti, il loro carattere, le loro debolezze, grazie a foto e video che resteranno online per sempre. Sono sempre più numerosi infatti i profili dedicati alla maternità o all’esperienza genitoriale, in cui le madri espongono i figli nei momenti più delicati della giornata, come i pasti, i cambi pannolino e i pisolini, per stimolare la reazione del pubblico e diventare così più appetibili per i brand. Gli influencer sanno infatti che il successo dei loro profili dipende per buona parte dalla percezione di autenticità della loro vita quotidiana, che accresce la fiducia dei follower e il loro attaccamento anche ai bambini, talvolta morboso.I contenuti spesso sono disturbanti: dalle scenette imbarazzanti con dialoghi imparati a memoria a balletti di bambine ipersessualizzate o bambini malati ripresi nei momenti di dolore o difficoltà. Uno dei trend più visti su TikTok, per esempio, riguarda l’uso del vasino per fare i propri bisogni o i lavaggi nasali, in cui bambini disperati vengono sbattuti sul palcoscenico digitale mentre hanno mal di pancia, soffrono, piangono e urlano. Pensiamo a cosa succederebbe se lo stesso trattamento fosse riservato agli adulti, magari ripresi mentre subiscono un intervento medico, o sono spaventati su una barella o nel proprio letto. L’esposizione si tradurrebbe in senso di impotenza, vergogna e profonda umiliazione. Il minore costantemente esposto, inoltre, una volta cresciuto dovrà confrontarsi con l’immagine costruita sui social, attraverso una narrazione scelta dai genitori. Ognuno di noi, infatti, sceglie quale lato del proprio carattere mostrare, cosa lasciare nel privato e far conoscere alle persone più intime, o a addirittura a nessuno. Un diritto che migliaia di bambini non hanno più. Capire le conseguenze di questa violazione sarà la sfida dei prossimi anni. Oltre a porvi rimedio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/togliete-dai-social-foto-bimbi-2667713789.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="senza-leducazione-delle-famiglie-una-legge-non-basta" data-post-id="2667713789" data-published-at="1712599240" data-use-pagination="False"> «Senza l’educazione delle famiglie una legge non basta» Giovanni Ziccardi è professore di Informatica giuridica presso l’Università degli Studi di Milano. Perché social e aziende incoraggiano l’esposizione dei minori? Il bambino «tira» di più? «Certo, il dato del minore è il dato del futuro. La società è sempre più anziana e i minori sbarcano sempre prima sul web, già da 5-6 anni hanno smartphone che consentono loro di svolgere attività sulle piattaforme. Una bambina tipica di 9 anni oggi sta 8-10 ore a guardare video. Ogni visione genera introiti per la piattaforma e anche per lo youtuber. Ma soprattutto per la piattaforma. I dati dei bambini sono i dati più richiesti e più cercati dalle aziende oggi. Sono le persone più attive e sono i soggetti più attivi online, perché non sono controllati dai genitori». Alcuni profili, soprattutto su TikTok, sono vere e proprie vetrine di sfruttamenti e abusi sui minori. Possibile che le piattaforme non abbiano sviluppato sistemi di controllo adeguati? «I problemi più trascurati dalle piattaforme sono la verifica e il controllo dei contenuti. Le piattaforme non hanno mai investito su questi aspetti. Lasciano il controllo ai genitori. Nell’ottica delle piattaforme moderne, sono i genitori e la famiglia a doversi prendere carico dell’educazione, delle modalità di controllo e della presenza dei minori online. Cosa che oggi non avviene. Un po’ perché c’è l’istituto della famiglia che è in crisi. Un po’ perché non c’è tempo”. Genitori che andrebbero quindi educati? «Sì. Lo so che è un tema difficilissimo, ma intervenire su come i genitori stanno educando digitalmente i minori è probabilmente la parte più importante. Se un genitore, già quando il figlio nasce, si comporta in maniera non opportuna, si immagini come potrà educare il minore. Serve un’educazione civica digitale, che si trasmetterebbe, perché i minori sono delle spugne. Guardano