- C’è chi dice entro sei mesi, chi nel 2027 o dopo. Ma, al di là delle date, gli analisti concordano: l’invasione cinese ci sarà. Stati Uniti all’erta.
- Il generale Giorgio Battisti : «Il Dragone fa ancora fatica a condurre operazioni anfibie su larga scala. La strategia avversaria? Il logoramento».
- Il governo cinese ha sperimentato una piattaforma galleggiante per scaricare mezzi e soldati.
C’è chi dice entro sei mesi, chi nel 2027 o dopo. Ma, al di là delle date, gli analisti concordano: l’invasione cinese ci sarà. Stati Uniti all’erta.Il generale Giorgio Battisti : «Il Dragone fa ancora fatica a condurre operazioni anfibie su larga scala. La strategia avversaria? Il logoramento».Il governo cinese ha sperimentato una piattaforma galleggiante per scaricare mezzi e soldati.Lo speciale contiene tre articoli.Secondo quanto riferito da fonti di intelligence al portale statunitense 19FortyFive, la Cina potrebbe tentare l’operazione militare contro Taiwan entro un periodo di circa 6 mesi. Sebbene alcune analisi indichino il 2027 come possibile data, l’urgenza sembrerebbe legata più all’attuale situazione politica interna degli Stati Uniti che alla preparazione militare cinese. Taiwan rappresenta da tempo un punto cruciale per la leadership del Partito comunista cinese. Per il presidente Xi Jinping, la riunificazione dell’isola con la Cina continentale costituisce un obiettivo storico e personale. Secondo alcuni osservatori, il leader cinese potrebbe considerare sempre più stretta la finestra temporale per un’azione definitiva che possa lasciare un segno nella sua eredità politica. La Costituzione della Repubblica popolare cinese, varata nel 1982, stabilisce chiaramente che «Taiwan fa parte del sacro territorio della Repubblica popolare cinese» e che «la grande riunificazione della madrepatria» è un dovere condiviso da tutto il popolo cinese, inclusi i cittadini taiwanesi. Una formulazione che, nei fatti, conferisce al Partito comunista cinese una legittimazione ideologica per perseguire l’annessione dell’isola, anche attraverso l’uso della forza militare, se ritenuto necessario.Le previsioni su una possibile offensiva cinese contro Taiwan si concentrano su due date: il 2026, in prossimità della conclusione del terzo mandato di Xi Jinping, e il 2027, anno che segna il centenario dell’inizio della guerra civile cinese e della fondazione dell’Esercito popolare di liberazione (Pla). Qualunque sia la data precisa, diversi analisti ritengono sempre più probabile che Pechino agisca entro la fine di questo decennio. Gli indizi che lasciano presagire una possibile escalation militare sono molteplici e concreti. La Cina ha già quasi completato i preparativi per un eventuale attacco o conflitto armato. A dimostrarlo è l’intensa attività infrastrutturale in ambito militare promossa dal Partito comunista cinese, accompagnata da una serie di riforme legislative orientate alle relazioni internazionali. Anche sul piano interno, il governo cinese sta adottando misure per rafforzare la propria resilienza: dalla protezione contro le minacce informatiche all’accumulo strategico di risorse fondamentali - combustibili, materie prime e derrate alimentari - fino allo sviluppo di un’economia più resistente a eventuali sanzioni internazionali. Ma è sul fronte militare che Pechino sembra concentrare i maggiori sforzi. L’obiettivo è chiaro: garantire che le Forze armate cinesi siano in grado di affrontare uno scontro diretto, con un alto grado di prontezza e autonomia operativa. Taiwan non sarebbe che il primo tassello di un piano ben più ampio: quello del presidente cinese Xi Jinping per affermare la supremazia globale della Cina. Dopo l’isola, l’obiettivo si sposterebbe verso il Sudest asiatico, una regione strategica per risorse naturali, posizione geografica e una popolazione giovane e dinamica. Un simile scenario rende chiaro perché le democrazie occidentali non possano permettersi di restare a guardare. Ed è anche il motivo per cui le nazioni del Sudest asiatico sono chiamate a rafforzare le proprie capacità di difesa, puntando su una deterrenza credibile. Le ambizioni militari di Xi non sono un mistero. Da