True
2020-06-02
Tasse giù grazie al Recovery? Bugia. La Ue parla di 20 miliardi di imposte
Angela Merkel (Ansa)
Vi raccontiamo da mesi dei rapporti con le istituzioni europee e spesso temiamo di essere troppo arditi nelle nostre esposizioni dei fatti e nella loro valutazione. Tuttavia, la realtà scava ogni giorno un solco ancora più profondo di quello che avevamo provato a tracciare. I peggiori dubbi sul Recovery Fund, che avevamo cautamente introdotto sin da giovedì 28, negli ultimi giorni sono stati ripresi e approfonditi sulla grande stampa europea e, soprattutto, sono stati fatti propri da autorevoli leader politici stranieri.
Buoni ultimi, dopo olandesi, svedesi ed ungheresi, sono arrivati il ministro delle Finanze austriaco Gernot Bluemel e il premier ceco Andrej Babis. Il ventaglio degli aggettivi spazia da «inaccettabile» a «inammissibile». Sembra sia stato scoperchiato il vaso di Pandora delle contraddizioni della Ue. L'intervista rilasciata domenica al Financial Times dal Commissario Ue al bilancio, l'austriaco Johannes Hahn, è per diversi aspetti clamorosa e torna sui due aspetti più controversi dell'iniziativa della Commissione: chi paga e per fare cosa. La risposta alla prima domanda è secca: i contribuenti dell'Unione. In particolare, Hahn progetta di far partire entro il 2027 un'imposta per circa 70.000 imprese con più di 750 milioni di fatturato che dovrebbe generare un gettito annuo pari a circa 15/20 miliardi. Si tratterà di una cifra forfettaria, parametrata alle dimensioni dell'impresa: una sorta di corrispettivo per i benefici del mercato unico, necessaria per il servizio del debito emesso dalla Commissione.
Ma questo è il meno. Infatti, Hahn manda in frantumi tutta la stantìa retorica dell'unione di bilancio e del debito condiviso. «Solo una operazione limitata nel tempo per investire, indebitandosi sui mercati, nella ripresa e nella resilienza dei Paesi più colpiti dal Covid 19. Non si introduce nulla dalla porta di servizio». Hahn aggiunge che «non è sostenibile che un Paese richieda sempre aiuto perché non è in grado di finanziare per conto proprio la ripresa. È come suonare la sveglia per alcuni Paesi. Gli investimenti e le riforme innescati dal Recovery Fund, consentiranno a certi Paesi di reggere meglio all'urto di crisi future. Nel passato, alcuni Paesi, sempre gli stessi, sono sempre stati più colpiti dalle crisi rispetto ad altri. Questi aiuti gli consentiranno di essere meglio attrezzati in futuro e di essere meno dipendenti dall'aiuto altrui». Altro che solidarietà: ci pagano (forse) le spese di riabilitazione e palestra per combattere meglio nel ring della competizione mondiale a colpi di deflazione, flessibilità del lavoro e dei mercati. D'altronde, il loro modello sociale è «homo homini lupus» di Thomas Hobbes, e per quello ci foraggiano.
Purtroppo i conti di questo tanto decantato aiuto continuano a non tornare. E ce lo conferma un dibattito avvenuto tra i parlamentari tedeschi di cui riferisce il quotidiano Handelsblatt. Le perplessità espressi dai tedeschi sono numerose: si dubita dell'effettiva capacità di spesa della Commissione, alle prese con un volume di attività pari a più del doppio del solito; si dubita della capacità dell'Italia di presentare progetti fino a 170 miliardi per ricevere sussidi e prestiti; «Non siamo qui per finanziare i tagli fiscali per l'Italia con i nostri soldi», tuona un deputato; infine, si ipotizza la necessità di una maggioranza qualificata (2/3) del Bundestag per l'approvazione del fondo. I tedeschi affermano, senza peli sulla lingua, che finora le raccomandazioni della Commissione per Roma si sono rivelate una «tigre di carta» e il Recovery Fund offre l'occasione per risvegliare riforme dormienti.
