Per Bacco! Anche a Matteo Salvini non tutte le battute riescono col buco e il vicepresidente del Consiglio nonché ministro per le Infrastrutture e segretario della Lega stavolta è scivolato su una buccia di vinaccia. Solo che non ha fatto i conti con i toscani, ai quali puoi toccare quasi tutto tranne che il vino. La faccenda ha anche risvolti abbastanza seri perché se il made in Italy pensa di andare in giro per il mondo a vendere facendosi la guerra in casa le prospettive non sono delle migliori, considerando che il vino sta soffrendo e non poco all’export. Ieri il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio di Fratelli d’Italia - e si potrebbe pensare che Salvini sia caduto in un trappolone etilico - s’è lasciato andare ad apprezzamenti non troppo lusinghieri sul vino toscano. Con orgoglio marsicano ha sostenuto che il Montepulciano d’Abruzzo - è il nome del vitigno a bacca rossa più coltivato in quella regione che è all’origine alla Doc e limitatamente alle Colline teramane alla Docg - è più conosciuto nel mondo, è più esportato del Nobile di Montepulciano - una delle migliori Docg italiane, esportata ovunque, si fa in provincia di Siena da Prugnolo gentile che è il nome locale del Sangiovese - e che è un vanto d’Abruzzo. Matteo Salvini ha chiosato: «Ah sì? Bene, perché questi toscani hanno rotto le palle!» Il fatto è che i due dovevano parlare di strade, ponti e ferrovie e non di botti. E Marsilio ha detto anche una fake news. Il Montepulciano d’Abruzzo prodotto in 90 milioni di bottiglie è coltivato su una superficie di 17.000 ettari, ha un prezzo medio di vendita all’estero di 8 dollari ed è esportato al 54%. Il Nobile di Montepulciano produce circa 7 milioni bottiglie su 2.000 ettari e viene esportato per circa il 70%. Il prezzo medio di cessione all’estero è di 18 euro franco cantina. Il Nobile di Montepulciano è citato come «d’ogni vino il re» da Francesco Redi e siamo a metà del 1600 e inoltre è stata la prima Docg (denominazione d’origine controllata e garantita) rilasciata in Italia a partire dal 1980 e porta obbligatoriamente in etichetta la dicitura Toscana. Il Consorzio del Nobile ha duramente protestato con una nota ufficiale ricordando peraltro che nel 2012 vi fu un’intesa - sottoscritta davanti all’allora ministro per l’Agricoltura Mario Catania - per evitare fraintendimenti tra i due vini e implementare una collaborazione che gli abruzzesi evidentemente non hanno intenzione di rispettare. È intervenuto il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani (Pd) stigmatizzando l’espressione del vicepremier e di fatto è insorta tutta la sinistra. Matteo Salvini ha provato a smorzare il tasso (alcolico) della polemica dicendo: «Sono sei anni che mangio toscano, bevo toscano e sono circondato con gioia da toscani, io che sono lombardo» facendo riferimento alla sua fiorentinissima compagna Francesca Verdini. Che però non deve averla presa benissimo. Viene un sospetto: non sarà che Salvini è invidioso di Emmanuel Macron preso a schiaffi da madame Brigitte?
- Secondo la Coldiretti quest’anno spenderemo 108 euro a testa per mangiare in queste feste e passeremo circa due ore e venti minuti ai fornelli. Ma cosa mangiano gli italiani la vigilia di Natale e poi a Natale? La sera del 24 domina il pesce, simbolo della cristianità.
- Non dimenticate di portare in tavola la frutta secca, simbolo di fertilità, e gli agrumi, beneaguranti e appartenenti alla ritualità del solstizio.
- Cantina Italia: per scegliere cosa abbinare si va dai vini più leggeri a quelli più strutturati, dai bianchi ai rossi fino ai vini passiti.
- Il galateo delle feste: le 10 cose da fare e non fare per questo Natale.
Lo speciale contiene quattro articoli.
Scrive il mio amatissimo Pellegrino Artusi: «Il mondo ipocrita non vuol dare importanza al mangiare, ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia e non si cerchi di pappare del meglio».
Ecco queste sono le due settimane giuste per sbattere in faccia al mondo ipocrita sapienze gastronomiche, tradizioni, libagioni e imbandigioni. D’accordo c’è la crisi - e quando mai non c’è stata? - a qualcuno è andato di traverso Donald Trump, a qualcun altro lo sciopero generale. E poi ci sono le mille preoccupazioni che la cronaca ogni giorno propone e autentici drammi umani che sarebbe sciocco negare e ignorare. Tuttavia mettiamoci a tavola con animo sereno sapendo che non di sola contrizione vive l’uomo. A dimostrarlo è proprio quello che succede la vigilia di Natale in tutte le case italiane. Ci ha detto la Coldiretti che quest’anno spenderemo 108 euro a testa per mangiare in queste feste, che l’88% degli italiani s’attovaglia a casa propria o da parenti e amici «disertando» le tavole pubbliche e che passeremo circa due ore e venti minuti ai fornelli. Un tempo che se ci considerate anche il bollito per i tortellini del giorno di Natale non è affatto esagerato. Ma a parte le chiacchiere vediamo di capire cosa si mangia la vigilia di Natale e poi a Natale. A Santo Stefano contentatevi degli avanzi o se fate la scelta di far riposare lo stomaco forse non è affatto male.
Partiamo dunque dalla vigilia. A tutto pesce e perché? Una delle motivazioni è sicuramente che i primi cristiani usavano il pesce come simbologia del Nazareno. Tracciare l’Ictis (due archi di cerchio che originano dallo stesso punto e si intersecano andando uno verso l’alto e l’altro verso il basso ) significava scrivere - e spesso veniva scritto - in caratteri greci dunque iota, xi, teta, upsilon, sigma che sta per esse Iesus Cristus Teo (Dio) Yios (in greco vuol dire figlio) Soter (Salvatore). Dunque evocare il pesce è evocare la cristianità. Pure Lutero quando dette le 95 tesi aveva cenato a pesce e se guardate l’ultima cena di Leonardo troverete che nei piatti c’è il pesce (invece dell’agnello sacrificale). Dunque anche la tavola della vigilia di Natale ha un significato, così come le candele (vedrete nelle note di galateo che le candele si accendono solo la sera) che illuminano il desco sono un tributo al solstizio, al Sol invictus che è la prima origine dei riti del Natale. Ma forse l’ho fatta troppo lunga e allora andiamo in tavola.
Come sempre capita parlando di cucina italiana, ogni regione, starei per dire ogni valle, ha il suo piatto di riferimento. Così il capitone non può mancare a Napoli, l’anguilla nel ferrarese, gli spaghetti con le vongole o a vongole sono endemici di tutto lo stivale, misoltini vanno benissimo nei leghi del Nord, si mangia il baccalà a Livorno come ad Ancona dove tra l’altro la commistione con la cucina ebraica è più forte, la minestra d’arzilla non dovrebbe mancare a Roma, in Puglia riso patate e cozze oppure la minestra di scorfano, lungo tuto l’Adriatico non si rinuncia ai brodetti, non è pensabile una vigilia di Natale a Napoli senza l’insalata di rinforzo, in Liguria senza il cappon magro (ci vuole pazienza a farlo ma il risultato è splendido). Altri piatti da menù della vigilia sono il pesce in scapece, il pesce all’isolana con tante verdure in forno, l’insalata di mare, l’immancabile insalata di polpo e patate, le frittelle di sardine, i tortini di alici, volendo potete far entrare nel menù anche la pasta alla Norma.
