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2022-06-21
Taxi del mare in attesa con 850 clandestini
Ansa
Tre taxi del mare bussano alle porte dell’Italia con 850 passeggeri da scaricare, mentre il flusso sulle coste calabresi e siciliane, prese di punta dagli scafisti, non si arresta. Con gli hotspot che scoppiano il Viminale sembra non sapere che pesci prendere. E temporeggia.
A poco meno di 20 miglia da Pozzallo è ferma da tre giorni la tedesca Sea Eye 4 con 474 persone a bordo: «Alcuni hanno già trascorso sette notti in mare», avverte l’equipaggio, «un tempo troppo lungo per persone esauste, molte delle quali necessitano di cure a terra». E anche se in 18 sono stati evacuati perché le condizioni di salute si erano fatte gravi, la vicenda ricorda da vicino quella della Open Arms (agosto 2019), che ha prodotto un processo contro Matteo Salvini. In coda, subito dietro la Sea Eye 4, c’è la spagnola Aita Mari con 112 passeggeri a bordo da sei giorni. «Meritano un’attenzione dignitosa e una risposta rapida», affermano dalla Ong. Ce ne sono 261 sulla Sea Watch 4, che ha scelto Lampedusa: «Dopo quasi 24 ore di mancata assistenza da parte di Italia e Malta, la nave ha preso a bordo anche le 96 persone soccorse da un mercantile», accusa la Ong tedesca. E con le rotte totalmente incontrollate e i porti aperti c’è anche una barca dispersa tra Tunisia e Italia. Domenica sera Alarm Phone era stata allertata per un’imbarcazione partita dal porto tunisino di Sfax per raggiungere Lampedusa. Da allora è irrintracciabile.
Nel frattempo le Procure stanno cercando di contrastare le frenetiche attività degli scafisti. Ieri, a Siracusa, gli investigatori della Squadra mobile ne hanno fermati due, entrambi turchi, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché avrebbero portato a riva 83 tra egiziani e siriani il 18 giugno. Uno dei due fermati è stato trovato in possesso di armi e munizioni (21 cartucce di vario calibro e due coltelli a serramanico). Anche in Calabria ci sono due presunti scafisti fermati: hanno tentato di avvicinarsi alla costa della Locride con una barca a vela con a bordo ben 135 afghani. Sono un turco e un siriano. I sospetti sono emersi subito dopo lo sbarco dell’altro giorno a Roccella. Al momento c’è un’attività di polizia giudiziaria condotta dalla Squadra mobile di Reggio Calabria e dal Commissariato di Siderno, ma non sono ancora stati emessi provvedimenti dall’autorità giudiziaria. E ieri, sempre a Roccella, ne sono arrivati altri 137, anche questi afghani. Viaggiavano su un veliero che è stato intercettato a largo della costa. Ora sono tutti nella tensostruttura fatta costruire lo scorso anno dal Viminale sul molo, che comincia a riempirsi. Come a Lampedusa, dove la Prefettura per cercare di alleggerire l’hotspot sta spedendo con degli autobus per l’Italia i richiedenti asilo.
«Il dato delle registrazioni in hotspot è tornato simile a quello del 2017, ma con una prevalenza di presenze a Lampedusa pari a quattro volte quella raggiunta in quell’anno», tuona il Garante dei diritti dei detenuti Mauro Palma, certificando l’agghiacciante ritorno al passato targato Draghi-Lamorgese. «Anche la composizione», spiega il Garante, «è stata simile al passato: la prevalenza è di persone tunisine, circa un terzo del totale, seguite da quelle egiziane».
