Sono stata in molti Paesi islamici negli anni ‘70 e nei primi anni ‘80. Il velo non lo portava quasi nessuna donna. Non ne ho vista nessuna in Tunisia, pochissime in Egitto, molto poche in Indonesia, qualcuna di più in Sudan. Nessuna donna portava il velo in Marocco. Magdi Allam mostra la foto della sua mamma da giovane, con un bel vestito color ciliegia con le maniche corte. Le studentesse a Teheran erano vestite come noi. L’arrivo di Khomeini in Iran, salutato dalle sinistre europee come un salvatore dell’umanità, ha reintrodotto la lapidazione e l’obbligo del velo. La più giovane lapidata iraniana ha 12 anni eppure noi non cacciamo gli iraniani da ristoranti e festival del cinema. È stato l’inizio dell’effetto domino: velo e lapidazione si sono diffusi. Dal 1979, anno della «Rivoluzione islamica», decine di migliaia di donne sono state arrestate per motivi politici, spesso torturate e giustiziate a tal punto che molte di esse sono decedute durante le torture. Il velo si è diffuso ovunque. Non è un simbolo dell’islam, ma è il simbolo dell’islam integralista e aggressivo. Quando la signora Giorgia Meloni parla serenamente con i principi delle dinastia saudita, custodi dei luoghi santi dell’islam, lo fa con la testa scoperta. I custodi dei luoghi santi dell’islam a Gerusalemme sono gli appartenenti alla dinastia hashemita di Giordania e la principessa Rania di Giordania ha la testa scoperta. La signora Melania Trump ha la testa scoperta in Arabia Saudita, la signora Nancy Pelosi si è coperta la testa anche per andare a parlare con un esterrefatto Assad, la cui moglie veste all’occidentale con ovviamente la testa scoperta. Assad le chiese se per caso aveva il raffreddore. La signora Mogherini al velo aggiungeva l’espressione penitente da cagnolino bastonato/europeo cattivo tutte le volte che parlava con un islamico, la signora Bonino metteva il velo sopra il turbante da chemio per chiarire i sensi della sottomissione. And the winner is la signora Boldrini che si copre la testa anche per andare a parlare con l’iman sotto casa. L’obbligo del velo come segno di rispetto non appartiene all’islam ma solo alla sua versione più integralista, il velo non è rispetto, ma sottomissione e riconoscimento della propria inferiorità. Una parlamentare italiana che si copre la testa quando parla con gli islamici sta giustificando tutte le violenze contro le donne senza il velo, dalle botte alle bastonate, dall’arresto delle donne iraniane fino alla lapidazione delle donne afghane e offende profondamente l’Italia. Le forze di sicurezza iraniane hanno arrestato la quattordicenne Masooumeh dopo aver visionato le telecamere della scuola frequentata dalla giovane: il reato è stato quello di togliere il velo a scuola. Successivamente la ragazza è morta in ospedale a causa di una emorragia vaginale. Per l’organizzazione Center for Human Rights in Iran sarebbe stata violentata e uccisa. È stata cioè stuprata a morte con l’organo sessuale o con oggetti fino a quando i fornici vaginali sono stati sfondati: la morte è arrivata per emorragia e peritonite. Si tratta di una ragazzina di 14 anni. Come lei innumerevoli altre. Considero tutte le donnette occidentali che si coprono la testa davanti agli islamici corresponsabili di questi crimini. Che qualcuna di loro abbia fatto il gesto ridicolo di tagliarsi la ciocchetta di capelli per le donne iraniane è ancora più offensivo. Una donna che faccia una cosa di questo genere deve essere considerata una collaborazionista della violenza islamica contro le donne. Ci sono donne che sono state uccise per non aver portato il velo, ci sono donne che hanno avuto il viso distrutto dall’acido per non aver portato il velo. In Iran è il velo o la morte. Dobbiamo pretendere le dimissioni delle parlamentari che portano il velo: sono collaborazioniste di queste spaventose violenze. Portando il velo hanno affermato che il velo è rispetto per l’islam, che quindi le donne che non lo portano non rispettano l’islam, quindi sono apostate, meritorie di morte. Questo è infinitamente più grave di un peculato. Queste collaborazioniste dell’obbligo del velo devono dimettersi. Sono collaborazioniste di queste violenze tutte le fanciulline che si presentano in televisione col velo a raccontare le solite tre fregnacce: è la mia identità, è una scelta spirituale, è una forma di libertà. Ma perché permettiamo alle collaborazioniste dell’assassinio di tutte le adolescenti iraniani stuprate a morte, di quelle afgane ammazzate a pietrate per non parlare di tutte le donne che sono state punite con il fuoco o l’acido per non aver portato il velo, di andare a squittire le loro fesserie in televisione?
- Il presidente Joe Biden lunedì salirà sul palco della convention democratica e poi leverà le tende. Una mossa che mostra l’astio verso gli ex alleati, avvalorato da fonti della sua cerchia, dopo il golpetto bianco per farlo ritirare.