La tradizione impone però che alla vigilia di Natale sia bandita la carne. Così potete raccogliere le antichissime ricette della dieta mediterranea ricordandovi che la nostra cucina non affidava alle proteine il compito si sfamare se non per le feste comandate. È tempo di tortelli d’erba e ricotta, è tempo di risotti di mare, ma anche di verdure. A propositi un piatto di riso prevedetelo - ad esempio una bella corona con i gamberi o se volete e potete spendere un po’ di più con gli scampi - perché il riso come tutti i cereali in chicco è sinonimo di attesa di prosperità. Come non dovrebbe mancare un piato di fritto: bastano le acciughe fritte oppure un bel fritto vegetale. Se ne avete portate in tavola i melograni, sono un simbolo potentissimo. Ci sono alcuni suggerimenti che sarebbe bene seguire per stare meglio a tavola questa vigilia e magari risparmiare anche un po’.
Lasciate perdere il salmone affumicato - a meno che non siate disposti a spendere molto per avere quello selvaggio o quello che viene da aziende italiane - anche se tutti lo portano in tavola come antipasto. Piuttosto rivolgetevi alla trota affumicata italiana, e la trota è anche un ottimo secondo magari fatta la burro con le verdure. Riscoprite ad esempio le aringhe: una insalata di aringhe, mele renette, sedano, cavolfiore con un po’ di aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio vi farà fare un figurone. Il baccalà si può fare in mille modi: potreste addirittura oensare ad un men tutto baccalà: partendo con dei crostini con baccalà mantecato, seguitando con una pasta ceci e baccalà con tanto pese, passando ad un ottimo baccalà alla livornese (fritto e poi ripassato nel pomodoro). Se volete strafare i crostini col bacalà mantecato possono essere di polenta abbrustolita o addirittura di polenta fritta. Abituatevi a considerare pesce azzurro. A esempio tortino di alici per partire, spaghetti al sugo di sgombro per proseguire, pesce spatola fritto per godere. Egualmente impepata di cozze, sartù di cozze e vongole seguite da spaghetti alla vongole e un bel cartoccio di orate o spigole di allevamento (italiano mi raccomando) con tante verdure fatte in forno è un menù perfetto che non svuota le tasche, riempie lo stomaco e fa convivialità. Se a questi suggerimenti unite un risotto che può essere con i gamberi, con la seppia e magari al nero di seppia (i bigoli al nero sono ricetta padovana di grandissimo successo) i frutti di mare o con le verdure o semplicemente allo spumante avete fatto bingo. Ne trovate uno qui di seguito che se lo fate vi darà molta soddisfazione politicamente corretta quello col famigerato granchio blu. Per i dolci la tradizione suggerisce dai ricciarelli alle cartellate, dal pandoro al panettone. Ma la viglia di Natale secondo me è perfetta per due dolci di tradizione di grandissimo effetto: la zuppa inglese o il nonno del tiramisù (da tenere sempre in considerazione) e cioè lo stracchino della duchessa.
Antipasto – Corona di Natale
Ingredienti - Una confezione di pasta sfoglia rettangola, due burratine fresche (200 gr circa), 150 gr di trota affumicata di ottima qualità, un uovo. Facoltativi semi di sesamo o di papavero.
Procedimento - Stendete la pasta, spezzettate grossolanamente le burratine e sbattete l’uovo. Ora sistemate sulla pasta sfoglia uno strato di trota affumicata, poi i pezzi delle burratine. Chiudete a metà per il lato lungo la pasta e poi con l’aiuto di un coltello affilato dividetela, sempre per la lunghezza, in due strisce. Intrecciate le strisce di pasta e in una teglia da forno corredata di carta-forno date forma di corona alla treccia. Spennellate generosamente con l’uovo sbattuto, volendo fate cadere a pioggia semi di sesamo o di papavero, e infornate a 180 gradi per circa 20 minuti.
Primo – Risotto al granchio blu
Ingredienti - 4 granchi blu di generose dimensioni, 400 gr di riso (meglio Arborio, Carnaroli, Vialone Nano o Sant’Andrea)una cipolla bianca e uno scalogno, due bicchieri di spumante di ottima qualità, una carota, una costa di sedano, un'altra cipolla, una decina di pomodori ciliegini, un mazzo di prezzemolo, due spicchi d’aglio, due filetti di acciuga dissalati, sale, pepe, olio extravergine di oliva qb.
Procedimento - In una capace pentola mette in acqua fredda sedano, carota, cipolla, due pomodorini e i granchi blu e portate ad ebollizione. Fate cuocere per circa una ventina di minuti da quando prende il bollore. Trascorso questo tempo togliete i granchi conservando il brodo. Fate intiepidire i gamberi poi rompete i carapaci ed estraete tutta la polpa dal corpo e dalle zampe dei crostacei. Tritate finemente l’aglio, la cipolla e lo scalogno. In una casseruola fate imbiondire questo trito in almeno quattro cucchiai di olia extravergine di oliva, tostate il riso poi sfumate con lo spumante. A questo punto aggiungete i pomodorini tagloiati in quattro, la polpa dei granchi e portate a cottura aggiungendo di quando in quando il fumetto che avete ottenuto bollendo i granchi. A fine cottura del risotto aggiustate di sale e pepe, mantecate ancora con un giro di extravergine a crudo e spolverizzate con abbondante prezzemolo tritato.
Secondo piatto – Naselli alla Mediterranea
Ingredienti - 1 kg di Naselli freschissimi che sarebbe meglio farsi sfilettare dal pescivendolo, 400 gr di pomodori ciliegini, 100 gr di olive taggiasche, un mazzetto di erba cipollina e un mazzetto di maggiorana, due spicchi di aglio (facoltativi) un peperoncino fresco o del pepe, sale, mezzo bicchiere di vino bianco secco, 4 cucchiai di olio extravergine di oliva. Se volete alcune fette di pane raffermo da bruschettare.
Preparazione - Eviscerate, squamate e togliete le spine ai pesci e ricavatene dei filetti (tutte operazioni che potete far fare in pescheria) che avrete cura di mondare ben bene dalle lische e di sciacquare sotto acqua corrente. Ora tritate finemente le erbe aromatiche. Tagliate in due i pomodorini. In una capace padella scaldate l’olio extravergine con le erbe aromatiche e se volete anche con due spicchi d’aglio. Andate a fuoco dolce per non friggere le erbe. Eliminate l’aglio quando è dorato e aggiungete i pomodori aggiustando di sale e pepe o peperoncino. Fate stufare i pomodorini per 6 o 7 minuti, aggiungete i filetti di pesce dalla parte della pelle, innaffiate col vino e fate sfumare a fuco vivace. Coprite e fate cuocere 5 minuti. Girate i pesci aggiungete le olive taggiasche e fate cuocere per altri 5 minuti. In ultimo se serve aggiustate ancora di sale e pepe e servite. Se volete potete fare delle bruschette con le fette di pane leggermente agliate depositarle sul fondo del piatto e servire il pesce con i pomodori e il sughetto adagiato sul pane.
Fritto – Crocchette di baccalà
Ingredienti - 500 gr di baccalà già ammollato, 500 gr di patate a pasta gialla, un mazzetto di prezzemolo, 4 uova, 200 gr di farina 00, 200 gr di pangrattato, mezza scamorza bianca, un litro di olio per friggere, tre cucchiai di olio extravergine, due spicchi d’aglio, sale e pepe qb.