Ma c’è un altro dato che fa franare miseramente la propaganda messa in campo dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese: «Nel 2021 meno della metà delle persone transitate nei Centri per il rimpatrio è stata effettivamente rimpatriata. L’inefficienza del sistema permane». E smentisce Lamorgese, che qualche giorno fa ha affermato che «l’accoglienza è un problema strutturale»: «Il tema», denuncia il Garante, «continua a essere affrontato in termini emergenziali e non strutturali, quasi fosse ancora un problema nuovo». «In Italia dopo due anni di pandemia gli immigrati clandestini non possono più sbarcare dalla mattina alla sera senza più controllo e con 5 milioni di italiani in povertà. Non possiamo vedere sbarchi senza limiti», ha detto ieri Salvini. «Con oltre 800 migranti su navi di Ong che sventolano bandiere non italiane a largo delle nostre coste, vorremmo sapere dove è finita la promessa di aiuto tanto sbandierata dall’Ue e salutata con toni trionfalistici da Lamorgese solo venerdì scorso», ha commentato il deputato di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli, che ha aggiunto: «Le promesse non mantenute sono la causa della continua pressione a cui è sottoposta l’Italia. Abbiamo chiesto in ogni modo il dettaglio del nuovo accordo annunciato ma evidentemente dopo la “sòla” degli accordi di Malta siamo di fronte all’ennesima beffa». E ha cercato di stanare il ministro: «Lamorgese ci dica a cosa è vincolata l’Italia e come intende rispondere alle richieste delle Ong. Di sicuro non può permettersi nuovi sbarchi, quei migranti dovrebbero essere dirottati altrove e magari proprio in quei Paesi che hanno la medesima bandiera delle navi che li trasportano». E anche Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, è sulla stessa linea: «Basta scaricabarile, l’Italia non può permettersi un’estate di sbarchi».
L’Ue fischietta, il Viminale dorme. Qualcuno svegli la Lamorgese
Ha chiesto un «porto sicuro» per tre volte ma nessuno le ha risposto; la grande truffa dell’Europa si fonda sul silenzio. Quando la Sea Eye 4 ha lanciato l’emergenza la prima volta era ancora in acque libiche e aveva a bordo 370 migranti; nessun problema, si punta come al solito sull’Italia. La rotta porta a Lampedusa ed eventualmente ai porti siciliani di Marina di Ragusa e Pozzallo, il computer di bordo ce l’ha in memoria. Il giorno successivo altra richiesta in acque internazionali dalla nave baltica dell’Ong tedesca, e altro silenzio; nel frattempo i disperati erano diventati 488. Alla terza richiesta, ieri, non c’era neppure bisogno di rispondere: la prua solcava già acque italiane, ormai si va a Pozzallo in automatico. Formalismi e consuetudine rispettati; a questo punto basta sapere il numero della banchina d’ormeggio.
Il business dell’accoglienza comincia così e l’arrivo di oltre 850 clandestini in un giorno (ai 488 vanno aggiunti i 112 della spagnola Aita Mari e i 261 della Sea Watch 4) fa riesplodere il dramma di un’emergenza infinita, che nasce e si sviluppa senza una parola del Viminale. Il silenzio avalla la consuetudine e impedisce la redistribuzione. Tutto avviene come se si trattasse di shuttle o di traghetti, e allora sarebbe il caso di ufficializzare il tableau degli orari. Per Bruxelles è una manna, sembra che il problema neppure esista. Eppure il viaggio dei nuovi schiavi può essere monitorato ogni minuto grazie alle informazioni che le stesse Ong postano sui social in modo limpido e compulsivo. Nessuna imbarcazione che chiede asilo all’Italia viene dirottata a Malta, in Spagna, in Francia o in Grecia. Non esiste coordinamento e la solidarietà internazionale è un concetto privo di significato.
Il sistema è questo, la vergogna di un Paese senza sovranità territoriale è nei fatti. E Lampedusa è nuovamente al collasso: l’hotspot che può farsi carico di 350 persone ne ha più di 1.500. In questi casi la nave Diciotti ne imbarca una parte e li scarica ad Augusta, dove vengono stipati nei pullman. Destinazione (anche qui silenziosa), le altre regioni italiane per la felicità di associazioni e cooperative che hanno ricominciato a fatturare alla grande. E poi le periferie degradate, l’alta percentuale di miseria, l’impossibilità di assorbimento, la radicalizzazione, il rigetto talvolta violento nei confronti della società che crea emarginati. Infine casi come quello di Peschiera. Precisi a Saint-Denis a Parigi o al quartiere Ariane a Nizza 20 anni fa.