tempo, i suoi discorsi al Politburo e al Congresso del Partito comunista cinese contengono riferimenti, più o meno espliciti, al concetto di guerra. Singolarmente potrebbero sembrare ambigui, ma letti in sequenza e nel loro contesto delineano una narrativa che punta chiaramente verso una possibile invasione. Nel corso del 20° Congresso nazionale del Partito comunista cinese, Xi ha riaffermato con forza la linea dura di Pechino sulla questione taiwanese. «Puntiamo a una riunificazione pacifica, ma non rinunceremo mai all’uso della forza», ha dichiarato il presidente cinese, sottolineando che la Cina si riserva «tutte le opzioni necessarie» per raggiungere l’obiettivo. Il messaggio è chiaro: la riunificazione dell’isola è parte integrante del progetto politico di Xi, che la considera essenziale per «il ringiovanimento della grande nazione cinese». Intanto, come riportato dal Financial Times, le intelligence occidentali osservano con crescente preoccupazione le manovre militari cinesi. Pechino sarebbe impegnata nella costruzione di un nuovo quartier generale militare dalle dimensioni tali da poter superare il Pentagono. Gli analisti temono che la Cina si stia preparando a un conflitto su vasta scala, incluso, potenzialmente, uno scenario di guerra nucleare.In parallelo, la Commissione di revisione economica e di sicurezza Usa-Cina ha rilevato un’intensa attività di mobilitazione interna. Dal dicembre 2022, la Cina ha istituito nuovi uffici di reclutamento militare - denominati «uffici di mobilitazione per la difesa nazionale» - in tutto il Paese. Sono stati inoltre aggiornati rifugi antiaerei e attivati ospedali d’emergenza, come quello nella provincia del Fujian, a pochi chilometri dallo stretto di Taiwan. Ulteriori segnali di militarizzazione emergono anche da ambiti civili: già nel 2019, la Commissione sanitaria nazionale cinese aveva annunciato l’integrazione delle donazioni di sangue nel sistema di credito sociale, ampliando la rete di controllo statale anche in vista di una possibile emergenza bellica. Mentre cresce l’attenzione internazionale sulle ambizioni militari di Pechino, anche il sistema giuridico e informativo cinese si sta trasformando in funzione bellica. Dal 2020, infatti, la leadership di Xi ha introdotto una serie di riforme legislative che rafforzano il controllo dello Stato su economia, cittadini e informazioni. Nel gennaio di quell’anno è entrata in vigore una nuova «Legge sugli investimenti esteri» che consente al governo cinese di nazionalizzare beni stranieri in caso di emergenze, come una guerra. Un anno dopo, nel giugno 2021, la Cina ha approvato la Legge contro le sanzioni estere, che autorizza la confisca di beni aziendali e persino la detenzione di cittadini stranieri qualora siano applicate sanzioni internazionali contro il Paese. Ad aprile 2023 è toccato alla Legge antispionaggio, radicalmente ampliata: ora, la definizione di «spionaggio» include una vasta gamma di attività, rendendo qualsiasi condivisione d’informazione con l’estero potenzialmente perseguibile. In parallelo, Pechino ha stretto la morsa sul flusso di dati in uscita dal Paese. Le autorità monitorano ogni aspetto delle comunicazioni digitali e della trasparenza statistica. Secondo fonti autorevoli, l’Ufficio nazionale di statistica cinese pubblicava fino a pochi anni fa circa 80.000 dati l’anno; oggi, il numero è crollato a 20.000. L’obiettivo: oscurare l’effettiva condizione socioeconomica e politica del Paese, lasciando al Partito Comunista il pieno controllo sulla narrazione.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/taiwan-guerra-cina-2671893279.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lesercito-di-pechino-ha-dei-punti-deboli-taipei-pronta-da-anni" data-post-id="2671893279" data-published-at="1746450617" data-use-pagination="False"> «L’esercito di Pechino ha dei punti deboli. Taipei pronta da anni» Giorgio Battisti è un generale di corpo d’armata. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo ed è in Ausiliaria dall’ottobre 2016. Cosa faranno i cinesi per invadere Taiwan e quando è probabile che ciò avvenga? «La crescente pressione esercitata dalla Cina su Taiwan con navi e aerei che operano quasi quotidianamente intorno all’isola e la condotta di esercitazioni incentrate su scenari d’invasione possono apparire senza dubbio il segnale che Pechino stia accelerando i tempi per essere pronta a intervenire nei prossimi anni. Secondo recenti fonti d’intelligence Usa, infatti, Xi potrebbe tentare di conquistare Taiwan entro il 2027, anno del centesimo anniversario della costituzione dell’Esercito popolare di liberazione. Le forze armate cinesi, tuttavia, sono ancora in fase di rinnovamento, secondo un programma avviato nel 2015, che prevede un processo di aggiornamento della dottrina, della struttura organizzativa, del personale militare, degli armamenti e degli equipaggiamenti, che dovrebbe concludersi entro il 2035. Al momento non dispongono ancora, a mio modesto avviso, delle capacità strategiche di proiezione anfibia per condurre un’invasione su larga scala dell’isola. A ciò si aggiunge il cronico problema della corruzione che potrebbe dissuadere Xi dal rischiare una operazione nei prossimi 5-10 anni per la mancanza di fiducia nei propri comandanti. Sono periodiche, infatti, le notizie di sostituzioni e purghe che hanno interessato i ministri della Difesa e degli Esteri e soprattutto i vertici militari. Un’invasione dell’isola potrebbe avvenire, tuttavia, in ogni momento - e accettando tutti i rischi connessi - qualora il governo di Taipei dichiarasse apertamente la propria indipendenza». Gli analisti sono divisi tra chi crede che per la Cina sarà facile invadere l’isola e chi invece ritiene che non sia così. «Uno degli ostacoli principali dell’invasione per Pechino è la “sorpresa strategica” che difficilmente potrà realizzare sia per il sistema di early warning sia per la diffusa attività di intelligence (anche statunitense) che sarebbero in grado di rilevare le attività di approntamento e di movimento propedeutiche all’allestimento della forza d’invasione. Fonti di Taipei stimano in diverse settimane i tempi necessari per assemblare una forza d’invasione nei porti del continente idonea a invadere l’isola. Ciò permetterebbe a Taiwan di adottare le conseguenti contromisure predisposte da tempo. In questo modo Taiwan avrebbe il tempo di attivare le strutture di comando e controllo in sedi protette, allontanare la flotta dai porti più vulnerabili, effettuare operazioni per neutralizzare eventuali agenti cinesi sull’isola, ridislocare le forze, disseminare mine marine e terresti, distribuire le armi ai riservisti (e alla popolazione) e provvedere alla mobilitazione civile». In che periodo dell’anno? «A causa delle condizioni meteorologiche (fitte nebbie, forti correnti marine, intense piogge, eccetera), una flotta da trasporto di ampie dimensioni potrebbe attraversare lo Stretto di Taiwan senza particolari problemi solo nei mesi di aprile e di ottobre. Il litorale è l’area e la fase del conflitto dove le Forze armate taiwanesi hanno il potenziale per essere più letali; le invasioni anfibie - come la storia insegna - sono notoriamente complesse e difficili da coordinare. I tempi del preavviso potrebbero ridursi sensibilmente qualora la Cina effettui una complessa esercitazione aero-navale su vasta scala intorno a Taiwan, come oramai svolge periodicamente, e poi proceda senza soluzione di continuità nell’invasione dell’isola. Da sottolineare infine che la coesione e la capacità operativa delle Forze armate cinesi non è mai stata testata di recente in combattimento. Gli ultimi combattimenti risalgono al conflitto contro il Vietnam nel 1979 e con risultati non molto convincenti. Consapevoli di ciò, Pechino da anni partecipa con propri contingenti (1.800 militari a febbraio 2025) alle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite in Africa e in Medio Oriente. Recenti fonti giornalistiche, riportano, inoltre, che unità cinesi sono presenti sul fronte ucraino per maturare esperienza operativa». I taiwanesi si sono preparati negli anni. Possono respingere l’invasore oppure non hanno possibilità e proveranno a resistere in attesa di un possibile aiuto dall’estero? «Taiwan si sta preparando da decenni a un possibile attacco