Procedimento - Lavate le patate fatele lessare in abbondante acqua non salata. Nel frattempo mondate dalle lische e dalla pelle i filetti di baccalà e riduceteli a dadolata piuttosto fine. In una padella scaldate l’olio extravergine con i due spicchi d’aglio che eliminerete quando saranno dorati. Saltate per 5 o 6 minuti in padella il baccalà aggiustando di pepe. Fate a dadini piccoli la scamorza e tritate finemente il prezzemolo. Scolate le patate e ancora caldissime con lo schiaccia patate fatele cadere in una ciotola capiente. Unite il baccalà che avrete cura di sfibrare con una forchetta. Amalgamate il tutto, lasciate intiepidire, aggiungete il prezzemolo e l’uovo. Mescolate in modo da ottenere un impasto ben fermo. Ora con le mani fate delle crocchette prendendo un po’ d’impasto alla volta e mettendo al centro di ogni crocchetta alcuni cubetti di scamorza. Passate ogni crocchetta nella farina, poi nelle altre uova che avrete nel frattempo sbattuto aggiungendo un pizzico di sale, nel pangrattato, di nuovo nell’uovo e in ultimo ancora nel pangrattato. Ripetete l’operazione per ogni singola crocchetta. Ora scaldate l’olio per friggere in un’ampia padella - meglio se di ferro - e friggete le crocchette poche per volta. Devono avere un bel colore leggermente ambrato. Aggiustate di sale se necessario e servite. Potete anche cuocerle in forno: vi servirà una mezz’ora circa a 180 gradi. Ma fritte sono un’altra cosa!
Frutta secca e arance: i simboli del Natale a tavola

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Portate pazienza ma quest’anno va così: ho riscoperto Pellegrino Artusi e con lui, anzi con la sua prefazione della prima edizione della Scienza in Cucina e l’arte di mangiare bene vi dico: «La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria. Diffidate dei libri che trattano di quest'arte; sono la maggior parte fallaci o incomprensibili, specialmente quelli italiani; meno peggio i francesi; al più al più tanto dagli uni che dagli altri, potrete attingere qualche nozione utile quando l'arte la conoscete. Se non si ha la pretesa di diventare un cuoco di baldacchino, non credo sia necessario, per riuscire, di nascere con una cazzeruola in capo; basta la passione, molta attenzione e l'avvezzarsi precisi: poi scegliete sempre per materia prima roba della più fine, ché questa vi farà figurare».
Dunque avete capito che la parola d’ordine per questo Natale è: semplicità. Siamo d’accordo che ci sono dei capisaldi imprescindibili: i tortellini, le lasagne, il bollito misto sono indispensabile. Poi ogni regione d’Italia si comporta come meglio crede. Ma è soprattutto in fatto di dolci che le tradizioni s’esaltano. Un menù di natale tradizionalissimo dovrebbe prevedere: antipasto all’italiana. È composto essenzialmente da salumi di regione (ma non possono mancare né il prosciutto né uno dei tanti salami) una giardiniera di verdure, formaggi anche questi a seconda delle regioni.
A seguire tortellini o cappelletti in brodo, e ancora lasagne e che possono essere sostituite dalle tagliatelle. Dovrebbe esserci un piatto di riso sostituibile però anche con un timballo. Il classicissimo sartù di riso alla napoletana dovrebbe essere elevato a piatto nazionale. Poi il bollito misto che va servito con le salse. Quello piemontese prevede sette tagli di carne con sete salsa. Non pretendiate da voi stessi tanto, ma almeno una mostarda di Mantova o di Cremona, una salsa verde fatta con un ottimo extravergine e del profumato prezzemolo e una maionese dovrebbero esserci. Se vokete fare una maionese veloce e di sicura riuscita fatela con i rossi d’uovo assodati a cui aggiungete un po’ di latte poi mettete nel frullatore e aggiungete l’olio - io preferisco l’extravergine di oliava - a filo facendo montare il tutto. A fine procedimento se vi va aggiungete un cucchiaio di senape oppure dei capperi dissalati e tritati finemente. Raccomandazione: la carne del bollito non è quella del brodo dei tortellini. Il brodo si fa aggiungendo un po’ di verdure (se ce l’avete metteteci anche qualche crosta di Parmigiano Reggiano o comunque di formaggio duro) alla gallina e al doppione di manzo partendo da acqua fredda (mettete anche qualche grano di pepe) e facendo bollire a lungo e schiumando. Il bollito si fa senza aromi nell’acqua che deve essere a bollore quando si mettono giù i diversi pezzi di carne.
Non possono mancare nel bollito i nervetti o la testina! Zampone e o cotechino (che sono però più protagonisti della cena di fine d’anno) si cuociono ovviamente a parte. Non c’è bollito se non ci sono almeno purè di patate e spinaci lessi ripassati al burro. E qui saremmo già a posto e però ci vorrebbe anche un gran fritto all’italiana che prevede almeno le olive all’ascolana, agnello e pollo fritto, mela fritta e cremini.
Questo è l’abc della tradizione su cui si innestano le infinite declinazioni regionali. Ad esempio potete se non avete voglia di fare i tortellini potete sostituire con zuppa imperiale e o passatelli. Se non volete fare il bollito i piatti di carne di maggiore tradizione possono essere il filetto alla Wellington (ottimo anche se richiede un po’ di perizia) la punta di petto ripiena, la rosa di Parma (di fatto un maxi-involtino) il farsumagru siciliano. Quest’anno dovreste far tornare di moda lo sfornato: quello di cavolfiore è ottimo e si fa in fretta. Non dimenticate di portare in tavola gli agrumi: sono beneaguranti e richiamando il sole fanno parte della ritualità del solstizio. Così potete organizzarvi con una macedonia di agrumi, oppure con un’anatra all’arancia (al posto magari del bollito) o ancora con un’insalata di finocchi, arance e olive ottima per rinfrescare il palato tra una portata e l’altra. Obbligatoria è la frutta secca: per i roani era simbolo di fertilità, tant’è che durante gli sponsali si ricoprivano i pavimenti dello sposo con le noci. Per la cristianità sono il massimo. Gli alberi stessi (mandorli, noccioli, noci) sono simbolo della Chiesa. La mandorla è simbolo della Madonna: il guscio duro e la dolcezza dei frutti starebbero a indicare la via che il buon cristiano percorre per arrivare alla santità. Infine i dolci: obbligatori sono il torrone, il panettone e il pandoro. Poi ogni casa in Italia ha il suo.
Antipasto – Olive fritte
Ingredienti - 40 olive denocciolate meglio se Tenera Ascolana in salamoia, 800 gr di gallinella, o nasello, o rana pescatrice (pulito il pesce sarà la metà di peso ed è la dose di polpa che ci serve), 3 uova, 150 gr di farina, 300 gr di pangrattato, un litro di olio per friggere, un mazzetto di prezzemolo, sale e pepe qb.
Procedimento - Pulite bene il pesce e sfilettatelo. Poi battetelo al coltello fino ad ottenere una tartare finissima. Aggiustate di sale e pepe. Tritate finemente il prezzemolo e unitelo al pesce. Ora con un coltellino aprite per il lungo da un lato solo a portafoglio le olive e riempitele una a una con un po’ di pesce. Premete in modo che il pesce aderisca bene alla drupa. Sbattette le uova ben bene. Infarinate le olive, passatele nell’uovo, poi nel pangrattato ancora nell’uovo e ancora nel pangrattato. Nell’ultimo passaggio premete bene le olive e roteandole nei palmi delle mani date loro una forma quasi sferica in modo che siano ben compatte. Fate scaldare bene l’olio e quando sarà a temperatura, friggete le olive poche alle volta. Adagiatele in un contenitore con carta da cucina o assorbente in modo che perdano tutto l’olio di frittura poi salate e servite.
Primo piatto – Tagliatelle in crosta
Ingredienti - 250 gr di tagliatelle all’uovo di ottima qualità, una confezione di pasta brisé, 400 gr di funghi (vanno benissimo anche gli champignon), 150 gr di ottimo prosciutto crudo in due sole fette, 150 gr di formaggio Montasio (potete sostituire con Fontina o Asiago), 70 gr di burro, un uovo, tre cucchiai di olio extravergine di oliva, due spicchi d’aglio, un ciuffo di prezzemolo, sale e pepe qb.