Uno scenario desolante che ha come responsabile principale il ministro Luciana Lamorgese, teorica dell’accoglienza diffusa (è la dottrina del Pd e di Sergio Mattarella). In tre anni e due governi non è riuscita a compiere neppure il primo passo verso il coinvolgimento politico dell’Europa al rispetto degli accordi di Malta. Fu lei a firmarli, fu ancora lei a sottolineare la svolta dopo la stagione dei porti chiusi del suo predecessore Matteo Salvini. I termini erano contenuti in due parole: redistribuzione (dei flussi in Europa) e rotazione (dei porti). Ora siamo alla beffa. Nessuna redistribuzione, tranne qualche pietoso e sporadico segnale di Portogallo, Francia e Germania. E nessuna rotazione, se non quella provocatoria fra Lampedusa, Siracusa, Pozzallo, Marina di Ragusa e Catania.
Due mesi fa a Venezia, nel summit fra i Paesi europei del Mediterraneo, Lamorgese ha ribadito: «Auspichiamo un adeguato meccanismo di redistribuzione che dovrà coinvolgere un numero ampio di Stati membri». Parole, le solite, mentre il silenzio delle istituzioni continua a coprire rotte percorse secondo automatismi collaudati. I numeri raddoppiano, triplicano e la ministra abbozza, alimentando una passività che non ha nulla di operativo. A questo punto è più comprensibile la posizione di Laura Boldrini, che con il suo «accogliamo tutti» ottiene almeno un dividendo elettorale. Il corto circuito è completo, ma adesso siamo «buoni» e facciamo finta che non esista il lungo tragitto degli schiavi. La nostra è una coscienza a forma di salvagente. Con il buco.
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Davanti alle nostre coste tre navi delle Ong aspettano di poter sbarcare: Sea Eye 4 ne ha 474, Aita Mari 112 e Sea Watch 261. Sono tutte imbarcazioni straniere, ma vengono qui in automatico. Per non parlare degli scafisti che approdano a getto continuo.I numeri degli arrivi si impennano ma le redistribuzioni promesse restano sulla carta.Lo speciale contiene due articoli.Tre taxi del mare bussano alle porte dell’Italia con 850 passeggeri da scaricare, mentre il flusso sulle coste calabresi e siciliane, prese di punta dagli scafisti, non si arresta. Con gli hotspot che scoppiano il Viminale sembra non sapere che pesci prendere. E temporeggia. A poco meno di 20 miglia da Pozzallo è ferma da tre giorni la tedesca Sea Eye 4 con 474 persone a bordo: «Alcuni hanno già trascorso sette notti in mare», avverte l’equipaggio, «un tempo troppo lungo per persone esauste, molte delle quali necessitano di cure a terra». E anche se in 18 sono stati evacuati perché le condizioni di salute si erano fatte gravi, la vicenda ricorda da vicino quella della Open Arms (agosto 2019), che ha prodotto un processo contro Matteo Salvini. In coda, subito dietro la Sea Eye 4, c’è la spagnola Aita Mari con 112 passeggeri a bordo da sei giorni. «Meritano un’attenzione dignitosa e una risposta rapida», affermano dalla Ong. Ce ne sono 261 sulla Sea Watch 4, che ha scelto Lampedusa: «Dopo quasi 24 ore di mancata assistenza da parte di Italia e Malta, la nave ha preso a bordo anche le 96 persone soccorse da un mercantile», accusa la Ong tedesca. E con le rotte totalmente incontrollate e i porti aperti c’è anche una barca dispersa tra Tunisia e Italia. Domenica sera Alarm Phone era stata allertata per un’imbarcazione partita dal porto tunisino di Sfax per raggiungere Lampedusa. Da allora è irrintracciabile. Nel frattempo le Procure stanno cercando di contrastare le frenetiche attività degli scafisti. Ieri, a Siracusa, gli investigatori della Squadra mobile ne hanno fermati due, entrambi