2021-07-03
«Metà dei positivi non trasmette il virus»
Uno studio denuncia i limiti dei tamponi: «Troppi cicli di amplificazione gonfiano i casi». Molti di quei pazienti, tuttavia, non sono infettivi: «Perciò, quarantene e lockdown si basano su cifre falsate». Il mistero della rivista che non ha voluto pubblicare la ricercaI tamponi? Scordateveli - o quasi. Secondo uno studio che uscirà in questi giorni sulla prestigiosa rivista Life, più della metà delle persone che ricevono un test positivo non sono in grado di contagiare, perché il virus non è più rintracciabile nel loro organismo. Crolla così l’impalcatura su cui sono stati costruiti quarantene e lockdown: se «quasi il 50% dei pazienti con una nuova diagnosi di positività è, in realtà, non infettivo», allora, come si giustificano gli isolamenti fiduciari? E su che base poggia la norma che vincola le zone rosse all’incidenza dei casi (indipendentemente dai ricoveri), se molti di essi non rappresentano un vero pericolo? I 15 autori del paper, Analytical performance of Covid-19 detection methods (Rt-Prc): scientific and societal concerns, sono studiosi di fama internazionale. Sette sono italiani: tra essi, Mariano Bizzarri, direttore del laboratorio di Biologia dei sistemi all’Università La Sapienza di Roma, e Roberto Verna, presidente dell’Associazione mondiale delle società di patologia e medicina di laboratorio. I ricercatori individuano tutti i punti deboli delle tecnologie impiegate per i tamponi di massa. Ed evidenziano tutte le cause che potrebbero portare all’individuazione di falsi positivi: anzitutto, l’aumento dei cicli di amplificazione (che indicano quante volte si processa il campione prima di trovare il materiale genetico del virus), «molto oltre la soglia raccomandata di 30-33»; la cross-reattività del test con altri coronavirus innocui; ma anche «errori amministrativi e cattive pratiche», come quella, documentata in Italia, di continuare ad aggiungere «al bacino dei pazienti positivi» anche coloro che sono «pienamente guariti da quando hanno effettuato il test, parecchie settimane prima».Il risultato della ricerca è sconcertante: «È stato calcolato che […] un totale di 1.000 casi non sarà scoperto su 5 milioni di persone testate e che altri 49.500 individui riceveranno risultati di falsa positività». Il punto vero, però, è che «l’infettività […] è significativamente compromessa quando i valori del Ct», cioè il numero dei cicli di amplificazione, «sono superiori a 24». Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, tuttavia, indica come soglia accettabile i 35 cicli, poiché un paziente giovane è stato ricoverato in ospedale con un tampone positivo oltre i 35 cicli. Un criterio universale desunto da un caso limite. «Ma la maggior parte dei laboratori, in Italia, arriva anche oltre i 40 cicli», spiega alla Verità il professor Bizzarri. Le implicazioni di questa scelta, dichiara esplicitamente lo studio, «sono rilevanti, dal momento che centinaia di migliaia di persone sono attualmente confinate sulla base di test Rt-Pcr positivi, anche se è probabile che abbiano già superato la fase in cui la loro infezione era trasmissibile». Ecco perché, tra le altre cose, gli scienziati propongono, come alternativa, l’adozione di una nuova soglia per i Ct (al di sopra della quale è improbabile che il virus sia fisicamente presente) e l’analisi congiunta dei dati sierologici (anticorpi) e clinici, «per identificare in modo certo le persone che possono davvero trasmettere il virus». Un suggerimento che andrebbe preso sul serio. Nella prospettiva di dover convivere con un virus endemico, in presenza dei vaccini e allo scopo di rendere «chirurgico» il tracciamento, ha senso andare a caccia di positivi, gonfiando i numeri ed evocando nuove chiusure in autunno? O è più utile, ai fini della sorveglianza epidemiologica, sapere chi sono i pazienti veramente infettivi e concentrare le nostre scarse risorse a ricostruire soltanto le loro catene di contatti a rischio?I motivi d’interesse attorno a questo saggio, comunque, non sono finiti. È molto curiosa anche la storia che lo ha portato sulle colonne di Life. Inizialmente, il lavoro era stato proposto al Journal of advanced reserach. Ma, come testimonia uno scambio di email tra uno degli autori e il board della rivista, il paper è rimasto sospeso per mesi. Il 15 maggio, su sollecitazione degli studiosi, il caporedattore, confermando che la data di invio era il 25 febbraio, comunicava che «il manoscritto è stato inviato a più di 30 revisori e, alla fine, siamo stati in grado di assicurarci che due di loro lo giudicassero». Dopodiché, trascorse invano altre settimane, il 3 giugno, il direttore, Hussein Khaled, ha inviato questa nota: «Sfortunatamente, non siamo in grado di revisionare il vostro manoscritto […], perché riceviamo un numero considerevole di proposte […]. Per evitare di occupare eccessivamente i nostri revisori, il comitato editoriale applica un processo di pre screening sulla base dell’idoneità per il giornale, della novità, dell’impatto, dell’interesse per un ampio pubblico di lettori, e della qualità complessiva della presentazione del manoscritto. Su questa base, mi spiace informarvi che il vostro manoscritto non sarà sottoposto a ulteriori revisioni». Dunque, nessuna «bocciatura» di merito. Prima il Journal of advanced research è sparito per tre mesi; poi ha giurato di aver affidato il testo a due revisori; infine, passate ancora due settimane, si è rimangiato tutto. Nel paper si legge che «la generazione di test falsi negativi o falsi positivi non solo mette in pericolo la salute dei singoli pazienti, ma può anche sconvolgere e sopprimere l’efficacia delle politiche di salute pubblica, i piani d’emergenza e le misure restrittive stabilite dalle autorità nazionali e internazionali». Sono queste frasi ad aver reso meno appetibile lo studio al mainstream scientifico? Anche stavolta siamo costretti a pensar male - e a fare peccato?