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Dopo le accuse ai fedelissimi di corruzione e molestie sessuali, in Spagna si rivoltano contro gli immigrati. Ma il premier non molla.
Dopo le accuse ai fedelissimi di corruzione e molestie sessuali, in Spagna si rivoltano contro gli immigrati. Ma il premier non molla.
Pur di avere una nuova maggioranza in Parlamento, Pedro Sánchez ha garantito l’amnistia ai catalani che agirono contro la Costituzione, però punisce i poliziotti contrari all’amnistia. Il suo ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska, ha sospeso per tre mesi e lasciato senza stipendio tre sindacalisti della Guardia civil, la gendarmeria spagnola, che avevano osato criticare l’accordo con gli indipendentisti. Prove di dittatura in un Paese che i socialisti europei vorrebbero additare come esempio? Colpiti dal provvedimento sono il presidente e il vicepresidente dell’associazione pro Guardia civil (Aprogc), la più rappresentativa della categoria, e un comandante portavoce di Jucil, altra grossa componente sindacale del prestigioso corpo militare.
I primi perché venerdì scorso avevano diramato un comunicato in cui i componenti della Guardia civil si dichiaravano «profondamente preoccupati», in quanto ritengono che il patto Psoe-Junts «miri a svuotare di contenuto la missione costituzionale affidata alle forze e ai corpi di sicurezza». C’era e c’è rabbia, nei confronti dei politici che «tradiscono il sangue versato e gli sforzi compiuti» dalle forze dell’ordine, e per «il messaggio di impunità e di incoraggiamento a non rispettare le regole», contenuto nel patto. Concludevano poi il comunicato ribadendo la loro determinazione a difendere la Costituzione e la sovranità della Spagna. Una bella conferma di lealtà e compattezza, però meritevole di punizione secondo la bizzarra interpretazione del ministro dell’Interno. L’ex giudice e attivista Lgbt, Grande-Marlaska, ha privato di lavoro e stipendio anche un terzo gendarme, «colpevole» a suo dire di aver detto che Sánchez tradisce il popolo spagnolo concedendo l’amnistia agli indipendentisti finiti sotto processo.
Siamo arrivati al paradosso di premiare chi ha spregiato lo Stato, e di farla pagare a chi afferma di aver giurato sulla Costituzione e di non ammettere tradimenti. Addirittura, ci si preoccupa di garantire protezione all’ex presidente catalano, Carles Puigdemont, latitante a Bruxelles. Il ministro della presidenza della Spagna, Félix Bolaños, ha assicurato che Grande-Marlaska esaminerà la richiesta di assegnazione all’europarlamentare di una scorta, per «gli aumentati rischi alla sua incolumità» segnalati dal capo della segreteria di Puigdemont, Josep Lluís Alay.
Il leader di Junts vuole a proteggerlo i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, che però non ha competenza fuori dalla Spagna e solo un’autorizzazione del ministro dell’Interno, fino a oggi negata, può accontentare i suoi capricci. Dopo aver illegalmente dichiarato l’autonomia della Catalogna ed essere fuggito all’estero, Puigdemont continua a fare quello che gli pare grazie alla sete di potere di Sánchez. Disposto a trattare con i traditori pure di restare alla Moncloa, incurante delle proteste che incendiano il suo Paese.
Ieri, centinaia di magistrati e di avvocati si sono riuniti a Siviglia convocati dal decano Francisco Guerrero, per dire no all’amnistia. Non sono entrati nel merito della legge, ma hanno ribadito l’indipendenza dei giudici e la separazione dei poteri che sono alla base di uno Stato democratico. Ha preso parte alla manifestazione anche José Rodríguez de la Borbolla, ex presidente socialista della Comunità autonoma dell’Andalusia. Del suo compagno di partito, Pedro Sánchez, ha detto che «si può cambiare opinione, ma non l’anima». Il premier si era sempre dichiarato contrario all’amnistia, e adesso la concede, quindi «è una persona della quale non ci si può fidare».