turchi, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché avrebbero portato a riva 83 tra egiziani e siriani il 18 giugno. Uno dei due fermati è stato trovato in possesso di armi e munizioni (21 cartucce di vario calibro e due coltelli a serramanico). Anche in Calabria ci sono due presunti scafisti fermati: hanno tentato di avvicinarsi alla costa della Locride con una barca a vela con a bordo ben 135 afghani. Sono un turco e un siriano. I sospetti sono emersi subito dopo lo sbarco dell’altro giorno a Roccella. Al momento c’è un’attività di polizia giudiziaria condotta dalla Squadra mobile di Reggio Calabria e dal Commissariato di Siderno, ma non sono ancora stati emessi provvedimenti dall’autorità giudiziaria. E ieri, sempre a Roccella, ne sono arrivati altri 137, anche questi afghani. Viaggiavano su un veliero che è stato intercettato a largo della costa. Ora sono tutti nella tensostruttura fatta costruire lo scorso anno dal Viminale sul molo, che comincia a riempirsi. Come a Lampedusa, dove la Prefettura per cercare di alleggerire l’hotspot sta spedendo con degli autobus per l’Italia i richiedenti asilo.«Il dato delle registrazioni in hotspot è tornato simile a quello del 2017, ma con una prevalenza di presenze a Lampedusa pari a quattro volte quella raggiunta in quell’anno», tuona il Garante dei diritti dei detenuti Mauro Palma, certificando l’agghiacciante ritorno al passato targato Draghi-Lamorgese. «Anche la composizione», spiega il Garante, «è stata simile al passato: la prevalenza è di persone tunisine, circa un terzo del totale, seguite da quelle egiziane».Ma c’è un altro dato che fa franare miseramente la propaganda messa in campo dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese: «Nel 2021 meno della metà delle persone transitate nei Centri per il rimpatrio è stata effettivamente rimpatriata. L’inefficienza del sistema permane». E smentisce Lamorgese, che qualche giorno fa ha affermato che «l’accoglienza è un problema strutturale»: «Il tema», denuncia il Garante, «continua a essere affrontato in termini emergenziali e non strutturali, quasi fosse ancora un problema nuovo». «In Italia dopo due anni di pandemia gli immigrati clandestini non possono più sbarcare dalla mattina alla sera senza più controllo e con 5 milioni di italiani in povertà. Non possiamo vedere sbarchi senza limiti», ha detto ieri Salvini. «Con oltre 800 migranti su navi di Ong che sventolano bandiere non italiane a largo delle nostre coste, vorremmo sapere dove è finita la promessa di aiuto tanto sbandierata dall’Ue e salutata con toni trionfalistici da Lamorgese solo venerdì scorso», ha commentato il deputato di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli, che ha aggiunto: «Le promesse non mantenute sono la causa della continua pressione a cui è sottoposta l’Italia. Abbiamo chiesto in ogni modo il dettaglio del nuovo accordo annunciato ma evidentemente dopo la “sòla” degli accordi di Malta siamo di fronte all’ennesima beffa». E ha cercato di stanare il ministro: «Lamorgese ci dica a cosa è vincolata l’Italia e come intende rispondere alle richieste delle Ong. Di sicuro non può permettersi nuovi sbarchi, quei migranti dovrebbero essere dirottati altrove e magari proprio in quei Paesi che hanno la medesima bandiera delle navi che li trasportano». 