Il bilancio finanziario per il nostro Paese continua a fare acqua. Infatti, al fine permettere alla Commissione di emettere fino a 750 miliardi di obbligazioni con rating tripla A in 4 anni, è stato raddoppiato (dall'1% al 2% del Pil) il tetto di risorse proprie che la Commissione può richiedere agli Stati. In sostanza, la Commissione offre in garanzia ai mercati la possibilità di generare entrate per circa 1.100 miliardi, soprattutto richiedendole agli Stati. È vero, si tratta di garanzie, non di esborsi, ma comunque l'Italia si impegna, da subito, per almeno 96 miliardi (12,8% circa di 750 miliardi di maggiori contributi al bilancio Ue, ma formalmente sono ben di più), altrimenti la Commissione non può emettere bond. In ogni caso, dopo il 2028, quei 750 miliardi dovranno essere rimborsati dalla Commissione: 250 miliardi con le rate ricevute dai Paesi beneficiari dei prestiti, e gli altri 500 con maggiori tasse Ue o contributi degli Stati membri. Si tratta di pagare circa 64 miliardi. Ma siamo così sicuri di presentare progetti per investimenti e riforme sfruttando per intero i 68 miliardi del Rrf (o gli 81 del totale delle misure)?
Se il bilancio del prossimo settennio ci vedesse contribuenti netti per una somma ancora superiore ai circa 36 miliardi del precedente settennio e il saldo complessivo diventasse negativo, sarebbe proprio una magra consolazione poter dire che l'avevamo detto.
Confindustria & C. pregano: «Fate presto con il Mes». Ma a loro non cambia nulla
«Fate presto», per carità. L'aria di déja vu è più che giustificata, a meno di nove anni da quello che divenne l'inno dell'insediamento di Mario Monti . Oggi lo spread è sotto quota 200, ma a soffiare una brezza simile a quella del 2011 ci si mette una nutrita serie di sigle datoriali. Ecco la loro nota congiunta: «Esortiamo il governo, il Parlamento e le forze politiche a utilizzare fin da subito tutte le risorse e gli strumenti che l'Europa ha già messo a disposizione, a partire dai fondi per sostenere i costi diretti e indiretti dell'emergenza sanitaria. Non farlo sarebbe una scelta non comprensibile e comporterebbe una grave responsabilità verso il Paese, i suoi cittadini, le sue imprese». Firmato Abi (sic), Alleanza delle cooperative italiane, Ance, Cia, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Copagri.
Senza citarlo, il Mes è il convitato di pietra. Non solo perché il riferimento a «costi diretti e indiretti dell'emergenza sanitaria» è lampante, ma anche perché è l'unico strumento pronto, visto che il rimpallo tra Eurogruppo, Consiglio europeo e Commissione sul Recovery fund ha finora prodotto l'azzeramento dei «coronabond» e un piano sui cui tempi e sulla cui attuabilità, vista la difficoltà di accordo politico sulla ripartizione, è lecito avere dubbi.
Ora, le associazioni fanno benissimo a chiedere che il governo spenda, e domandare che impieghi danaro a loro favore è nella loro natura di corpi intermedi: ci sarebbe da stupirsi del contrario. Ma ci sono due considerazioni di fondo che lasciano molti dubbi sul senso dell'appello diramato nel weekend dalle varie sigle. La prima è quantitativa: il Mes dovrebbe portare risorse fino al 2% del Pil, ma è stato detto e ripetuto in ogni lingua che coprirà solo spese «dirette e indirette» di natura sanitaria legate al Covid 19. Come più volte spiegato su queste colonne, ben difficilmente è possibile annoverare in questa categoria spese per 30 miliardi. Del resto, lo stesso documento del governo ha indicato in 1,7 miliardi la spesa sanitaria extra per il comparto dovuta all'emergenza pandemica. Per quale motivo - ad esempio - Coldiretti dovrebbe premere perché l'Italia acceda a questo strumento, che al 99% non riguarda il proprio compartro? Anche lasciando perdere le condizioni che il Mes trascina con sé (piani di rientro controllati dalla troika, creditore privilegiato che mette a rischio gli altri creditori eccetera), non si capisce l'insistenza delle associazioni nei confronti di capitoli di spesa che non riguarderebbero loro, se non marginalmente.