della Cina. Da tempo riconosce che la Cina è troppo potente per poterla affrontare in un conflitto ad “armi pari”. Di conseguenza, Taipei si è orientata, anche sull’esempio ucraino, al logoramento del potenziale avversario in termini di costi umani e materiali, e quindi politici e di reazione della comunità internazionale, che una guerra provocherebbe alla Cina. La strategia si concentra sulla solidità delle difese e sulla capacità di reazione per sfruttare le difficoltà dell’avversario nella critica fase di assemblaggio/imbarco della forza, attraversata dello stretto e di sbarco per fare in modo che l’offensiva risulti costosa e potenzialmente insostenibile». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/taiwan-guerra-cina-2671893279.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="xi-prepara-lo-sbarco-testando-i-pontili-mobili" data-post-id="2671893279" data-published-at="1746450617" data-use-pagination="False"> Xi prepara lo sbarco testando i pontili mobili Nelle ultime settimane, la Cina ha testato un nuovo sistema di pontili mobili, concepito per facilitare un eventuale sbarco militare sull’isola di Taiwan. Si tratta di una tecnologia che potrebbe rivelarsi strategica per trasportare truppe e veicoli corazzati direttamente sulle coste taiwanesi, nell’ambito di un potenziale conflitto armato. Questo sviluppo rappresenta un significativo passo avanti nella preparazione dell’esercito cinese per una possibile invasione di Taiwan, considerata da Pechino parte integrante del proprio territorio, nonostante l’isola sia governata in modo autonomo e democratico. I test dei pontili si sono svolti verso la fine di marzo, lungo le coste della città di Zhanjiang, nel Sud della Cina, lontano dalle acque intorno a Taiwan. A seguire, la marina militare cinese come ha scritto anche Il Post, ha condotto imponenti esercitazioni nei pressi dell’isola, simulando diversi scenari di invasione. Il 1° aprile, una flotta ha accerchiato Taiwan in un’azione che imitava un blocco navale, mentre il giorno successivo le forze terrestri hanno simulato bombardamenti di artiglieria a lunga gittata contro obiettivi strategici, tra cui porti, aeroporti e infrastrutture chiave. Tuttavia, un’invasione effettiva di Taiwan presenta sfide logistiche notevoli per la Cina. La costa occidentale dell’isola, la più vicina al continente, è caratterizzata da una conformazione irregolare, con poche spiagge idonee a un approdo sicuro, tutte fortemente fortificate che potrebbero essere minate all’occorrenza. Altre aree costiere, invece, sono paludose e poco praticabili per navi di grandi dimensioni, che rischierebbero di arenarsi. Inoltre, le forti correnti dello stretto di Formosa rappresentano un ulteriore e insidioso ostacolo. Durante la Seconda guerra mondiale, anche gli Stati Uniti scelsero di non attaccare Taiwan, allora sotto il controllo giapponese, proprio per la complessità del terreno e delle condizioni marine. Il nuovo sistema di pontili potrebbe servire a superare parte di queste difficoltà. Le immagini satellitari e i filmati diffusi sui social mostrano tre grandi chiatte equipaggiate con massicci piloni mobili che consentono loro di ancorarsi saldamente al fondale. Queste chiatte, disposte in sequenza e collegate tra loro, formano una piattaforma galleggiante lunga oltre 800 metri che arriva fino alla riva. In pratica, fungono da molo provvisorio per permettere alle navi di scaricare mezzi e soldati, che poi avanzano verso la terraferma attraverso il pontile. Ma tutto questo è a livello teorico perché, come dimostra l’invasione russa in Ucraina, un conto sono i piani, un altro è quando devi mettere gli scarponi sul terreno e ad attenderti c’è un esercito che ti studia da anni. Che i cinesi farebbero bene a non sottovalutare.
Lirio Abbata (Ansa)
La Cassazione smentisce i rapporti Cav-Mafia? «Repubblica»: «La sentenza non c’è».
(Stellantis)
Nel 2026 il marchio tornerà a competere nella massima categoria rally, dopo oltre 30 anni di assenza, con la Ypsilon Rally2 HF. La storia dei trionfi del passato dalla Fulvia Coupé alla Stratos alla Delta.
L'articolo contiene un video e una gallery fotografica.