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La rotta porta a Lampedusa ed eventualmente ai porti siciliani di Marina di Ragusa e Pozzallo, il computer di bordo ce l’ha in memoria. Il giorno successivo altra richiesta in acque internazionali dalla nave baltica dell’Ong tedesca, e altro silenzio; nel frattempo i disperati erano diventati 488. Alla terza richiesta, ieri, non c’era neppure bisogno di rispondere: la prua solcava già acque italiane, ormai si va a Pozzallo in automatico. Formalismi e consuetudine rispettati; a questo punto basta sapere il numero della banchina d’ormeggio. Il business dell’accoglienza comincia così e l’arrivo di oltre 850 clandestini in un giorno (ai 488 vanno aggiunti i 112 della spagnola Aita Mari e i 261 della Sea Watch 4) fa riesplodere il dramma di un’emergenza infinita, che nasce e si sviluppa senza una parola del Viminale. Il silenzio avalla la consuetudine e impedisce la redistribuzione. Tutto avviene come se si trattasse di shuttle o di traghetti, e allora sarebbe il caso di ufficializzare il tableau degli orari. Per Bruxelles è una manna, sembra che il problema neppure esista. Eppure il viaggio dei nuovi schiavi può essere monitorato ogni minuto grazie alle informazioni che le stesse Ong postano sui social in modo limpido e compulsivo. Nessuna imbarcazione che chiede asilo all’Italia viene dirottata a Malta, in Spagna, in Francia o in Grecia. Non esiste coordinamento e la solidarietà internazionale è un concetto privo di significato. Il sistema è questo, la vergogna di un Paese senza sovranità territoriale è nei fatti. E Lampedusa è nuovamente al collasso: l’hotspot che può farsi carico di 350 persone ne ha più di 1.500. In questi casi la nave Diciotti ne imbarca una parte e li scarica ad Augusta, dove vengono stipati nei pullman. Destinazione (anche qui silenziosa), le altre regioni italiane per la felicità di associazioni e cooperative che hanno ricominciato a fatturare alla grande. E poi le periferie degradate, l’alta percentuale di miseria, l’impossibilità di assorbimento, la radicalizzazione, il rigetto talvolta violento nei confronti della società che crea emarginati. Infine casi come quello di Peschiera. Precisi a Saint-Denis a Parigi o al quartiere Ariane a Nizza 20 anni fa. Uno scenario desolante che ha come responsabile principale il ministro Luciana Lamorgese, teorica dell’accoglienza diffusa (è la dottrina del Pd e di Sergio Mattarella). In tre anni e due governi non è riuscita a compiere neppure il primo passo verso il coinvolgimento politico dell’Europa al rispetto degli accordi di Malta. Fu lei a firmarli, fu ancora lei a sottolineare la svolta dopo la stagione dei porti chiusi del suo predecessore Matteo Salvini. I termini erano contenuti in due parole: redistribuzione (dei flussi in Europa) e rotazione (dei porti). Ora siamo alla beffa. Nessuna redistribuzione, tranne qualche pietoso e sporadico segnale di Portogallo, Francia e Germania. E nessuna rotazione, se non quella provocatoria fra Lampedusa, Siracusa, Pozzallo, Marina di Ragusa e Catania. Due mesi fa a Venezia, nel summit fra i Paesi europei del Mediterraneo, Lamorgese ha ribadito: «Auspichiamo un adeguato meccanismo di redistribuzione che dovrà coinvolgere un numero ampio di Stati membri». Parole, le solite, mentre il silenzio delle istituzioni continua a coprire rotte percorse secondo automatismi collaudati. I numeri raddoppiano, triplicano e la ministra abbozza, alimentando una passività che non ha nulla di operativo. A questo punto è più comprensibile la posizione di Laura Boldrini, che con il suo «accogliamo tutti» ottiene almeno un dividendo elettorale. Il corto circuito è completo, ma adesso siamo «buoni» e facciamo finta che non esista il lungo tragitto degli schiavi. La nostra è una coscienza a forma di salvagente. Con il buco.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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