Procedimento - Fate a julienne il prosciutto e a brunoise, il Montasio, mondate i funghi e mettete a bollire una pentola d’acqua dove lessare le tagliatelle. In una padella fate dorare nell’olio extravergine di oliva l’aglio, poi aggiungete i funghi tagliati a fettine. Fate prendere colore poi abbassate la fiamma e fate perdere tutta l’acqua ai funghi, aggiustate di pepe e di sale. Tritate finemente il prezzemolo. Ora foderate con la pasta brisè, mantenendo la carta forno, una tortiera a cerniera di 20 cm avendo cura che sbordi molta pasta. Lessate per non più di due minuti le tagliatelle in acqua salta, scolatele bene e conditele col burro. Poi saltatele nella padella con i funghi. Spegnete il fuoco e aggiungete la juliene di prosciutto e la dadolata di Montasio. Mescolate bene spolverizzando con il prezzemolo tritato e aggiustate se del caso col pepe. State attenti al sale perché la sapidità di prosciutto e formaggio potrebbe rendere disarmonico il piatto. Ora trasferite le tagliatelle nella tortiera avendo cura di lasciar cadere qua e là qualche fiocchetto di burro. Ricoprite con la pasta brisé a mo’ di bauletto. Sbattete solo il rosso dell’uovo e pennellate la superficie della crosta per dorare e infornate a 180 gradi per una ventina di minuti o fin quando la paste brisé non abbia un bel colore dorato.
Secondo piatto – Filettini alla melagrana
Ingredienti - 800 gr di filetto di maiale, 150 gr di pancetta stesa o di bacon, una melagrana di generose dimensioni, 4 cucchiai di olio extravergine di oliva di prima qualità, 80 gr di burro di primo affioramento, 8 foglie di salvia freschissime, sale e pepe qb.
Procedimento - Massaggiate con l’extravergine sale e pepe il filetto di maiale, ricavatene otto medaglioncini di circa un etto l’uno. Foderate completamente ogni fetta di filetto, che avrete ricoperto con una foglia di salvia, con la pancetta. Ora aprite la melagrana, sgranatela tenendo da parte un paio di cucchiai di chicchi, e frullate il resto passando a un colino fine il succo ricavato.
Scaldate in una padella extravergine e burro e appena il grasso ha preso calore passate in padella i filettini cuocendo un paio di minuti per parte. Ora irrorate la carne con il succo di melagrana rigirando i filettini di quando in quando per altri 4 minuti circa facendo ritirare il sughetto di cottura. Servite – dopo aver aggiustato se serve di sale e pepe - guarnendo con chicchi di melagrana e nappando col fondo di cottura
Dessert – Coppette di mandaranci
Ingredienti - 4 mandaranci di generose dimensioni assolutamente non trattati, 200 ml di latte, 5 cucchiai di farina 00, 125 gr di zucchero semolato, un uovo, 100 gr di cioccolato fondente. Volendo qualche fogliolina di menta fresca.
Preparazione - Tagliate a metà i mandaranci, conservandone uno intero, spremeteli con cautela in modo da non romperli, poi con l’aiuto di un cucchiaino (meglio se da agrumi: sono quelli appuntiti) svuotateli più che potete raccogliendo altro succo. In un pentolino scaldate il latte, aggiungete il succo dei mandaranci filtrato al colino cinese, la farina, lo zucchero e l’uovo e preparate una crema. Grattugiate la buccia del mandarancio che avete lasciato da parte nella crema avendo cura di non intaccare l’albedo. Fate intiepidire la crema e con l’aiuto di un mestolino colmate con la crema i mezzi mandaranci che avrete sistemato su di un piatto. Mandateli in frigorifero per almeno una mezz’ora. Quando saranno ben freddi guarnite le coppette di mandaranci con una generosa grattugiata di cioccolato fondente e, se piace, con qualche fogliolina di menta.
Cantina Italia: dove vai bevi al meglio

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D’accordo è il centenario di Giacomo Puccini, ma come si fa a non sentire di essere tutti un po’ traviato (in senso buono) con queste arie di festa? Allora abbiate pazienza se vi invito a intonare con me: «Libiamo, libiamo ne' lieti calici, che la bellezza infiora/ E la fuggevol, fuggevol ora s'inebriì a voluttà /Libiam ne' dolci fremiti che suscita l'amore/ Poiché quell'occhio al core onnipotente va /Libiamo, amore, amore fra i calici più caldi baci avrà!» dunque accostiamoci al vino e sempre per citare un immenso cultore della scienza gastronomica v’ammonisco con Jean Anthelme Brillat-Savarin che nella sua imprescindibile Phisiologie du guot ammonisce: «Un pasto senza vino è come un giorno senza sole e pretendere di non cambiare vino durante il desinare è un’eresia: la lingua si sazia e, dopo il terzo bicchiere, anche il vino migliore dà una sensazione appena ottusa». Ora se dovessi indicarvi quali vini bere tra la vigilia e il Natale compirei un’operazione di assoluta folle parzialità. Diamo pertanto delle indicazioni di massima che ci servono a non sbagliare.
Prima cosa si va dai vini più leggeri a quelli più strutturati: dai bianchi ai rossi fino ai vini passiti. Tuttavia vi sono dei vini da dessert che possono entrare in degustazione durante un pasto. Ad esempio se avete un filetto di tonno di spessore provare un Marsala stravecchio, come un Vecchio Samperi e un Florio Stravecchio non è un delitto e quel vino accompagna egregiamente anche una faraona alle castagne. Così come un grande Passato di Pantelleria, una Malvasia delle Lipari o un Muffato tra Umbria e Marche - citiamo il Muffato della Sala, il Maximo di Umani Ronchi, la Malvasia di Carlo Hauner - possono darvi una sensazione d’ infinita pienezza anche con un formaggio erborinato. Il secondo consiglio è di stare aderenti quanto più si può alla propria regione se si portano in tavola piatti d’impostazione vernacolare. Ad esempio come rinunciare a un Lambrusco di Paltrinieri o di Venturini Baldini con lo zampone o a un Sangiovese di Romagna di Drei Donà o di Branchini se si fanno piade d’antipasto. Non fate la bestemmia di servire spumanti non dolci con i dessert: Brachetto d’Acqui (Braida) il Moscato d’Asti (Cad’gal, la Caudrina) o l’Asti Spumante (Cantina Cuvage), il Fior d’Arancio (Colli Euganei) sono i migliori compagni di dessert “zuccherosi”. Se avete invece pasticceria secca dal Vin santo toscano (ad esempio avignonesi) al Moscato giallo trentino (San Michele appiano) dal Piccolit (d’Attimis) al Verduzzo (Bosco del Merlo) dal Moscato di Pantelleria (Donnafugata, Cuddia del Gallo) al Breganze passito (Maculan) e poi ancora Sagrantino passito (Antonelli) Vernaccia di Oristano (Silvio Carta) al Moscato di Scanzo (De Toma) sono ottimi vini da fine pasto. Quest’anno è l’anno degli spumanti. Se volete bolle ottime e leggere ci sono il Prosecco di Nini Franco, il Valdobbiadene millesimato di Canevel, la Passerina spumante di Velenosi, ma ormai quasi tutte le regioni d’Italia «spumano». Penso al Verdicchio di Garofoli, all’ottima produzione di Semonte a Gubbio, al Nerello Mascalese di Scammacca del Murgo. Tra gli spumanti meridionali una citazione a parte merita senza dubbio la produzione di D’Arapri, come non trascurabile è il villa Solais di Cantina di Santadi, l’eccellenza assoluta sarda di Sella & Mosca.
Tra i bianchi come detto si va per regioni, ma certo ci sono dei capisaldi irrinunciabili. Tra gli spumanti metodo classico se si sceglie Bellavista o Contadi Castaldi, Cà del Bosco, Berlucchi o il Mosnel in Franciacorta non si sbaglia, Enrico Serafino o Ettore Germano in Alta Langa, Monsupello in Oltrepò, Ferrari, Maso Martis Abate Nero, Bossi Fedrigorti tra Trentino e Alto Adige si va sul sicuro. Venica, Jerman, Livio Felluga in Friuli per i bianchi sono imperdibili, così come scendendo nelle Marche Umani Ronchi, Mirizzi Utopia, Coroncino, La Monacesca, Velenosi. Tra i grandi bianchi come non citare il Pigato di Lupi, il Gavi di Gavi de la Scolca, e poi il Greco di Mastroberardino, il Trebbiano di Valentino o di Pepe, le bottiglie di Cusumano in Sicilia, l’immenso Fior d’Uva di Marisa Cuomo.