Ma la seconda obiezione è più sostanziale. Alle categorie che hanno firmato l'appello pare sfuggire un dato piuttosto clamoroso: le risorse eventuali del Mes non sono aggiuntive rispetto al deficit fissato dal Parlamento per il 2020, che ammonta a 75 miliardi circa - di cui 55 tardivamente stanziati a lockdown in corso da settimane. Ovvero: anche qualora il Mes desse 50 miliardi, le risorse a disposizione del Paese come differenza tra entrate e uscite non diventerebbero 125. Semplicemente, dei 75 miliardi previsti 50 verrebbero finanziati dal Mes, con tutto ciò che ne consegue. Confindustria & C hanno infinite ragioni per lamentare la scarsità di risorse impiegate dal governo nella pandemia, a maggior ragione dopo che Conte e i suoi hanno chiuso milioni di aziende per legge. Ma come l'esecutivo reperisca tali risorse è, a parità di importi, completamente indifferente per un'azienda che riceva sussidi o per un dipendente cui venga accreditata la cassa integrazione. Come si spiega dunque un appello congiunto in favore di una di queste scelte politico-finanziarie di approvvigionamento?
Enrico Letta ha fatto il ministro e il premier: non può non aver perfettamente presente la dinamica con cui un Paese si finanzia. Ieri a Formiche ha rilasciato un'intervista in cui, tra le altre cose, ha detto: «Abbiamo una sanità distrutta, in particolare quella lombarda. Con i fondi del Mes si potrebbe finanziare un piano per mille comuni italiani rurali. Per un piano del genere servono risorse europee, utilizzando esclusivamente soldi italiani non ce la faremmo». È falso, ma a suo modo utile. Aiuta a capire che, forse, la prospettiva dei vertici delle categorie è solo politica, e non di rappresentanza. L'appello al Mes serve a dare l'impressione di un Paese che non chiede altro.
Continua a leggere
Riduci
Il commissario al Bilancio, Johannes Hahn, spiega come si sosterrà il piano europeo: con una stangata su 70.000 imprese Intanto Praga boccia il fondo e i deputati tedeschi tuonano: «Non finanzieremo noi i tagli fiscali per l'Italia»Abi, Coldiretti, Ance e altre sigle invocano il Salvastati. Fanno politica: i soldi sono per la sanità e non si sommano al deficit Lo speciale contiene due articoliVi raccontiamo da mesi dei rapporti con le istituzioni europee e spesso temiamo di essere troppo arditi nelle nostre esposizioni dei fatti e nella loro valutazione. Tuttavia, la realtà scava ogni giorno un solco ancora più profondo di quello che avevamo provato a tracciare. I peggiori dubbi sul Recovery Fund, che avevamo cautamente introdotto sin da giovedì 28, negli ultimi giorni sono stati ripresi e approfonditi sulla grande stampa europea e, soprattutto, sono stati fatti propri da autorevoli leader politici stranieri.Buoni ultimi, dopo olandesi, svedesi ed ungheresi, sono arrivati il ministro delle Finanze austriaco Gernot Bluemel e il premier ceco Andrej Babis. Il ventaglio degli aggettivi spazia da «inaccettabile» a «inammissibile». Sembra sia stato scoperchiato il vaso di Pandora delle contraddizioni della Ue. L'intervista rilasciata domenica al Financial Times dal Commissario Ue al bilancio, l'austriaco Johannes Hahn, è per diversi aspetti clamorosa e torna sui due aspetti più controversi dell'iniziativa della Commissione: chi paga e per fare cosa. La risposta alla prima domanda è secca: i contribuenti dell'Unione. In particolare, Hahn progetta di far partire entro il 2027 un'imposta per circa 70.000 imprese con più di 750 milioni di fatturato che dovrebbe generare un gettito annuo pari a circa 15/20 miliardi. Si tratterà di una cifra forfettaria, parametrata alle dimensioni dell'impresa: una sorta di corrispettivo per i benefici del mercato unico, necessaria per il servizio del debito emesso dalla Commissione.Ma questo è il meno. Infatti, Hahn manda in frantumi tutta la stantìa retorica dell'unione di bilancio e del debito condiviso. «Solo una operazione limitata nel tempo per investire, indebitandosi sui mercati, nella ripresa e nella resilienza dei Paesi più colpiti dal Covid 19. Non si introduce nulla dalla porta di servizio». Hahn aggiunge che «non è sostenibile che un Paese richieda sempre aiuto perché non è in grado di finanziare per conto proprio la ripresa. È come suonare la sveglia per alcuni Paesi. Gli investimenti e le riforme innescati dal Recovery Fund, consentiranno a certi Paesi di reggere meglio all'urto di crisi future. Nel passato, alcuni Paesi, sempre gli stessi, sono sempre stati più colpiti dalle crisi rispetto ad altri. Questi aiuti gli consentiranno di essere meglio attrezzati in futuro e di essere meno dipendenti dall'aiuto altrui». Altro che solidarietà: ci pagano (forse) le spese di riabilitazione e palestra per combattere meglio nel ring della competizione mondiale a colpi di deflazione, flessibilità del lavoro e dei mercati. D'altronde, il loro modello sociale è «homo homini lupus» di Thomas Hobbes, e per quello ci foraggiano.Purtroppo i conti di questo tanto decantato aiuto continuano a non tornare. E ce lo conferma un dibattito avvenuto tra i parlamentari tedeschi di cui riferisce il quotidiano Handelsblatt. Le perplessità espressi dai tedeschi sono numerose: si dubita dell'effettiva capacità di spesa della Commissione, alle prese con un volume di attività pari a più del doppio del solito; si dubita della capacità dell'Italia di presentare progetti fino a 170 miliardi per ricevere sussidi e prestiti; «Non siamo qui per finanziare i tagli fiscali per l'Italia con i nostri soldi», tuona un deputato; infine, si ipotizza la necessità di una maggioranza qualificata (2/3) del Bundestag per l'approvazione del fondo. I tedeschi affermano, senza peli sulla lingua, che finora le raccomandazioni della Commissione per Roma si sono rivelate una «tigre di carta» e il Recovery Fund offre l'occasione per risvegliare riforme dormienti.Il bilancio finanziario per il nostro Paese continua a fare acqua. Infatti, al fine permettere alla Commissione di emettere fino a 750 miliardi di obbligazioni con rating tripla A in 4 anni, è stato raddoppiato (dall'1% al 2% del Pil) il tetto di risorse proprie che la Commissione può richiedere agli Stati. In sostanza, la Commissione offre in garanzia ai mercati la possibilità di generare entrate per circa 1.100 miliardi, soprattutto richiedendole agli Stati. È vero, si tratta di garanzie, non di esborsi, ma comunque l'Italia si impegna, da subito, per almeno 96 miliardi (12,8% circa di 750 miliardi di maggiori contributi al bilancio Ue, ma formalmente sono ben di più), altrimenti la Commissione non può emettere bond. In ogni caso, dopo il 2028, quei 750 miliardi dovranno essere rimborsati dalla Commissione: 250 miliardi con le rate ricevute dai Paesi beneficiari dei prestiti, e gli altri 500 con maggiori tasse Ue o contributi degli Stati membri. Si tratta di pagare circa 64 miliardi. Ma siamo così sicuri di presentare progetti per investimenti e riforme sfruttando per intero i 68 miliardi del Rrf (o gli 81 del totale delle misure)?Se il bilancio del prossimo settennio ci vedesse contribuenti netti per una somma ancora superiore ai circa 36 miliardi del precedente settennio e il saldo complessivo diventasse negativo, sarebbe proprio una magra consolazione poter dire che l'avevamo detto.