Giudici in piazza pure a Salamanca, mentre studenti hanno protestato davanti alle facoltà di giurisprudenza di Madrid, Siviglia e Barcellona. Molti governi locali, da Valencia a La Roja, da Castiglia e León all’Aragona, a Murcia, stanno convocando riunioni urgenti sulla questione degli accordi stretti dal Psoe con Junts per ottenere l’investitura del loro leader. L’Andalusia presenterà a breve un ricorso di incostituzionalità contro la legge sull’amnistia, sulla quale sta lavorando in tempi rapidissimi.
Il presidente di Castiglia -La Mancia, il socialista Emiliano García-Page molto critico nei confronti dell’amnistia, oggi non sarà presente all’investitura di Sánchez. E l’ex ministro ai Lavori pubblici, Javier Sáenz Cosculluela, ha detto ai suoi compagni di partito: «Mi fate vergognare». Ad oggi, Sánchez ha il sostegno di 179 deputati sui 350 del Congresso e si insedierà al primo voto, presumibilmente domani, superando quindi la maggioranza assoluta. Psoe, Sumar, Erc, Junts, Eh Bildu, Pnv, Bng e Cc voteranno a favore della presidenza del leader socialista, contro i 171 contrari di Pp, Vox e Upn.
In questo clima arroventato, il ministro dell’Interno si è detto «preoccupato» per le manifestazioni che si svolgeranno oggi, a partire dalle 12 quando il candidato premier farà il suo discorso senza limiti di tempo e, a seguire, interverranno i rappresentanti dei gruppi parlamentari, ciascuno con 30 minuti di tempo a disposizione per la replica.
Grande-Marlaska farà schierare 1.600 poliziotti, 600 di più di quelli che furono dispiegati il 29 ottobre 2016 per la contestata rielezione di Mariano Rajoy del Pp. Fonti sindacali della polizia, da un paio di giorni fanno sapere che diversi agenti della Uip, le unità di intervento per la sicurezza e la prevenzione pubblica, stanno presentando certificati di malattia per non essere oggi tra coloro che devono presidiare il palazzo del Congresso.
Il presidente del Partito popolare spagnolo, Alberto Núñez Feijóo, ha dichiarato che l’Unione europea deve intervenire contro la legge sull’amnistia «che è contro lo stato di diritto». Il deterioramento della democrazia spagnola significa «anche deterioramento della democrazia europea. Questa legge consente a politici di amnistiare altri politici», ha ricordato Feijóo incontrando i giornalisti stranieri.
Feijóo si è rammaricato che il testo depositato lunedì al Congresso «distrugga la sicurezza giuridica di uno Stato membro dell’Unione europea» e ha sottolineato che «i Paesi che hanno tentato qualcosa di simile in Europa hanno avuto il rifiuto esplicito degli organismi comunitari».
Il leader del Pp ritiene che la «maggioranza» dei giuristi è consapevole che la legge è «incostituzionale» e sottolinea che i crimini amnistiati «possono fornire un incentivo a commetterli».
Ai corrispondenti delle testate estere ha poi distribuito un documento, che raccoglie i pareri contrari all’accordo tra Psoe e Junts di quasi un centinaio di associazioni e gruppi. Tutti contrari a una legge che secondo il Pp è «progettata a vantaggio di una sola persona: Pedro Sánchez».
Il presidente di Vox, Santiago Abascal, ieri ha presentato ricorso alla Corte suprema contro il presidente del governo, per i reati di corruzione, occultamento o collaborazione al terrorismo, usurpazione di funzioni giudiziarie e trattative e attività vietate ai pubblici ufficiali e abusi nell’esercizio delle loro funzioni.
Inoltre, in relazione al reato di corruzione, Vox ritiene che ci sia responsabilità penale sia del Psoe, sia di Junts. Nella denuncia, spiega che «tenendo conto delle circostanze di allarme sociale, dell’estrema gravità e urgenza per la sopravvivenza del nostro ordinamento degli eventi denunciati e delle loro conseguenze giuridiche e politiche per lo Stato di diritto sociale e democratico emerso dalla Costituzione del 1978», viene richiesta la misura cautelare di sospensione immediata dell’investitura del candidato alla presidenza del governo, annunciata per oggi e domani.