Tra i rossi la scelta è immensa. Barera di Braida, il Nebbiolo di Gagliardo, il Barolo di Marchesi di Barolo, Boroli, poi i miti che si chiamano Clerico, Gaja, Pio Cesare. Sempre in Piemonte la produzione di Ca’ del Baio dallo Chardonnay alla Barbera. E ancora bottiglie mito sono l’Amarone di Masi o di Allegrini, il pinot nero di Hofstatter che non ha rivali in Alto Adige, gli immensi toscani. Dai Brunello di Banfi, Costanti, Maroneto, ai grandissimi Chianti Classico di Mazzei, Ricasoli, Castello d’Ama per planare sulla produzione dei Marchesi Antinori (Tignanello, Solaia, Badia a Passignano) la chicca assoluta di Frescobaldi (Castello di Nipozzano, Chianti Rufina) e poi a Bolgheri ovviamente Sassicaia, Guado al tasso, il miglior cabernet franc del mondo che è il Paleo di Campolmi, l’immensa produzione dal punto di vista qualitativo di Tenuta di Biserno (Insoglio del cinghiale) e i vini maremmani come Petra, come il Vigna di Cristo di Fiorella Lenzi. E ancora si scende al Confine tra Lazio e Umbria con il Montiano dei Cotarella, in Umbria s’incontra l’immenso Sagrantino di Montefalco di Marco Caprai, nelle Marche il Solo di Dezi o il Pollenza di Brachetti Peretti, verso l’Aglianico di Di Meo, e ancora Mastroberardino, Terredora. Paternoster in Calabria, in Basilicata Cantine del Notaio, in Puglia il Raccontami di Vespa, in Sicilia dal Rosso del Conte di Tasca d’Almerita al Mille e una notte di Donnafugata per arrivare al Terre Brune di Santadi e al Barrua di Agripunica in Sardegna. Ma questi sono solo alcuni dei cento e cento immensi vini d’Italia. Auguri!
Il galateo delle feste: le 10 cose da fare e non fare per questo Natale

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Il Natale è un momento di grande festa e di rito dell'incontro che dovrebbe mettere tutti a proprio agio e farli sentire accolti con grande empatia. Ecco che quindi preparare una tavola ben apparecchiata acquista un significato profondo e aiuta a sentire ancor più speciale l'incontro con i commensali.
È però bene sapere che:
- la tovaglia dovrebbe essere sempre linda e pinta, senza macchie nè tantomeno piegature che devono essere stirate prima di porle sul tavolo. Il galateo vorrebbe che il color della tovaglia fosse chiaro ma almeno a Natale si può chiudere un occhio e utilizzare anche la fantasia. Il colore di tendenza di quest'anno è il verde ma senza esagerare perché vale il detto «less is more».
- non tutti sanno che il galateo è anche sostenibilità, ecco quindi che almeno a Natale o a Capodanno possiamo evitare di utilizzare piatti, posate e stoviglie di plastica/carta, compresa la famosa e sdoganata melamina! rispolveriamo i servizi «buoni» della nonna e circondiamoci di bellezza anche con eccellenze come le storiche porcellane Ginori.
- immancabile a capodanno un caloroso brindisi con un vino che accompagna l'incontro. Il galateo si raccomanda di non battere i bicchieri (i rumori sono sempre fastidiosi) e di non dire "cin cin" ma chi siamo noi per rompere quel momento di gioia facendo i maestrini dalla penna rossa? Se ci pensiamo però accompagnare il brindisi con un piccolo e sentito messaggio augurale sarà di certo più efficace e a volte più toccante di mille Cin Cin!
- il centrotavola è il coronamento di un'accurata apparecchiatura e a Natale non può mancare, ma attenzione a non usare fiori troppo profumati che potrebbero andare ad interferire con i sentori dei vini o delle pietanze.
- attenzione va posta anche all'uso delle candele che sono un must durante le festività. esse non devono essere troppo alte e invadenti da mortificare l'incontro degli sguardi, ma nemmeno troppo basse da toccare incidentalmente quando si prende un bicchiere e bruciarsi il polso. Vedo spesso durante i pranzi del 25 dicembre o del 1-6 gennaio i centrotavola con le candele: attenzione perché l'utilizzo è consentito solo dopo le 18 quando la luce del giorno comincia a perdersi completamente e mai a mezzogiorno! Vi confesso però che anche io ho ceduto a questa tentazione.
- a proposito di candele, si accendono sempre prima dell'arrivo degli ospiti ma non si spengono mai prima che tutti siano andati via! Utilizzarlo come segnale di congedo non è proprio elegante e spegnere le candele davanti agli ospiti che si attardano a far serata è sempre un gesto che sembra cacciare via!
- apprezzata moltissimo la puntualità dell'appuntamento ma sapete che essere in anticipo è più sgarbato che essere in ritardo? I padroni di casa potrebbe anche solo 15 minuti prima, essere in piena attività e anticipare l'incontro potrebbe creare davvero caos!
- se non volete presentarvi a mani vuote è bene concordare prima con chi ci ha invitato il vino o il dolce da portare ma se così non fosse, non bisogna rimanerci male se poi le vostre leccornie non vengono messe a tavola perché di certo è stato studiato un menù apposito pronto per essere armonico e apprezzabile per tutto l'incontro. Meglio allora prevedere di inviare la mattina stessa o il giorno dopo, un omaggio accompagnato da un bel biglietto di ringraziamento. Il risultato sarà di certo più comodo per tutti!
- una nota particolare va fatta per il tovagliolo che proprio nelle festività natalizie incontro pirotecnici modi di presentarlo. Innanzitutto il tovagliolo va apparecchiato a sinistra dopo le posate e mai con esse sopra. Le forme ad albero di Natale, a nastro, ad animale ecc. non andrebbero proposte non perchè non siamo carine e simpatiche, ma semplicemente perchè il tovagliolo (che va a contatto strettissimo con la bocca) andrebbe maneggiato il meno possibile, piegato a rettangolo o a triangolo con la bombatura verso il piatto. Decorarlo poi con paillettes, foglie di edera (che tra l'altro è tossica) brillantini o altro inficia l'utilizzabilità salubre del tovagliolo stesso.
- infine la regola più importante è quella di apparecchiare con generosità un elemento fondamentale: l'empatia! senza questa, potete aver fatto tutto benissimo, secondo le perfette regole di Monsignor Della Casa ma avrete fallito con l'ideale dell'incontro: quello di essere felici con i vostri ospiti per tutto il tempo che risiederanno sotto il vostro tetto (cit. Brillant Savarin)!
Ecco una guida pratica per una scelta ragionata delle bottiglie migliori in vista del 2024.
Conviene meditare questa frase alla vigilia del Capodanno quando a mezzanotte si leveranno i calici come promessa di prosperità: «Non c’è nessuno che conosca il segreto del futuro. Quello che vi serve è del vino, dell’amore e del riposo a piacere». L’ha scritta poco dopo il Mille uno dei maggiori filosofi, astronomi, matematici persiani Omar Ḫayyām. L’ho scelta perché questo è il periodo di Gesù bambino che diventa Cucù, del presepe vietato per non offendere le altre culture, o delle rappresentazioni della natività – quest’anno corrono 800 anni esatti dalla prima celebrazione fatta da San Francesco nella grotta di Greccio - politically correct all’insegna del non dimentichiamoci del condominio Lgbtq+. Bene, Ḫayyām scrive quattro secoli dopo da quando Maometto ha dettato il Corano, segno evidente che la proibizione del vino è precetto claudicante e che forse l’Islam non s’offende così tanto facilmente se noi teniamo salde le nostre tradizioni.
