2024-10-21
Stefano Terigi: «Senza stella Michelin sono più libero»
I cuochi Benedetto Rullo, Stefano Terigi e Lorenzo Stefanini gestiscono il Giglio, storico locale di Lucca
Il cuoco ristoratore: «Quel titolo mi vincolava a proporre menù e stili artefatti, in cui non mi riconoscevo. E così, insieme ai miei due soci, l’ho restituito. Ora ho abbassato i prezzi e propongo piatti del territorio».Con Vasco Rossi si può intonare: c’è chi dice no. Perché c’è qualcosa che non va in questo cielo... di stelle. Il 5 novembre si tiene a Modena la messa cantata della gastronomia italiana (e non solo): si presenta come ogni anno la guida Michelin, detta «la rossa» che è una sorta di cavalierato all’onor culinario. Ma ha ancora la forza di un tempo? E soprattutto rappresenta davvero il punto d’incontro tra chi aspira a cucinare al massimo e chi desidera mangiare al miglior grado di qualità? A fare il gran rifiuto rimandando al mittente le stelle sono stati molti nel mondo. Il primo in Italia a dire «non m’interessa» fu Gualtiero Marchesi. Dopo Marchesi ha fatto rumore la rinuncia al «macaron» (le chiamano stelle, ma in realtà sono bottoni quelli che designano i punteggi Michelin) di Donatella Vogogna - ostessa di Ovigno nell’Alessandrino - che per sentirsi libera disse «no grazie», e di recente anche Yoji Tokuyoshi, ex sous chef di Massimo Bottura, ha preferito farne a meno. Ora ci sono tre ragazzi toscani - cucinano e gestiscono un locale storico e affascinante a Lucca: il Giglio - che hanno scelto la libertà gastronomica. Benedetto Rullo, Lorenzo Stefanini e Stefano Terigi hanno mandato una garbata lettera alla Michelin Italia dicendo: la stella non fa più per noi.Stefano Terigi, perché avete detto no alla stella?«Perché volevamo tornare noi stessi, felici di cucinare a casa nostra come meglio ci piace riacquistando la libertà di interpretare il cibo come vogliamo noi, sentendoci perfettamente a disagio nel nostro locale».Un locale storico che sta davanti al teatro del Giglio tempio della lirica: di Rossini come di Puccini. Avete deciso di cantare fuori dal coro?«Abbiamo deciso di fare la nostra musica. Sì, il nostro ristorante sta in un palazzo del Settecento, tutto affrescato. Ma volevamo che la gente lo godesse in piena libertà. Quanto alla musica, un rognone che sfrigola nel burro è come la partitura di Turandot».Come dire che se hai la stella non puoi più essere te stesso?«In un certo senso sì. Ma premetto che io come Lorenzo e Benedetto non abbiamo nulla contro la Michelin. Loro sono molto rigorosi e svolgono egregiamente il compito che si sono dati; semplicemente loro confezionano un vestito che a noi non piace più. La cucina è in larghissima misura interpretazione personale del modo per soddisfare il bisogno del cliente e se stai dentro il perimetro della Michelin, o meglio se vuoi rimare dentro il perimetro della “rossa” non puoi farlo fino in fondo. Perciò abbiamo detto: noi ci ripigliamo noi stessi, le stelle staranno a guardare».In che senso la stella condiziona? Che significa? Che devi cucinare come piace alla Michelin? «So di diversi casi di cuoche e cuochi che si sono lamentati della gabbia Michelin: c’è chi lo ha fatto perché non ha condiviso il giudizio o per contestare il metodo con cui si stilano le recensioni e si formulano i giudizi. Noi niente di tutto questo. Abbiamo sperimentato sul nostro ristorante che se stai dentro il perimetro della stella Michelin devi diventare un’altra cosa. Loro tendono a definire, e lo hanno fatto, un certo tipo di cucina. Noi siamo invece sempre stati un ristorante in perenne trasformazione. Loro non ti impongono niente, ma è indubbio che hanno creato un genere di ristorazione: devi avere quei coperti, quelle luci, quei vini, quel menù. E a noi tutto questo stava stretto. Alla lunga questa stella ci ha allontanati dal nostro modo di essere; non avevamo più i nostri clienti».Eppure c’è chi fa carte false per avere il “macaron”. Come se lo spiega?«Perché è sicuramente un’ottima occasione di visibilità. Ma il prezzo che noi personalmente rischiavamo di pagare ci è sembrato alla lunga troppo alto. Noi eravamo nella strana condizione che i nostri clienti non venivano perché intimoriti sia dai prezzi, ma anche dallo stile che dovevamo tenere e che era per noi artefatto. I clienti tipo Michelin venivano, ma con sospetto perché noi non siamo perfettamente allineati ai canoni della “rossa”».Perché voi cosa siete?«Siamo un ristorante di alta qualità che ha una storia - il Giglio sta a Lucca dal 1979 - gestito da tre cuochi che sono anche amici, che cucinano per passione e hanno grande rispetto del loro territorio e traggono dal luogo dove vivono ispirazione per i loro piatti. Se mi imponi un menù degustazione, io non posso dare al mio cliente l’occasione di degustare solo una pietanza o di sperimentare una mia proposta».Stefano Terigi come diventa cuoco, con l’alberghiero?