come usano gli smartphone i genitori e li usano allo stesso modo». In linea con gli altri Paesi, in Italia è vietato avere un profilo social sotto i 14 anni. Ci sono genitori, però, che aprono i profili con nome e foto dei figli di anche 2 o 3 anni, tenendone la gestione (scrivendo, per esempio, «managed by mamma e papà»). È legale? «È legale nel momento in cui non si inganna l’utente. È illegale la creazione di un profilo falso, far credere di essere un’altra persona. Se invece il genitore apre il profilo di un figlio, indicando chiaramente che è un profilo gestito dai genitori, è legittimo. Se non c’è inganno verso l’utente che guarda il profilo, giuridicamente è tutto lecito». Certo, non c’è inganno verso l’utente ma neanche il consenso del minore, protagonista del profilo. «l consenso fino alla maggiore età è in capo ai genitori. È come se il minore non avesse il “diritto” al consenso». Un grosso cortocircuito. «Assolutamente. Alcuni studi parlano addirittura di minori adulti, sostenendo che i giovanissimi, a 10 anni, 11 anni, 12 anni, possono avere la stessa consapevolezza che avevano le nostre generazioni di adulti. Quindi molti parlano della necessità di abbassare l’età del consenso ai minori, perché molto spesso sono più svegli loro dei genitori, e anche più sensibili e attenti». Però per i più piccoli così non ci sarà mai tutela, ovviamente non si può abbassare l’età del consenso a 3 anni e allo stesso tempo un bambino così piccolo non ha dato il suo consenso all’apertura di un profilo social. «Certo, ma come dicevo il tema dell’educazione dei genitori è assai difficile da sviluppare, l’intervento dello Stato nella famiglia, nell’educazione dei genitori, scatena sempre polemiche. Io sono per l’educazione, anche sull’uso dei cellulari da parte degli adulti. È mancato completamente un piano educativo nell’uso di questi strumenti. Un genitore su due che ha in mano lo smartphone non ha la minima idea di come si possa utilizzare in maniera corretta. Se prima non si fa una politica vera di educazione digitale all’uso degli smartphone, non si va da nessuna parte. Agli incontri organizzati nelle scuole, anche medie, ho incontrato migliaia di bambini in questi anni, anche in periodo di pandemia, ma non siamo mai riusciti a incontrare i genitori. Ogni volta che si organizza un incontro per i genitori sull’uso dello smartphone, si trovano le aule vuote». Trova soddisfacente la proposta di legge da poco presentata al Parlamento italiano sullo sharenting? «La proposta di legge fa un po’ di confusione, poiché non è dedicata soltanto alla condivisione delle foto da parte dei genitori ma si occupa anche dei cosiddetti baby influencer e dello sfruttamento economico da parte dei genitori. Secondo me, la prima cosa da fare sarebbe di dividere le fattispecie». Se però un bambino diventa un baby influencer a 5, 6, 7 anni, per esempio, è perché il genitore l’ha piazzato davanti alla telecamera, tendenzialmente con l’obiettivo di incassare le sponsorizzazioni dalle aziende. «La possibilità che il genitore sfrutti il minore è un tema serio, non nuovo. È fondamentale un intervento delle piattaforme tecnologiche. Ogni questione tecnologica, dal punto di vista giuridico, si può regolamentare in tre ambiti. La legge, l’educazione e l’intervento delle piattaforme. Secondo me andrebbero divisi al 33%. E al momento le piattaforme non stanno facendo niente, come d’altronde i genitori. Allora interviene il diritto, ma l’approccio corretto sarebbe partire con l’educazione digitale e sollecitare le piattaforme a intervenire e investire nella tutela dei soggetti vulnerabili. Invece si ricorre al diritto, ma molto spesso questo approccio è sintomo di un fallimento». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/togliete-dai-social-foto-bimbi-2667713789.