Dunque a Capodanno si beve – con la giusta misura – perché per dirla con un’altra grandissima Virginia Wolf «il linguaggio è il vino sulle labbra». Se a San Silvestro vogliamo fare convivio, scambiarci gli auguri, alimentare l’empatia indispensabile a generare rispetto e affetto abbiamo bisogno di parole di vino. È allarmante una notizia – del resto qui si tratta questa merce – che arriva dalla Francia che se non è la culla del vino (era l’Italia nella classicità a essere detta Enotria, e tanto basta) di certo è il paese che nella storia degli ultimi tre secoli ha reso il vino un valore economico e uno stile di vita. Lì l’80% degli under 20 non solo non beve vino, ma non lo conosce. Chiedersi se esista una relazione tra questa ignoranza e la piaga dello sballo forse sarebbe utile. Il vino è – lo è soprattutto durate le feste – quel linguaggio sensoriale che trasmette identità, cultura tradizione. Ma ora veniamo al dunque: quale scegliere? Tanti anni fa un energico ancorché vetusto contadino di Cividale del Friuli – aveva sulle spalle non meno di una settantina di vendemmie – al termine di una degustazione con le necessarie iperboli e le esagerate narrazioni mi si fece d’accosto e mi disse: “Ti gà parlà ben, ma te volevo dir che el vin o xe bon o no xe bon.” Game, set, partita! E’ vero: la prima grane distinzione è se il vino è buono o non è buono. E’ abbastanza vero che il vino buono costa un po’ di più, ma vale molto di più: dunque sotto una certa cifra (vogliamo dire 8 euro?) qualche dubbio è lecito. Seconda regola: si beve secondo cibo. Come asserisce Jean Anthelme Brillat-Svarin nella fisiologia del gusto (per capire di gastronomia bisogna mandarla a memoria) “sostenere che durante un pranzo non bisogna cambiar vino è un'eresia; la lingua si satura, e dopo il terzo bicchiere il vino migliore desta una sensazione ottusa. “ Dunque almeno durante il Cenone cambiamo i vini. I bianchi con il pesce, le paste e le carni bianche, con le uova, i sughi vegetali. Con i fritti sempre gli spumanti, con le carni i rossi aumentandone la corposità al crescere della consistenza della portata. Con i dolci mai spumanti secchi: vini da dessert, passiti (vanno benissimo anche con i formaggi erborinati o molto stagionati), se ci sono creme il Moscato (sono tanti dall’Asti spumante all’ottimo di Pantelleria o al rarissimo Moscato di Scanzo), con la frutta anche spumanti rossi dolci come il Brachetto o la Vernaccia di Serrapetrona amabile, assoluto il Sagrantino passito di Montefalco, se avete frutta secca Piccolit, Torcolato, Vernaccia di Oristano, Vin Santo Toscano o Vino Santo Trentino, Malvasia di Pantelleria, col cioccolato Marsala Stravecchio (ma è ottimo anche con tonno alla griglia, in genere piatti affumicati) oppure Barolo chinato, ma mai assolutamente mai un vino spumante metodo classico, ma anche un metodo Martinotti lungo come la maggior parte dei Prosecco, con i dolci o la frutta fatta eccezione per le fragole.
C’è un altro criterio assai divertente per l’abbinamento: quello di territorio. Qualche esempio: roastbeef o fiorentina: Brunello di Montalcino, Chianti Classico o Nobile di Montepulciano. Con l’agnello Montepulciano d’Abruzzo, Rosso Piceno, Nero Buono di Cori, ma anche Tintillia molisana e soprattutto Bovale di Cagliari o Carignano del Sulcis. Con la finanziera, la caccia, Barolo, Barbaresco, Barbera, con il bollito o Lambrusco (che sia Sorbara, Salamino, Reggiano fate voi) oppure salendo di tono Amarone o Ripasso della Valpolicella. Ma ancora: Farsumagro: Nero d’Avola o Nerello Mascalese ma anche Cerasuolo di Vittoria o Frappato. Si va di baccalà: e allora Soave, Verdicchio, Friulano. Si pensa al salmone o alla trota affumicata Sauvignon del Collio, ma anche Muller Thurgau della val di Cembra o i due Incroci: il Manzoni (Riesling Renano per Pinot Bianco) o il Bruni (Verdicchio per Sauvignon). Avete caviale? Beati voi, ma allora serve una grande bolla: Alta Langa, Oltrepò Pavese, Franciacorta, Trentodoc: i grandi metodo classico d’Italia (anche se i franciacortini rivendicano un metodo di rifermentazione in bottiglia tutto loro). Insomma piatto maremmano vino maremmano, piatto ligure vino ligure: è un ottimo modo per comporre una geografia del gusto consonante. C’è un altro segreto che molti tendono ad ignorare: inutile spendere dei bei soldini in un vino se poi si maltratta. Ci vuole il bicchiere giusto, bisogna stare attenti alla giusta temperatura, alla scala di gradazione e consistenza se s’intende seguire l’insegnamento di Brillat-Savarin. Tutte indicazioni che se volete potete trovare in “Galatime Atto Secondo” il libro (lo stampa ancora Maretti) che io con Petra Carsetti abbiano scritto sul Galateo dedicandolo stavolta alle regole di servizio e di comportamento durante un pranzo o una cena al ristorante o a casa. E il vino come avrete capito è magna pars di questa “liturgia” conviviale. Provo qui a disegnare un’opinabilissima lista di vini a cui potrete prestare attenzione per il cenone di San Silvestro.
Bianchi – E il loro momento come è il momento dei rosati perche si cercano gradazioni più contenute. Facciamo un viaggio da nord a Sud. Petit Arvine e Blanc de Morgex e de La Salle (ottimo da Ermes Pavese) dalla Valle d’Aosta. In Piemonte: Arneis, Nascetta, Gavi di Gavi (e qui La Scolca non si batte). In Lombardia la Lugana del Garda, lo Chardonnay di Franciacorta (Castello dell’Annunciata) in Veneto dal Soave (Pieropan da tenere in massimo conto) all’Incrocio Manzoni (Collalto). In Friuli c’è di tutto Sauvignon e Friuliano (Venica) Pinot Bianco (Livio Felluga e Russiz Superiore) Ribolla gialla, Malvasia del Carso (Kante) poi grandissime bottiglie Terre Alte (Livio Felluga), Vintage Tunina (Jermann), Breg (Josko Gravner). In Trentino Nosiola, Pinot Bianco, Chardonnay, Sylvaner(Valle Isarco) Cardnnay (Terlano). In Emilia Romagna va rivalutato il Pignoletto, in Liguria (Lupi) , Bianchetta genovese, Bosco delle Cinque Terre. In Toscana tornano oltre al Vermentino di Luni e di Maremma, l’Ansonica dell’Argentario e del Giglio, il Trebbiano e un classico immenso: la Vernaccia di San Gimignano (Falchini, Teruzzi & Puthold). Con anche esperimenti come l’unione di Marsanne e Roussanne (Serrabacio della Serraiola). In Umbria Grechetto dei colli Martani (Caprai, Lungarotti) e Orvieto classico. Nel Lazio Malvasia puntinata e Bellone (Cincinnato), Est Est Est di Montefiascone (Falesco) in Campania Falanghina, Fiano,Biancolella (Marisa Cuomo). Nelle Marche Verdicchio di Jesi (Umani Ronchi, Mirizzi, Garofoli) e di Matelica (La Monacesca) la Ribona (Fontezzoppa), la Garofanata, il Pecorino (Velenosi) in Abruzzo il Trebbiano (Pepe, Valentini) e del pari in Molise (Di Majo Norante). In Puglia Bombino, Verdeca, Fiano Minutolo (Rivera), in Basilicata ancora il Greco (Cantine del Notaio) per arrivare in Calabria Cirò Bianco (Santa Venere), in Sicilia Damaskino (Donnafugata), Greco (Cusumano), Catarratto (Firriato) Moscato fresco (Abraxas). E per finire in Sardegna Vermentino del Sulcis (Santadi) Torbato (Sella e Mosca), Vermentino di Gallura (Capichera).