«Ma neanche per sogno! Io sono laureato a Venezia in arti visive. Sono diventato cuoco si potrebbe dire per doppio amore della cucina e per una ragazza. Stavo con una compagna a Ravenna e sua mamma cucinava sempre, e io passavo più ore in cucina con lei che con la figlia. Un giorno, siccome realizzavo documentari, mi è capitato di filmare la ricerca e l’uso gastronomico delle erbe spontanee e da lì è nata l’esigenza di essere cuoco. Tant’è che la mia tesi l’ho fatta su Ferran Adrià esplorando l’estetica dei suoi piatti.»A proposito di estetica: Aristotele dice che i sensi estetici sono solo la vista e l’udito, gli altri sono solo estesia. D’accordo?«No, semmai la fruizione gastronomica è sinestetica. Io sono cuoco e ristoratore e quando uno entra al Giglio deve avere un’esperienza compiuta, la sua sensorialità deve essere tutta sollecitata e soddisfatta. Ecco, questo è un altro aspetto che rende la stella un vincolo: devi essere concentrato sulla performance gastronomica, invece io voglio essere concentrato sulla soddisfazione del cliente».E l’incontro con Benedetto e Lorenzo quando c’è stato?«Lorenzo è la continuità della famiglia che ha gestito dall’inizio il Giglio; con Benedetto si sono conosciuti ad Alma, l’istituzione di istruzione gastronomica superiore di Parma. Ma io e Lorenzo siamo stati insieme dalle medie, così è venuto naturale unire passioni e sforzi».E quando è arrivata la stella?«Eravamo contenti: ce l’hanno data nel 2018 a valere sull’anno successivo. Era un traguardo, piano piano è diventata un confine. E quando abbiamo comunicato che la restituivamo ci hanno detto: non è possibile. Ma noi la decisione l’avevano già presa. Certo se vengono gli ispettori della Michelin sono sempre benvenuti, ma a noi il “macaron” non interessa più. È un vestito da sera che ci va stretto».Cosa avete cambiato?«Abbiamo aumentato i coperti, abbiamo reso il servizio meno formale, abbiamo mantenuto sì il menù degustazione ma ora si può scegliere anche un solo piatto, abbiamo abbassato un po’ il prezzo, abbiamo introdotto piatti di territorio. Facciamo il rognone trifolato passato nel burro, sfumato e col prezzemolo, le animelle prima lessate, poi fritte ingentilite con pinoli, cipolla e uvetta, le zuppe. Creiamo sulla scorta di una tradizione che ci stimola. Ora di media da noi si spendono sugli 80 euro, ma con 60 si può mangiare bene».C’è un piatto che può dare la dimensione del cambiamento dalla stella a oggi?«Ce ne sono diversi, ma uno potrebbe essere emblematico. Prima facevamo una zuppetta di pesce con quattro brodi diversi, in tre cotture, un piatto costruito, lungo da preparare. Quei sapori sono rimasti, ma ora sono diventati una zuppa di farro - quello della nostra Garfagnana è forse il migliore del mondo - in salsa di cacciucco».Dei cuochi che si fanno chiamare per forza chef e anelano a tutte le stelle, ora visti da di fuori che giudizio resta? «Che ognuno fa quello che sa o crede di poter fare, i cuochi che fanno ricerca sono vitali per la cucina. Per parte nostra noi con la stella stavamo gestendo un ristorante e una cucina che non ci appartenevano più, che non erano più la nostra espressione. Resta il fatto che la cucina italiana è diventata forse la migliore del mondo, e non è necessariamente quella stellata».La Michelin è la punta di una comunicazione pervasiva sulla cucina ora appannaggio anche dei blogger, delle recensioni in internet. Non c’è un effetto spiazzamento? E il cliente è consapevole delle scelte che compie?«I clienti che abbiamo riacquisito dopo la scelta di lasciare la stella a me sembrano molto consapevoli. Tolto quello che poteva essere un timore reverenziale verso la stella mi sembrano molto più liberi e soddisfatti della scelta. Con i clienti cerchiamo di creare un’empatia, chi mangia in modo intelligente parla la mia stessa lingua. Gli altri che vogliono ostentare probabilmente non sono interessati alla cucina. Quanto alla comunicazione è sì sovrabbondante, ma io sono un confusionario di mio, non mi disturba. Ma neppure mi esalta».Si dice che la ristorazione non trova più personale, è vero?«Che i giovani facciano fatica a pensare al lavoro come mezzo di vita mi pare assodato, ma forse dovremmo interrogarci tutti sul perché accade. È però altrettanto vero che da una paio di anni a questa parte si hanno meno difficoltà a trovare personale rispetto a quattro o cinque anni addietro. La cucina è fisicamente impegnativa, la sala è dura e sono professioni che assorbono molto. Non avere più la stella consente a noi e a chi lavora con noi di avere una maggiore libertà. Resta il fatto che noi tre ce lo siamo scelti e lo facciamo con passione, anzi io non vorrei fare niente altro».Voi siete molto giovani, come fate con i figli, le famiglie?«Siamo in tre anche per questo: impostiamo i piatti, poi facciamo i turni. Anche se capita che andiamo in giro a esplorare altri ristoranti insieme. Perché per noi cucinare non è una professione, è prima di tutto una passione. Anche se le stelle ora la stanno a guardare».