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-bebe-in-vetrina-di-ferragnez-c" data-post-id="2667713789" data-published-at="1712599240" data-use-pagination="False"> I bebè in vetrina di Ferragnez & C. L’attenzione mediatica attorno ai neo genitori è il momento ideale per stringere nuovi accordi commerciali. E questo l’hanno capito subito Chiara Ferragni e Fedez, il caso scuola sull’esposizione dei minori sui social. Il post più emblematico, tra le diverse migliaia, è forse quello pubblicato dalla Ferragni subito dopo la nascita della secondogenita Vittoria: nella foto si vede la neonata sulle gambe della madre, mentre entrambe indossano vestiti della Chiara Ferragni collection, poi esauriti in poche ore. Come dimenticare poi il video estratto delle videocamere di sorveglianza di casa Ferragnez, in cui il figlio dell’influencer scambia parole dolci con la madre, prontamente scaricato, tagliato e sbattuto sui social? Ma la (ormai ex) coppia di City Life (che, guarda caso, dalla presentazione della proposta di legge ha iniziato a fotografare i figli solo di spalle), è in buona compagnia per quanto riguarda la condivisione senza freni di figli e momenti intimi. A scorrere diversi profili di «influencer», i contenuti inerenti ai bambini e alla gravidanza appaiono pre impostati, con addirittura i test gravidanza sponsorizzati, gender reveal party faraonici interamente offerti dalle aziende per pubblicizzarsi, ecografie in diretta, insieme a passeggini, pannolini e vestitini «supplied», comodo stratagemma per farsi regalare l’universo mondo (dalle vacanze ai croccantini per cani). Per restare in Italia, si va dal figlio dell’influencer napoletana Chiara Nasti, esposto su Instagram fin dalla prima ecografia, al modello Mariano di Vaio e la moglie Eleonora Brunacci, i quali hanno aperto e gestiscono, fin dalla loro nascita, i profili social dei loro quattro figli (il più «vecchio» nato nel 2016). Gaia Masseroni, è figlia «d’arte» della fashion blogger Elisabetta Bertolini e di Diego Masseroni, che si occupano del suo profilo. La bambina vanta su Instagram circa 32.000 follower e nella sua biografia si legge «fashion blogger e modella». C’è poi chi giustifica l’esposizione dei minori giocando la carta della battaglia per i diritti civili. È il caso di Carlo Tumino e Christian De Florio, che nel loro profilo «papaperscelta», raccontano la loro quotidianità insieme ai loro due gemelli nati a Las Vegas attraverso utero in affitto. «Ci siamo chiesti tante volte: ma se il nostro progetto editoriale non mostrasse i gemelli, avrebbe la stessa efficacia comunicativa utile a sensibilizzare sull’omogenitorialità? Crediamo di no», spiegavano Tumino e De Florio. Probabilmente, senza i gemelli ci sarebbero anche meno sponsorizzazioni e viaggi offerti. Il caso più eclatante però proviene dagli Stati Uniti e riguarda Wren Eleanor. La bambina, oggi di 5 anni, è protagonista di un profilo TikTok aperto dalla madre, in cui la piccola è costantemente ripresa nella vita di tutti i giorni. Il profilo ha guadagnato milioni di follower e di conseguenze numerosissime collaborazioni, tra cui Shein, che fruttano decine di migliaia di dollari a post. Alcuni dei video pubblicati dalla madre, però, sono volutamente maliziosi: spesso la bambina è ripresa mentre mangia alimenti di forma fallica (hot dog, pannocchie, zucchine), mentre fa il bagnetto e addirittura mentre gioca con degli assorbenti interni avvicinandoli alle parti intime. La polemica sul profilo di Wren è scoppiata quando un utente ha fatto notare che un video della bambina che si lava era stato salvato oltre 50.000 volte, mentre quello in cui mangiava un wurstel oltre 350.000. Contenuti che collezionano migliaia di commenti inappropriati e sono creati appositamente per strizzare l’occhio ai predatori sessuali. I quali si scambiano informazioni in chat private e gruppi Telegram, creando una rete in cui condividere ogni aspetto del loro interesse verso i bambini, facendo crescere maggiormente gli account più ricchi di contenuti «maliziosi». Un «costo» che tanti genitori divenuti «manager» e sciacalli sono pronti a pagare. O meglio, far pagare ai loro figli.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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