Quattro ex presidenti di entrambe le Camere (Jesús Posada, Federico Trillo, Javier Rojo ed Esperanza Aguirre), 18 ministri di diversi governi democratici e più di 150 ex parlamentari di Ucd, Pp, Psoe, Cds, Upyd e Ciudadanos hanno firmato un manifesto in cui criticano aspramente l’amnistia e gli accordi di investitura firmati dai socialisti e dagli indipendentisti. Secondo i parlamentari, questi accordi rappresentano «la violazione flagrante e inaccettabile del principio costituzionale di uguaglianza di tutti gli spagnoli davanti alla legge», e la «violazione del principio di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura».
Il governo ad interim, intanto, attraverso il ministro della Presidenza, Félix Bolaños, ha già inviato alla vicepresidente della Commissione europea, Vera Jourová, e al commissario alla Giustizia, Didier Reynders, la proposta di legge di amnistia che il Psoe ha registrato lunedì al Congresso dei deputati.
La Commissione europea ha detto di non vedere alcuna collisione tra la proposta di legge e i principi e le regole comunitarie, poiché vengono tutelati gli interessi finanziari dell’Ue ed esclusi i casi di lawfare, il che significa che «si tratta di una questione interna» alla Spagna. Il testo, in ogni caso «è ora al vaglio dei servizi giuridici prima di esprimere un parere formale», ha fatto sapere.
Clamorosa l’uscita dell’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, Josep Borrell. Ha assicurato che le leggi di amnistia sono «costruttive» e servono a chiudere i conflitti. «Le sanatorie nascono con questo obiettivo: storicamente sono il punto finale di una fase di conflitto che cerca di fare tabula rasa».
Un’amnistia per raccattare il voto di una dozzina di deputati catalani e dare il via al terzo esecutivo guidato da Pedro Sanchez. Piccolo problema, la maggiore associazione dei magistrati spagnoli si mobilita contro il provvedimento, evidente merce di scambio per la nascita del governo di ultrasinistra, e definisce il perdono generale non solo incostituzionale, ma addirittura «l’inizio della fine dello stato di diritto e della democrazia».
Rapido flashback che aiuta a capire la disinvoltura del socialista Sanchez, che dalle scorse elezioni è uscito sconfitto e sta raccattando voti come non vi fosse un domani. Nel 2021 una legge di amnistia per i condannati della tentata secessione del 2017 è stata presentata dai conservatori di Ecr e da JxCat, ovvero Uniti per la Catalogna di Carles Puigdemont, oggi esule a Bruxelles. All’epoca, i socialisti del Psoe, il partito di Sanchez, respinsero indignati la proposta, allineandosi alle posizioni dei popolari e della destra di Vox. Ma ora ci sono quei maledetti sette voti da recuperare per tornare alla Moncloa e allora ecco che Sanchez è pronto ad accettare la richiesta di Puigdemont, che ha sette deputati, e magari aggiungervi anche gli altri sette di Erc, la sinistra catalana. Sul piatto ci sono i destini di 1.400 condannati per l’insurrezione di sei anni fa, ma si arriva a oltre 4.000 catalani se si contano tutte le persone ancora sotto processo.
Un’amnistia in cambio di un accordicchio politico non s’era mai vista e allora ecco che ieri è scesa in campo l’Asociaciòn Profesional de la Magistratura (Amp), la maggiore organizzazione di toghe della Spagna, su posizioni tradizionalmente conservatrici. Amp attacca con accuse gravi: «Stiamo mettendo in guardia da tempo contro il grave deterioramento delle istituzioni e dello stato di diritto in sé. Assistiamo a una costante opera di discredito della funzione giurisdizionale e ad attacchi continui all’indipendenza della magistratura che mettono a rischio la separazione dei poteri». Poi ecco l’anatema dei giudici sull’«amnistia di scambio» per il Sanchez III: «Una legge di amnistia, non prevista dalla Costituzione, delegittimerebbe lo stato di diritto e il potere legislativo che approvò le leggi sui delitti politici in base alle quali i giudici hanno emesso le condanne» per i fatti del 2017. Non solo, ma i magistrati di Amp pongono anche un problema per eventuali rivolte future quando avvertono: «Lo stesso trattamento di indulgenza potrebbe un giorno essere reclamato anche in altri momenti storici da chi provasse, con la forza del terrore, a ottenere l’indipendenza di un certo territorio, o mirasse al medesimo risultato appropriandosi di fondi pubblici».
