2021-05-25
Tassa di successione: la proposta di Letta non regge nei numeri e colpisce l’impresa
L'imposizione non esiste in 12 Paesi Ocse. E il segretario Pd non si rende conto che siamo già tra le nazioni più tartassate dal fisco.Dorian Gray, straordinario personaggio partorito dalla penna di Oscar Wilde, diceva che «c'è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé». Solo in questo modo potremmo comprendere l'improvvida uscita del segretario del Pd, Enrico Letta, che qualche giorno fa ha lanciato la proposta di un aumento della tassa di successione. Forse era così spaventato dall'irrilevanza o tardività di qualsiasi idea formulata negli ultimi tempi, che ha scelto un argomento di sicura visibilità, almeno per qualche giorno. Ha puntato sulle tasse, eterno cavallo di battaglia della sua parte politica e, per essere sicuro di non fallire, ha declinato la sua proposta di aumento della tassa di successione in un modo così rozzo, approssimativo e ruffiano che tanti (troppi) sono gli aspetti che richiedono di essere smentiti e perfino rispediti al mittente come un boomerang.Partiamo da un aspetto fondamentale di metodo. Il presidente Mario Draghi nel suo discorso di insediamento a febbraio affermò in modo chiaro che «non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all'altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta […] Inoltre, le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un'imposta […] Un metodo simile fu seguito in Italia all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò a una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario […] Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l'architrave della politica di bilancio». Dopo queste lapidarie parole, Letta cosa fa? Parte lancia in resta con l'idea di tassare con un'aliquota proporzionale del 20% (a parità di franchigia di 1 milione) le eredità superiori a 5 milioni, in modo da poter finanziare con 10.000 euro ciascuno circa 280.000 diciottenni ogni anno. Una tassa per favorire l'equità intergenerazionale che avrebbe un gettito annuo di 2,8 miliardi. Addirittura una «restituzione» a carico del 1% più ricco del Paese, come se qualcuno avesse rubato qualcosa.Non contento di essere stato sordo rispetto al metodo indicato da Draghi, è nel merito che la proposta zoppica.Essa basa su un dato oggettivo rilevato da uno studio pubblicato dall'Ocse l'11 maggio: l'Italia mostra un'incidenza della tassa sulle successioni sul totale delle entrate fiscali pari allo 0,11%, contro una media dei Paesi Ocse dello 0,53%. Solo altri quattro Paesi hanno incidenza più bassa. Giappone, Francia, Belgio e Corea hanno l'incidenza più alta (dal 1,33% al 1,59%). Il fatto che una certa imposta abbia un modesto peso sul totale significa poco o nulla se non si va ad osservare quanto sia grande il prelievo complessivo sull'economia. E qui l'Italia gode di un triste primato. Infatti, su 37 paesi Ocse, nel 2019 occupavamo il quinto posto come rapporto tra entrate fiscali e Pil (superati solo da Belgio, Danimarca, Francia e Svezia). La media Ocse si è attestata al 33,8%, mentre noi siamo saliti dal 41,9% del 2018 al 42,4%.Osservando la distribuzione della ricchezza siamo tra i sei Paesi con la minore concentrazione. L'1% più ricco possiede il 12% della ricchezza netta totale ed il 10% più ricco ne possiede il 43%. Gli Usa mostrano, rispettivamente, un siderale 42% e 79%, con molti paesi europei poco al di sotto.Parlare della pagliuzza del relativamente modesto gettito della tassa di successione, senza osservare la trave della complessiva pressione fiscale che opprime il Paese è un'operazione del tutto fuorviante. Ma ancora di più lo è l'omissione del fatto che ben dieci Paesi hanno abolito questa imposta ed altri due Paesi non l'hanno mai avuta. Il fatto che l'ex ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, si sia affrettato a rilanciare il dato dell'incidenza, omettendo quello della pressione fiscale, conferma i nostri dubbi circa la sua competenza in materia ed è spiegabile alla luce dell'invidiabile primato conquistato nel 2020, quando è stato capace di far salire la pressione fiscale al 43,1% (dati del Def di aprile) dal 42,4% del 2019. Mentre il Paese subiva la peggiore recessione dal dopoguerra, Gualtieri ha pigiato sul pedale delle tasse come se non ci fosse un domani.Se si osserva il sistema tributario italiano, parlare di una sola imposta è privo di senso, al limite della disonestà. Infatti - tralasciando l'Irpef che pure fa la parte del leone con la sua aliquota marginale del 43% per redditi oltre i 75.000 euro - esistono numerose imposte (registro, ipotecarie e catastali, bollo, Imu) che colpiscono in vario modo tutte le manifestazioni di capacità contributiva riconducibili al patrimonio mobiliare o immobiliare. Insomma il sistema fiscale va rivisto in chiave complessiva e parlare solo di successioni significa voler introdurre una doppia tassazione senza avere il coraggio di dirlo.I numeri della proposta Letta non reggono. Nel 2019 il gettito delle successioni è stato pari a 765 milioni e nel 2020 è crollato del 44%, fermandosi a 429 milioni. Nei primi tre mesi del 2021 è in ulteriore calo del 38%.Pensare di aumentarlo di 2,8 miliardi, confidando nel fatto che ci siano successioni oltre i 5 milioni che arrivino a sommare 14 miliardi di imponibile tassato al 20%, è pia illusione. Da sempre il problema di questa tassa è stato quello della base imponibile sfuggente. Gli schermi societari nazionali, ma anche esteri, presentano una infinita varietà di soluzioni. A meno che Letta non pensi di attaccare i passaggi generazionali e la norma che oggi consente l'esenzione per i trasferimenti di azienda, quote societarie, azioni, anche se realizzati con patto di famiglia, purché gli eredi assumano il controllo e si impegnino a mantenerlo per 5 anni. Sarebbe un attacco in piena regola al cuore dell'impresa italiana che invece andrebbe incentivata per creare ed offrire lavoro: l'unico modo razionale per dare ben più di quei 10.000 euro ai giovani.
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