
Studio britannico svela un'elusione mostruosa delle 6 maggiori aziende del settore. Sotto accusa anche i paradisi fiscali che l'Ue vuole mantenere.Un buco da 100 miliardi di dollari, che al cambio attuale corrispondono a 90 miliardi di euro. È questo il gigantesco gap fiscale accumulato nel corso dell'ultimo decennio dalle sei aziende più importanti della Silicon Valley. Secondo un recente studio pubblicato da Fair tax mark, ong britannica che si batte per un sistema di tassazione più equo, dal 2010 al 2019 Amazon, Facebook, Google, Netflix, Apple e Microsoft hanno versato molte meno imposte rispetto a quelle effettivamente dovute. Forse a qualcuno sembrerà la scoperta dell'acqua calda, ma a destare impressione è soprattutto l'entità della voragine scavata da quelle che la stessa ong chiama le «Silicon six». Tanto per dare un'idea degli importi in gioco, l'ammanco in termini di tasse non versate dai sei colossi equivale a tre leggi di stabilità nazionali, o se preferite a un quarto della ricchezza annua prodotta dalla Lombardia. Ipotizzando di mettere in fila le banconote da 200 euro necessarie a raggiungere tale cifra, si coprirebbe una distanza di circa 290 chilometri, più o meno quella che intercorre tra Roma e Firenze.Dopo Microsoft, Apple e Amazon, Google è stata la quarta «sorella» ad aver superato, appena pochi giorni, fa il valore di 1.000 miliardi di dollari (900 miliardi di euro) di capitalizzazione in borsa, una soglia fino a pochi anni fa considerata irraggiungibile. Sommando i loro valori di borsa, oggi il sestetto vale 5.384 miliardi di dollari (pari a 4.879 miliardi di euro), cioè 2,5 volte il prodotto interno lordo italiano, mentre il totale dei dipendenti occupato sfiora gli 1,2 milioni di persone, poco meno della popolazione di Milano.Nel periodo preso in considerazione dal rapporto, Fair tax ha calcolato che la differenza tra gli importi accantonati da queste aziende per il fisco e le tasse effettivamente pagate ha raggiunto la cifra di 100 miliardi di dollari. Ma la situazione è ancora peggiore se si prende in considerazione il valore ipotetico atteso in base all'aliquota principale (nella maggior parte dei casi il 35% previsto dalla vecchia corporate tax americana): il gap in questo caso è persino maggiore e viene quantificato in 155,2 miliardi di dollari (140,6 miliardi di euro). Tradotto, nell'ultimo decennio le Silicon six hanno risparmiato tra il 35% e il 46% rispetto a quanto avrebbero dovuto versare. Naturalmente, in questo caso il risparmio significa guadagno. È doveroso precisare che non si tratta di evasione fiscale. Più corretto parlare invece di elusione, una pratica legale che consiste nel mettere in pratica ogni stratagemma possibile per pagare meno tasse.«Con tutta probabilità», fanno notare gli autori del report, «il crollo nel versamento delle imposte si è avuto fuori dagli Stati Uniti, dal momento che la tassazione all'estero dei profitti maturati dal 2010 al 2019 è stata pari appena all'8,4%». Un'affermazione pesante, che solleva per l'ennesima volta la problematica dei paradisi fiscali, specie quelli interni all'Unione europea. Oltre a Bermuda, nel novero degli Stati incriminati dallo studio rientrano infatti l'Irlanda, il Lussemburgo e i Paesi Bassi. Secondo un rapporto pubblicato la scorsa primavera per la Tax3, la Commissione speciale del Parlamento europeo per i crimini fiscali, l'evasione e l'elusione fiscale, cinque Paesi europei - Belgio, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi - ogni anno sottraggono una base imponibile di 207 miliardi di euro. L'aspetto positivo, sottolineano da Fair tax mark, è che ormai «gli investitori sono coscienti del fatto che i versamenti all'erario sono aumentati vertiginosamente negli ultimi anni, passando dagli 8,9 miliardi di dollari (8,1 miliardi di euro) del 2010 ai 47 miliardi di dollari (42,6 miliardi di euro) del 2019. Ogni escamotage è buono per pagare meno tasse. Regimi fiscali agevolati, detrazioni per ricerca e sviluppo, accordi privilegiati con i governi locali… Tutto fa brodo per riuscire a contenere la morsa del fisco. Una leva fortissima in questo senso è rappresentata dalla incessante attività di pressing nei confronti delle istituzioni dei Paesi nei quali le Silicon six sono presenti. Secondo quanto riporta il report di Fair tax mark, Apple e soci hanno investito negli ultimi cinque anni ben 257 milioni di dollari (233 milioni di euro) in attività di lobbying nei soli Stati Uniti. L'ultimo biennio è stato particolarmente «caldo» in questo senso, con una spesa pari a 59,5 milioni di dollari nel 2017 e 65 milioni nel 2018. Consultando il database Lobbyfacts.eu, sito che monitora il fenomeno su base europea, si scopre che le sei aziende in questione hanno destinato alle attività di lobbying tra i 21,1 e i 22,5 milioni di euro. Dal 2014 a oggi gli incontri con la Commissione europea sono stati 211, mentre i lobbisti accreditati al Parlamento europeo sono 33. Tra le prime 20 organizzazioni operanti a Bruxelles troviamo ben 2 Silicon six: Google al sesto posto e Microsoft al diciottesimo.Nel frattempo che i colossi del tech erodono la base imponibile mondiale, sottraendo ricchezza sia ai Paesi in cui si stabiliscono sia a quelli in cui decidono di non piantare la propria tenda, l'Ue annaspa. Durante l'ultimo Ecofin svoltosi il 21 gennaio, i leader europei hanno preso atto per l'ennesima volta della drammatica situazione sul piano fiscale, auspicando «una soluzione internazionale alla tassazione del digitale» entro il 2020. Nel mentre, le Silicon six potranno continuare indisturbate a leccarsi i baffi.
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