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tasse-giu-grazie-al-recovery-bugia-la-ue-parla-di-20-miliardi-di-imposte-2646147055.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="confindustria-c-pregano-fate-presto-con-il-mes-ma-a-loro-non-cambia-nulla" data-post-id="2646147055" data-published-at="1591086945" data-use-pagination="False"> Confindustria & C. pregano: «Fate presto con il Mes». Ma a loro non cambia nulla «Fate presto», per carità. L'aria di déja vu è più che giustificata, a meno di nove anni da quello che divenne l'inno dell'insediamento di Mario Monti . Oggi lo spread è sotto quota 200, ma a soffiare una brezza simile a quella del 2011 ci si mette una nutrita serie di sigle datoriali. Ecco la loro nota congiunta: «Esortiamo il governo, il Parlamento e le forze politiche a utilizzare fin da subito tutte le risorse e gli strumenti che l'Europa ha già messo a disposizione, a partire dai fondi per sostenere i costi diretti e indiretti dell'emergenza sanitaria. Non farlo sarebbe una scelta non comprensibile e comporterebbe una grave responsabilità verso il Paese, i suoi cittadini, le sue imprese». Firmato Abi (sic), Alleanza delle cooperative italiane, Ance, Cia, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Copagri. Senza citarlo, il Mes è il convitato di pietra. Non solo perché il riferimento a «costi diretti e indiretti dell'emergenza sanitaria» è lampante, ma anche perché è l'unico strumento pronto, visto che il rimpallo tra Eurogruppo, Consiglio europeo e Commissione sul Recovery fund ha finora prodotto l'azzeramento dei «coronabond» e un piano sui cui tempi e sulla cui attuabilità, vista la difficoltà di accordo politico sulla ripartizione, è lecito avere dubbi. Ora, le associazioni fanno benissimo a chiedere che il governo spenda, e domandare che impieghi danaro a loro favore è nella loro natura di corpi intermedi: ci sarebbe da stupirsi del contrario. Ma ci sono due considerazioni di fondo che lasciano molti dubbi sul senso dell'appello diramato nel weekend dalle varie sigle. La prima è quantitativa: il Mes dovrebbe portare risorse fino al 2% del Pil, ma è stato detto e ripetuto in ogni lingua che coprirà solo spese «dirette e indirette» di natura sanitaria legate al Covid 19. Come più volte spiegato su queste colonne, ben difficilmente è possibile annoverare in questa categoria spese per 30 miliardi. Del resto, lo stesso documento del governo ha indicato in 1,7 miliardi la spesa sanitaria extra per il comparto dovuta all'emergenza pandemica. Per quale motivo - ad esempio - Coldiretti dovrebbe premere perché l'Italia acceda a questo strumento, che al 99% non riguarda il proprio compartro? Anche lasciando perdere le condizioni che il Mes trascina con sé (piani di rientro controllati dalla troika, creditore privilegiato che mette a rischio gli altri creditori eccetera), non si capisce l'insistenza delle associazioni nei confronti di capitoli di spesa che non riguarderebbero loro, se non marginalmente. Ma la seconda obiezione è più sostanziale. Alle categorie che hanno firmato l'appello pare sfuggire un dato piuttosto clamoroso: le risorse eventuali del Mes non sono aggiuntive rispetto al deficit fissato dal Parlamento per il 2020, che ammonta a 75 miliardi circa - di cui 55 tardivamente stanziati a lockdown in corso da settimane. Ovvero: anche qualora il Mes desse 50 miliardi, le risorse a disposizione del Paese come differenza tra entrate e uscite non diventerebbero 125. Semplicemente, dei 75 miliardi previsti 50 verrebbero finanziati dal Mes, con tutto ciò che ne consegue. Confindustria & C hanno infinite ragioni per lamentare la scarsità di risorse