Sono solo parole, si dirà, ma in realtà la stessa Amp, guidato dal giudice madrileno Maria Jesus Del Barco, si è portata avanti. La settimana scorsa, l’organizzazione ha scritto una lettera alla Commissione europea nella quale paragona l’eventuale amnistia spagnola alle misure prese in Polonia e Ungheria contro l’indipendenza giudiziaria. Intanto anche i leader di Sumar, il raggruppamento di sinistra dura e pura dove è confluito anche Podemos, trattano alla luce del sole con le piccole formazioni catalane. E Il corteggiamento riguarda anche le forze autonomiste che si muovono in Galizia, nella Comunità Valenziana e nei paesi Baschi. Oggi, senza un appoggio ufficiale e completo di Sumar e Psoe, l’amnistia avrebbe il voto dei 56 deputati che l’hanno chiesta ufficialmente, ma per fare un governo ne servono almeno 172 e al momento Sanchez è accreditato solo di 158 voti sicuri. Per questo fervono le trattative con i separatisti e la caccia a 14 voti. E ieri, il corteggiamento è diventato moneta sonante visto che il premier ad interim ha promesso la cancellazione di 15 miliardi di debiti che la Catalogna aveva con Madrid. Inoltre, sono stati promessi interventi statali per migliorare sicurezza, funzionamento della giustizia e ricerca nella Comunità autonoma. Quattro giorni fa, Sanchez ha sostenuto che «l’amnistia è necessaria per il bene della Spagna, a difesa della convivenza tra i cittadini» e poi ha ammesso che «in politica il coraggio a volte si manifesta facendo di necessità virtù». Giulio Andreotti non avrebbe saputo dir meglio. Molto indicativa anche l’arma finale di Sanchez con i suoi elettori, ovvero il richiamo al fatto che l’amnistia serve a fare un governo progressista «e a evitare che invece ci possa essere un esecutivo di estrema destra». Sarà per questo che ha imbarcato anche gente che simpatizza con Hamas e tifa Palestina. La scorsa settimana Sumar ha preteso che nella vasta piattaforma programmatica con il Psoe ci fosse la battaglia per il riconoscimento dello Stato palestinese, «a prescindere da una posizione comune dell’Ue in merito». Tra le condizioni svelate da Ernest Urtasun, uno dei leader di Sumar, c’è il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese.
Mentre Ione Belarra, ministro dei Diritti sociali e leader di Podemos, ha proposto a Sanchez di trascinare il premier israeliano Benjamin Netanyahu davanti alla Corte penale internazionale. Inutile dire che un governo così in Spagna, dopo il ribaltone polacco, non farebbe certo piacere all’Italia di Giorgia Meloni.
«Adelante Pedro, con juicio». All’omonimo premier spagnolo tocca ricordare le parole di Antonio Ferrer: il gran cancelliere che, nei Promessi Sposi, suggerisce al cocchiere di procedere con prudenza. Pedro Sánchez, alla disperata ricerca di alleati per rimanere in sella, sembra invece più spericolato che mai. Il leader del Psoe è stato sconfitto alle ultime politiche. Ma i popolari non hanno la maggioranza. E lui adesso sigla patti governativi con indipendentisti, ultraprogressisti e simpatizzanti di Hamas. Ultima prodezza: i suoi socialisti, la Sinistra repubblicana e gli indomiti di Erc vogliono dare l’amnistia agli indipendentisti catalani finiti a processo per il referendum illegale del 2017. A partire da Carles Puigdemont, l’ex presidente della generalitat, riparato a Bruxelles per evitare la cattura in Spagna.
Tutto è perdonato. In cambio della generosa concessione, Sanchez otterrà il sostegno dei sette deputati di Junts, il partito dell’esule. Altrettanti ne porta in dote Erc, guidato dall’attuale presidente della Catalogna, Pere Aragones. Gli indipendentisti, viste le ambasce di Sánchez, fiutano l’occasione epocale. Oltre all’amnistia, chiedono così l’impensabile: autodeterminazione, poteri fiscali, più autonomia di bilancio e controllo delle ferrovie nella regione. Il voto di fiducia è previsto l’8 novembre, anche se ci sarebbe tempo fino al 27 per trovare una maggioranza. Se Sánchez dovesse fallire, la Spagna andrebbe a nuove elezioni il prossimo gennaio.