Rosati - Sono i vini del momento con alcune zone di grande vocazione: la Puglia (Five Roses) l’Abruzzo con il Cerasuolo (Pepe), la stessa Sicilia (Planeta, Donnafugata) ne ha fatto una nuova vocazione vitivinicola, il Garda con Bardolino su tutti, ma ora anche zone che hanno uve importanti cominciano ad esplorare il rosato: così la Toscana (Castello di Montepò, Scalabrone), l’Oltrepò pavese, il Trentino Alto Adige (Lagrein Ketzer per dirne uno) il Piemonte e grandissimo successo hanno gli spumanti in rosa.
Rossi – Raccontare tutti i rossi italiani è un’ impresa: si parte dal Piemonte con Barolo (Serafino, Elvio Cogno, Boroli, Marchesi di Barolo,Einaudi per dirne alcuni) e Barbaresco (Gaja basta la parola, ma costa un occhio e allo Castello di Neive e poi i grandi barolisti: Chiarlo Giacosa). Da non trascurare la Barbera (Bologna) il Dolcetto, e poi gli altri grandi nebbiolo: Gattinara (Travaglini) Carema (Ferrando). Passiamo in Veneto con l’Amarone (Masi, Tedeschi e poi i carissimi. Allegrini e Dal Forno), in Friuli va riscoperto il RefosCo dal peduncolo rosso, in Trentino Teroldego (Foradori) e Lagrein (Novacella) ma c’è poi un vino che eccelso: San Leonardo! In Emilia si va di Lambrusco (Paltrinieri) in Romagna di Sangiovese (Drei Donà) nelle Marche di Rosso Conero (Le Terrazze, Umani Ronchi) di Vernaccia nera, di Rosso Piceno (Veleonosi). In Abruzzo è tutto Montepulciano (Valentini è il top del top e costa una tombola, Pepe unico, ma poi ci sono tantissimi ottimi produttori). In Molise si punta sulla Tintillia (Terresacre oltre a Di Majo Norante) in Puglia su Negramaro e Primitivo (Vespa) in Sicilia Nero d’Avola (Feudo Montoni) Nerello Mascalese (Dnonnafugata, Cusumano, Planeta), in Calabia Ciro (Paternoster) in Basilicata Aglianico (Cantine del Notaio), in Campania ancora Aglianico (Mastroberardino, Di Meo), nel Lazio Nero Buono (Cincinnato) Syrah (Casale de Giglio), in Umbria Sagrantino di Montefalco (Caprai su tutti, poi Antonelli9 e Sangiovese (Lungarotti) e arriviamo alla Toscana che una e trina. C’è Bolgheri e Castagneto che significa i grandissimi: Sassicaia, Paleo, Ornellaia, Masseto, Inzoglio di Cinghiale di Biserno. C’è la Maremma col Morellino (ottimo il Grillesino), Monteregio (Vigna Montecristo di Serraiola) e Suvereto (di classe assoluta Petra), c’è infine l’immensità del Sangiovese assoluto: Chianti Classico (Ricasoli, Castello d’Ama, Mazzei, Felsina, Antinri), i grandissimi Sangiovese in purezza come Pergole Torte e poi le due grandi denominazioni: Montalcino col Brunello e Montepulciano col Nobile. Su Montalcino va detto che quest’anno il vino di Argiano vendemmia 2018 è stato incoronato miglior vino del mondo per il 2023. Dire che è diventato introvabile è un’ ovvietà. Ma a Montalcino con Costanti (Podere al Matrichese) le Potazzine, Fattoria de’ Barbi si beve bene senza svenarsi. Così vale per il Nobile con la Braccesca, Boscarelli, vignonesi. Non va trascurato il Carignano (Tenuta Capezzane) e il Chainti Rufina (Frescobaldi) Ma non si può lasciare la Toscana senza citare Solaia e Tignanello due perle assolute di Piero Antinori. In Sardegna cannonau in ripresa ma tre bottiglie in assoluto meritano attenzione: Barrua di Agripunica, Terre Alte di Santadi e Turriga di Argiolas che esalta anche il Bovale.
Spumanti – L’Italia spuma ormai ovunque e ci sono moltissimo ottimi spumanti da vitigni autoctoni. Stando sul prosecco due firme sono irrinunciabili: Nino Franco e Canevel. Poi tra i tanti spumanti di territorio va citato Garofoli col Verdicchio nelle Marche, ma anche Mirizzi oltre a Velenosi che con la Passerina metodo Martinotti ha prodotto il Prosecco dell’Adriatico, vanno citati i tre soci di D’Araprì che in Puglia producono con il Bombino Bianco ottime bottiglie. Quanto alle Marche va rivelata una curiosità: i francesi si piccano di avere inventato il metodo di rifermentazione in bottiglia che alla base dello Champagne con il mitico Dom Perignon, ma in realtà i primi in assoluto a codificare il metodo sono stati Andrea Bacci sul finire del 500 con il suo De Natutali vinorum historia (Lui era l’archiatra del Papa) e l’altro medico fabrianese Francesco Scacchi che ne 1622 (dunque quarant’anni prima del francese) scrive il De salubri poto dissertatio. Ovviamente quando si parla di bolle non si può andare in Oltrepò pavese un giacimento di pinot nero (ottime le bottiglie di Monsupello) né è trascurabile il Trentino (Abate Nero, ma anche Cavit e Rotari e Bossi Fedrigotti) e in Franciacorta bisogna proprio passarci (Contadi Castaldi Uberti, Mosnel, le Marchesine, Montenisa). L’Italia ha però dei campioni assoluti: Giulio Ferrari Riserva del Fondatore (Trentodoc) Madame Martis e Monsiuer Martis (Trentodoc), Enrico Serafino (Alta Langa che sta sui lieviti minimo 96 mesi!) Vittorio Moretti Riserva Extrabrut (Terra Moretti, Francicorta) Ca’ del Bosco Cuvée Annamaria Clementi. Queste bottiglie stanno al pari e sovente battono i migliori Champagne. Va da sé che tutta la produzione di queste cantine nelle varie declinazioni di prezzo è ottima. Ma ho cominciato con la Francia e finisco con la Francia. Purtroppo questi sono ancora giorni di guerra e allora viene in mente Sir Winston Churchill che per incoraggiare i deputati della Camera dei Comuni a non ostacolare l’azione militare contro Hitler disse: E ricordatevi noi non combatteremo per i francesi, ma per lo Champagne. Churchill ne era un raffinato degustatore canto che madame Roger creo per li una riserva specialissima. Ecco se a Capodanno siete in vena di spendere e volete sentirvi in pace stappate la Riserva Winston Churchill di Pol Roger. Ne vale la pena. E buon 2024 con qualsiasi vino purché “el sia bon.”
Nella notte fra il 16 e il 17 ottobre del 1590 due persone vengono massacrate a Napoli nel Palazzo di Sangro, residenza dei principi di Venosa: sono Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa, amanti, bellissima nobildonna lei, duca d’Andria lui. Vengono sorpresi a letto in atteggiamenti inequivocabili, in seguito a una delazione, dal marito della donna, nonché padrone di casa, Carlo Gesualdo, celeberrimo compositore di madrigali. È una esecuzione: i bravacci che scortano il principe cornificato a un suo ordine scaricano gli archibugi sui due. Secondo alcuni storici, Maria non morì subito. Gesualdo la finì pugnalandola ripetutamente nel basso ventre.