impiegate dal governo nella pandemia, a maggior ragione dopo che Conte e i suoi hanno chiuso milioni di aziende per legge. Ma come l'esecutivo reperisca tali risorse è, a parità di importi, completamente indifferente per un'azienda che riceva sussidi o per un dipendente cui venga accreditata la cassa integrazione. Come si spiega dunque un appello congiunto in favore di una di queste scelte politico-finanziarie di approvvigionamento? Enrico Letta ha fatto il ministro e il premier: non può non aver perfettamente presente la dinamica con cui un Paese si finanzia. Ieri a Formiche ha rilasciato un'intervista in cui, tra le altre cose, ha detto: «Abbiamo una sanità distrutta, in particolare quella lombarda. Con i fondi del Mes si potrebbe finanziare un piano per mille comuni italiani rurali. Per un piano del genere servono risorse europee, utilizzando esclusivamente soldi italiani non ce la faremmo». È falso, ma a suo modo utile. Aiuta a capire che, forse, la prospettiva dei vertici delle categorie è solo politica, e non di rappresentanza. L'appello al Mes serve a dare l'impressione di un Paese che non chiede altro.
iStock
La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
Continua a leggere
Riduci
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 dicembre 2025. Con il nostro Fabio Amendolara commentiamo gli ultimi sviluppi del caso Garlasco.
L'amministratore delegato di SIMEST Regina Corradini D’Arienzo (Imagoeconomica)
SIMEST e la Indian Chamber of Commerce hanno firmato un Memorandum of Understanding per favorire progetti congiunti, scambio di informazioni e nuovi investimenti tra imprese italiane e indiane. L'ad di Simest Regina Corradini D’Arienzo: «Mercato chiave per il Made in Italy, rafforziamo il supporto alle aziende».
Nel quadro del Business Forum Italia-India, in corso a Mumbai, SIMEST e Indian Chamber of Commerce (ICC) hanno firmato un Memorandum of Understanding per consolidare la cooperazione economica tra i due Paesi e facilitare nuove opportunità di investimento bilaterale. La firma è avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro indiano del Commercio e dell’Industria Piyush Goyal.
A sottoscrivere l’accordo sono stati l’amministratore delegato di SIMEST, Regina Corradini D’Arienzo, e il direttore generale della ICC, Rajeev Singh. L’intesa punta a mettere in rete le imprese italiane e indiane, sviluppare iniziative comuni e favorire l’accesso ai rispettivi mercati. Tra gli obiettivi: promuovere progetti congiunti, sostenere gli investimenti delle aziende di entrambi i Paesi anche grazie agli strumenti finanziari messi a disposizione da SIMEST, facilitare lo scambio di informazioni e creare un network stabile tra le comunità imprenditoriali.
«L’accordo conferma la volontà di SIMEST di supportare gli investimenti delle imprese italiane in un mercato chiave come quello indiano, sostenendole con strumenti finanziari e know-how dedicato», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. L’ad ha ricordato che l’India è tra i Paesi prioritari del Piano d’Azione per l’export della Farnesina e che nel 2025 SIMEST ha aperto un ufficio a Delhi e attivato una misura dedicata per favorire gli investimenti italiani nel Paese. Un tassello, ha aggiunto, che rientra nell’azione coordinata del «Sistema Italia» guidato dalla Farnesina insieme a CDP, ICE e SACE.
SIMEST, società del Gruppo CDP, sostiene la crescita internazionale delle imprese italiane – in particolare le PMI – lungo tutto il ciclo di espansione all’estero, attraverso export credit, finanziamenti agevolati, partecipazioni al capitale e investimenti in equity.
Continua a leggere
Riduci