Pur di rimanere alla Moncloa, Pedro è pronto a concedere e ammiccare. Senza juicio. Proprio lui: l’idolo dei progressisti continentali. Il politico a cui pure la nostra Elly Schlein, segretaria del Pd, spudoratamente s’ispira: diritti civili, femminismo, anticapitalismo. Uno di quelli che, da anni, lancia accorati allarmi sull’emergenza democratica in Europa. Esemplificata in patria da Vox, membro dei conservatori di Ecr, guidati dalla premier italiana, Giorgia Meloni. Nonché dagli pseudofascisti di Marine Le Pen, che invece fanno parte, assieme alla Lega, del gruppo Identità e democrazia. Ma come fanno i popolari, attaccano Sanchez e compagni, a immaginare un’alleanza con siffatti impresentabili?
Ecco, proprio lì eravamo rimasti. Adesso, visti gli interessati baciamani di Pedro, chi è il vero indecoroso? Anche perché lo spavaldo Sánchez, oltre a brigare per l’appoggio degli indipendentisti, vanta già nel suo dimissionario governo perfino simpatizzanti di Hamas. Vedi Ione Belarra, ministra dei Diritti sociali e leader di Podemos. Gli ha proposto di portare il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, davanti alla Corte penale internazionale: processiamolo da criminale di guerra, suggerisce Belarra.
Non è certo l’unica. Nonostante gli storici legami tra Spagna e Israele, mezzo governo iberico sembra tifare per i terroristi. Vedi Sumar: la piattaforma progressista della ministra del Lavoro e vicepremier, Yolanda Díaz. O Izquierda unida: guidata dal ministro dei Consumatori, Alberto Garzón. Assieme a Podemos, dopo l’ultimo attacco di Hamas, esecrano la rappresaglia di Israele. E accusano l’Ue di usare «due pesi e due misure». Fa ancora peggio un’altra ministra, Irene Montero. Posta su X una foto di Netanyahu con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Sotto, commenta: «Not in our name». Non nel loro nome. Non contro il terrorismo islamico, quindi. «Non c’è spazio per l’equidistanza. Bisogna dire chiaramente che Israele è uno Stato occupante» deflagra ancora Belarra. «Dobbiamo alzare la voce per fermare questo genocidio una volta per tutte» insiste. «Dichiarazioni assolutamente immorali» risponde l’ambasciata israeliana a Madrid, riferendosi ad «alcuni elementi» del governo, accusati di aver «messo in pericolo la sicurezza delle comunità ebraiche in Spagna». E invita Sánchez a «denunciare e condannare inequivocabilmente queste dichiarazioni vergognose».
Già, solo che l’agonizzante Pedro non può. Per sopravvivere ha bisogno dei deplorevoli ultrasinistri. Così, piuttosto che marcare distanza, il governo rintuzza: «Rifiuta categoricamente le falsità espresse nel comunicato dell’ambasciata israeliana su alcuni dei suoi membri e non accetta insinuazioni infondate». Mentre il ministro degli Esteri, José Manuel Albares, parla di «incidente isolato», che segue un «gesto ostile» dell’ambasciata israeliana.
Comunque, il caso non è certo chiuso. La scorsa domenica Díaz rilancia. Partecipa a una manifestazione organizzata da gruppi e ong palestinesi contro il «genocidio» israeliano. E accusa nuovamente Tel Aviv di «crimini di guerra», chiedendo un cessate il fuoco immediato. Lo stesso, aggiunge, dovrebbe fare il valoroso Pedro. Che, viste pure le faticose alleanze post elettorali, ha già fatto capire da che parte sta. A margine del consiglio europeo, gli domandano: «Ritiene che Israele stia violando il diritto internazionale?». E lui: «Penso che sia legittimo porsi questa domanda». A questo punto, è ancor più legittimo un altro quesito: chi sono in Europa i veri impresentabili?