Lo ha annunciato uno dei protagonisti degli anni d'oro della casa di Chivasso, Miki Biasion, assieme al ceo Luca Napolitano e al direttore sportivo Eugenio Franzetti: la Lancia, assente dal 1992 dalla massima categoria rallystica, tornerà protagonista nel campionato Wrc con la Ypsilon Rally2 HF. La gara d'esordio sarà il mitico rally di Monte Carlo, in programma dal 22 al 26 gennaio 2026.
Lancia è stata per oltre quarant’anni sinonimo di vittoria nei mondiali di Rally. Un dominio quasi senza rivali, partito all’inizio degli anni Cinquanta e terminato con il ritiro dalle competizioni all’inizio degli anni Novanta.
Nel primo dopoguerra, la casa di Chivasso era presente praticamente in tutte le competizioni nelle diverse specialità: Formula 1, Targa Florio, Mille Miglia e Carrera. All’inizio degli anni ’50 la Lancia cominciò l’avventura nel circo dei Rally con l’Aurelia B20, che nel 1954 vinse il rally dell’Acropoli con il pilota francese Louis Chiron, successo replicato quattro anni più tardi a Monte Carlo, dove al volante dell’Aurelia trionfò l’ex pilota di formula 1 Gigi Villoresi.
I successi portarono alla costituzione della squadra corse dedicata ai rally, fondata da Cesare Fiorio nel 1960 e caratterizzata dalla sigla HF (High Fidelity, dove «Fidelity» stava alla fedeltà al marchio), il cui logo era un elefantino stilizzato. Alla fine degli anni ’60 iniziarono i grandi successi con la Fulvia Coupè HF guidata da Sandro Munari, che nel 1967 ottenne la prima vittoria al Tour de Corse. Nato ufficialmente nel 1970, il Mondiale rally vide da subito la Lancia come una delle marche protagoniste. Il trionfo arrivò sempre con la Fulvia 1.6 Coupé HF grazie al trio Munari-Lampinen-Ballestrieri nel Mondiale 1972.
L’anno successivo fu presentata la Lancia Stratos, pensata specificamente per i rallye, la prima non derivata da vetture di serie con la Lancia entrata nel gruppo Fiat, sotto il cui cofano posteriore ruggiva un motore 6 cilindri derivato da quello della Ferrari Dino. Dopo un esordio difficile, la nuova Lancia esplose, tanto da essere definita la «bestia da battere» dagli avversari. Vinse tre mondiali di fila nel 1974, 1975 e 1976 con Munari ancora protagonista assieme ai navigatori Mannucci e Maiga.
A cavallo tra i due decenni ’70 e ’80 la dirigenza sportiva Fiat decise per un momentaneo disimpegno di Lancia nei Rally, la cui vettura di punta del gruppo era all’epoca la 131 Abarth Rally.
Nel 1982 fu la volta di una vettura nuova con il marchio dell’elefantino, la 037, con la quale Lancia tornò a trionfare dopo il ritiro della casa madre Fiat dalle corse. Con Walter Röhrl e Markku Alèn la 037 vinse il Mondiale marche del 1983 contro le più potenti Audi Quattro a trazione integrale.
Ma la Lancia che in assoluto vinse di più fu la Delta, che esordì nel 1985 nella versione speciale S4 sovralimentata (S) a trazione integrale (4) pilotata dalle coppie Toivonen-Wilson e Alen-Kivimaki. Proprio durante quella stagione, la S4 fu protagonista di un drammatico incidente dove morì Henri Toivonen assieme al navigatore Sergio Cresto durante il Tour de Corse. Per una questione di giustizia sportiva il titolo piloti fu tolto alla Lancia alla fine della stagione a favore di Peugeot, che era stata accusata di aver modificato irregolarmente le sue 205 Gti.
L’anno successivo esordì la Delta HF 4WD, che non ebbe rivali con le nuove regole del gruppo A: fu un dominio assoluto anche per gli anni successivi, dove la Delta, poi diventata HF Integrale, conquistò 6 mondiali di fila dal 1987 al 1992 con Juha Kankkunen e Miki Biasion. Lancia si ritirò ufficialmente dal mondo dei rally nel 1991 L’ultimo mondiale fu vinto l’anno successivo dal Jolly Club, una scuderia privata appoggiata dalla casa di Chivasso.
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