Il duplice omicidio sollevò un enorme scalpore nel regno aragonese di Napoli, nello Stato Pontificio e in parecchie corti italiane dove il musicista assassino era celebre e celebrato. Oltre alla fama di madrigalista, il principe di Venosa era nipote di due cardinali, Alfonso Gesualdo e Carlo Borromeo, il futuro santo, e pronipote di un Papa, Pio IV. Tra gli amici della coppia c’era il grande Torquato Tasso che in occasione del matrimonio dedicò loro un sonetto. Il processo durò un giorno: Gesualdo fu assolto per giusta causa. Delitto d’onore. Franco Battiato, 400 anni dopo gli dedicò una canzone nell’album L’ombrello e la macchina da cucire: «I madrigali di Gesualdo,/ Principe di Venosa,/ musicista assassino della sposa./ Cosa importa?/ Scocca la sua nota,/ dolce come rosa».
Nunc est bibendum, arriviamo al vino del territorio. Gesualdo era nato a Venosa nel 1566. È tutt’ora uno dei compositori del tardo Rinascimento più famosi al mondo. Ha dato molto lustro al paese natio. Venosa, bellissima cittadina, uno dei borghi più belli d’Italia, lo ha ricambiato celebrando la sua musica in varie manifestazioni, raccontando la penosa vita e la lunga agonia - vide morire tutti i figli e si spense oppresso dai rimorsi e dai peccati - prima della morte. Il feroce delitto continua a far notizia per le tre «esse»: sesso, sangue, soldi. A Venosa la truce storia è stata perfino… imbottigliata.
La Cantina di Venosa, unica cooperativa vitivinicola della Basilicata, fra le più importanti del Sud Italia (vanta 350 soci e 800 ettari di vigne coltivate in gran parte ad aglianico, produce due milioni di bottiglie) ha creato una linea top che con tre vini molto particolari: il Gesualdo da Venosa, rosso, al 100 % aglianico del Vulture Dop; il D’Avalos, greco bianco con riflessi rinascimentali; l’Incomodo, merlot rosato. Lui, lei, l’altro. Tre vini eccellenti. In particolare il Gesualdo, figlio dei terreni vulcanici che si stendono alle falde del Vulture, come riconosce la guida Bibenda 2024 che gli ha assegnato cinque grappoli, il massimo riconoscimento. Il carattere esplosivo del vulcano e la musicalità e il temperamento del personaggio di cui porta il nome ha trasmesso carattere al vino.
Nunc est bibendum. Chi non conosce questo verso di Quinto Orazio Flacco, uno dei più grandi poeti dell’antichità, anche lui figlio di Venosa? Non c’è vigneto, cantina, osteria o ristorante, che non sventoli la bandiera del Nunc. Da secoli è la filosofia di chi apprezza il succo della vite per il colore, il profumo, il sapore; per l’armonia e il carattere, l’allegria, l’amicizia, la convivialità. Il Nunc di Orazio ha attraversato i secoli in bocca ai goliardi, agli artisti, ai poeti. Il vino, per Orazio, era un antidepressivo, soprattutto nella cattiva stagione, quando la natura, anche quella interiore all’uomo, s’intristiva. Ma avvertiva: mai ubriacarsi, per non sproloquiare e per non apprezzare il gusto dei cibi.
Il poeta cavalca il tema nelle Odi: «Il vino è un gran cavallo,/ per un poeta lepido;/ ma se tu berrai acqua,/ non partorirai nulla di buono». Attenzione, però, a non isolare queste frasi dal pensiero di Orazio. L’amico di Mecenate, apprezzato dall’imperatore Augusto per l’eleganza del verso e per l’altezza della lirica, non era un crapulone, un gozzovigliatore. Al contrario, i suoi gusti erano semplici. Anche il Carpe diem, l’altro suo celeberrimo verso, non era un invito alla sregolatezza dei piaceri, ma un consiglio a godere le semplici gioie di ogni giorno perché il futuro è imprevedibile.
Il poeta di Venosa predicava una filosofia della vita genuina, schietta come il vino che amava: l’aglianico, appunto. Che ai suoi tempi si chiamava Ellenico perché il vitigno era stato introdotto in Italia - Enotria, la terra del vino - dai Greci. Furono i Romani a chiamarlo Ellenico e a usarlo per migliorare la qualità del Falerno, il vino più amato dai grandi poeti dell’impero, Orazio compreso. L’Ellenico cambiò il nome in Aglianico nel quindicesimo secolo, durante il regno degli Aragonesi.
A quali piatti Orazio abbinava l’Ellenico-Falerno? A cibi molto semplici. Quando non era costretto a partecipare ai banchetti patrizi amava prepararsi una scodella di zuppa fatta con porro, ceci e lagane. La lagana è l’antenata della lasagna e della lasagnetta, un impasto fresco di acqua e farina tirato sottile. Ancora adesso, duemila e passa anni dopo, uno dei piatti tipici di Venosa e di tutta la Lucania, è il piatto del grande poeta: lagane e ceci. Modernizzato con aglio, pomodoro e olio di oliva, ma sempre lagane e ceci è. Tutt’al più si possono sostituire i ceci con le cicerchie, altro gustoso legume antico. Nella zona del Vulture, degli incantevoli laghetti di Monticchio che occupano il cratere dell’antico vulcano, la pasta con i legumi è ancora chiamata «il piatto del brigante» perché ne erano ghiotti i masnadieri che nell’Ottocento infestavano i boschi del Vulture.
Orazio, nelle Satire, raccomanda sale e semplicità: «Cum sale panis latrantem stomachum bene leniet»: il pane con il sale darà una bella calmata allo stomaco che abbaia (per la fame). Molto importanti erano anche le uova che dovevano essere servite all’inizio - ab ovo - del banchetto. Orazio consigliava le uova di longa facies, di forma allungata, perché erano più saporite e fornivano un importante apporto proteico all’alimentazione quotidiana, fatta in gran parte di verdure e legumi. «Chi mangia bene», sentenzia in una Epistola, «vive felice». Ne dà un esempio nelle Satire raccontando la vita tranquilla e beata di Ofello, saggio contadino della Venusia romana, una sorta di Bertoldo dell’antichità, che non può stare senza i piatti frugali della sua terra. È la lezione di Socrate: il miglior condimento è la fame, cibi condimentum esse famem.
Sono passati duemila anni, ma la lezione è ancora applicata nella cucina venosina, in casa e nei ristoranti. È una cucina di terra e di carne, di territorio ed emozioni. Di poesia e semplicità legata ai ritmi e ai prodotti delle stagioni. Della bontà delle zuppe abbiamo detto. Nel menu venosino c’è la mitica ciambotta, stufato di verdure (peperoni, pomodori, melanzane, patate su soffritto d’aglio e cipolla) cui si possono aggiungere salsiccia e uova. E i peperoni cruschi? Straordinari. Hanno un sapore unico, inconfondibile. Cruschi significa croccanti: prima si fanno essiccare, poi si friggono nell’olio. Scrocchiano tra le dita e in bocca. Musica al palato. Il peperone crusco è alla base di piatti indimenticabili, con la pasta, con il baccalà. Cos’altro? Di tutto e di più: cavatelli con cime di rapa e carne; past’ e tar’ cucòzz (penne con talli di zucca e pomodori pelati); tagliolini con tartufo e funghi cardoncelli «strascinati» con verza, cicerchie e salsiccia; tegame al forno con migliatidd (interiora di agnello avvolte in budello)
Il vino? Aglianico, of course. «È un vino iconico», affermano Francesco Perillo e Donato Gentile, presidente ed enologo della Cantina di Venosa. Nasce grazie a un territorio straordinario e a tecniche di produzione moderne e rispettose della qualità. È un rosso ricco di frutto e struttura nobile, elegante, al tempo stesso slanciato e moderno». Alla faccia di chi lo vuole «nordizzarlo» chiamandolo barolo del Sud.