È significativo, oltreché preoccupante, il numero dei Paesi latinoamericani che stanno assumendo posizioni anti israeliane. Paesi che, guarda caso, intrattengono quasi sempre strette relazioni con Cina e Iran. Martedì, la Bolivia ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico a causa della crisi di Gaza. Ebbene, proprio la Bolivia ha firmato a giugno accordi sul litio, per un valore di 1,4 miliardi di dollari, con l’azienda statale russa Rosatom e il gruppo cinese Citic Guoan. Tutto questo, mentre un’intesa similare l’aveva raggiunta a gennaio con il colosso cinese Catl. Era invece luglio quando il governo di La Paz ha siglato un accordo di cooperazione nel settore della Difesa con l’Iran.
Dal canto loro, Colombia e Cile hanno richiamato i propri ambasciatori in Israele per consultazioni. Ebbene, era lo scorso 25 ottobre, quando Pechino ha elevato le proprie relazioni diplomatiche con Bogotà al livello di cooperazione strategica. A metà dello stesso mese, il presidente cileno, Gabriel Boric, ha invece partecipato al Belt and Road Forum di Pechino, dove ha incontrato Xi Jinping. «La cooperazione tra Cina e Cile in vari campi ha promosso lo sviluppo e la rivitalizzazione di entrambi i Paesi e ha portato benefici sostanziali al nostro popolo», ha detto nell’occasione il presidente cinese.
Ma non è finita qui. Nei giorni scorsi, il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, ha accusato Israele di «genocidio». Sarà un caso, ma a settembre, lo stesso Maduro ha incontrato Xi a Pechino, per siglare accordi nei settori del commercio e del turismo. Era invece giugno, quando il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, si è recato a Caracas, dove ha firmato un’intesa per incrementare la cooperazione nel comparto petrolchimico. Non dimentichiamo inoltre che, a ottobre 2020, l’Atlantic Council mise in evidenza i legami tra il regime venezuelano ed Hezbollah, che è storicamente spalleggiata da Teheran. Era infine maggio 2020, quando il Dipartimento di Giustizia statunitense accusò formalmente un alleato di Maduro, Adel El Zabayar, di narcoterrorismo, traffico di droga e sostegno a gruppi terroristici, tra cui Hamas ed Hezbollah.
Di «genocidio» a Gaza ha parlato anche il presidente brasiliano, Inacio Lula da Silva: quest’ultimo ha notevolmente rafforzato le relazioni tra Brasilia e Pechino durante un viaggio in Cina ad aprile ed è anche stato tra i principali protagonisti dell’ultimo summit dei Brics ad agosto. Fu proprio durante quell’evento che Lula ebbe un bilaterale con Raisi. D’altronde, l’Iran è uno dei nuovi Paesi che si accingono a entrare nei Brics.
A marzo 2021, Pechino e Teheran hanno siglato un accordo di cooperazione venticinquennale, mentre il Dragone si rifiuta di riconoscere Hezbollah e Hamas come organizzazioni terroristiche. Sempre Pechino ha votato contro l’emendamento che avrebbe inserito una condanna di Hamas nella recente risoluzione Onu volta a invocare un cessate il fuoco a Gaza. Il Wall Street Journal ha anche sottolineato che i giganti cinesi Baidu e Alibaba sembrerebbero aver cancellato Israele dalle loro mappe. Il governo di Pechino ha negato di aver eliminato lo Stato ebraico dalle proprie carte geografiche, mentre – secondo Newsweek – l’assenza dei nomi di Israele e Gaza dalle mappe dei due colossi cinesi risulterebbe antecedente allo scoppio della crisi in corso. Come che sia, sabato il New York Times ha riportato che i media statali di Pechino starebbero veicolando alcuni contenuti anti israeliani e che elementi antisemiti circolerebbero sui social cinesi.
Più in generale, dietro l’apparente tentativo di mediazione, il Dragone sta puntando a massimizzare il proprio tornaconto geopolitico dalla crisi di Gaza. Obiettivo di Pechino è quello di far saltare definitivamente la logica degli accordi di Abramo per fiaccare ulteriormente l’influenza statunitense sul Medio Oriente. In tal senso, la Cina auspica un indebolimento di Israele. E, non a caso, il network latinoamericano del Dragone si sta muovendo sulla base di questa linea.