- Per le norme Lgbt, i giudici americani confermano lo stop provvisorio al provvedimento che impone di lasciare usare agli alunni trans bagni e spogliatoi a seconda della loro identità di genere.
Lo speciale contiene due articoli.
L’uscita di scena di mister Magoo fu molto «spintanea». È bastato meno di un mese per scoperchiare la botola dem sotto lo studio Ovale, smentire i flauti nazarenici e avere la conferma che «la rinuncia eroica di un grande uomo di Stato» in realtà era una congiura di palazzo. Preparata da Nancy Pelosi con la fattiva collaborazione di Barack Obama e il leader della maggioranza in Senato, Chuck Schumer. È lo stesso Joe Biden ad ammetterlo con alcuni comportamenti che hanno più a che fare con la stizza del nonno abbandonato in autogrill che con un atto di supremo amore per le istituzioni.
Domani il presidente salirà sul palco della convention democratica di Chicago - è il protocollo ad annunciarlo -, parlerà per primo per qualche minuto e poi proverà ad andarsene senza entrare nello sgabuzzino delle scope. Il «salvatore della patria» (così definito dai commentatori progressisti italiani più sdraiati) vorrebbe tentare almeno di salvare la faccia e di «non appiattirsi sulle moine consolatorie di chi lo ha defenestrato», spiegano il sito Politico e il Wall Street Journal sottolineando che il rancore di Old Joe è tutt’altro che evaporato. L’apparizione a fianco di Kamala Harris due giorni fa nel Maryland avrebbe avuto un solo significato: il clan Biden non ha nulla contro la sua vice, anzi la sostiene nella corsa elettorale.
Le consonanze con la cricca obamiana che domina il partito democratico finiscono qui, e comincia la faida. Secondo i suoi collaboratori (che parlano con i media americani sotto la regola dell’anonimato, come riporta anche La Repubblica), il presidente non perdona a Pelosi il voltafaccia dopo la débâcle nel confronto con Donald Trump ad Atlanta. Nonostante la brutta figura il partito si era stretto attorno a lui «e la candidatura si era riconsolidata». Due settimane di ricuciture, la legittimazione alla convention online partita dall’Ohio, la frase di Biden nella lettera ai dem del Congresso: «Non lascio, la questione è chiusa».
Quando cominciava a pensare alle battaglie d’autunno, ecco la bomba stile Nordstream: Nancy Pelosi detta Crudelia va al programma tv Morning Joe e ripete tre volte il suo No a sostenere il presidente definendo il suo atteggiamento «pura ostinazione». Oggi l’inner circle di Biden contesta anche che «una persona di 84 anni volti le spalle a una di 81 definendola vecchia». La slavina diventa inarrestabile, sospinta dal potente Chuck Schumer che fa uscire un sondaggio nel quale il 60% dei delegati dem risulterebbe favorevole al pensionamento di Biden. Si accodano finanziatori disillusi e star di Hollywood annoiate (George Clooney di fatto lo accompagna alla porta).
Lui coglie il messaggio: tutti gli stanno voltando le spalle. Se ne accorge anche il New York Times che in un dolce articolo di commiato al leader della parte politica prediletta sfodera un’ouverture da organo: «E alla fine era solo». Biden vede la frattura che dilania il partito, a cose fatte confiderà a Cbs News: «I sondaggi dimostravano che la corsa con Trump era testa a testa. Ma molti colleghi democratici alla Camera e al Senato pensavano che li avrei danneggiati. Ero preoccupato perché quello sarebbe stato l’argomento; mi avreste intervistato sul perché Nancy Pelosi ha detto, perché Nancy ha fatto - pensavo che sarebbe diventata una distrazione».
Una congiura in piena regola senza le 23 pugnalate, il tradimento «non solo contro il presidente, ma contro un amico» come va ripetendo Biden da allora. Roba da House of Cards, con il sorriso cinico di Kevin Spacey che guarda in camera e dice «C’est la vie». In quei giorni Barack Obama, sempre prodigo di pacche sulle spalle a Sleeping Joe (anche dopo la disfatta di Atlanta), si era misteriosamente eclissato. Dal siluro, dicono gli uomini di Biden, l’ex presidente non lo ha mai chiamato.
I rapporti fra i due non sono idilliaci come vengono raccontati da articolesse al miele. Biden non ha mai perdonato Obama di averlo tradito la prima volta nel 2016, quando gli preferì Hillary Clinton da mandare in battaglia contro Trump. E si è pentito di aver imbarcato nel suo staff molti radical obamiani che per quattro anni lo hanno trattato come un soprammobile; tutti passati armi e bagagli in queste settimane nell’accampamento di Kamala Harris. Anche perché lei era stata costretta a licenziare 23 collaboratori, che le avevano fatto da parafulmine intestandosi le sue famose gaffes.
Mentre Biden non riesce più a trattenersi e parla apertamente di regicidio, c’è un’anziana signora con gli artigli (Trump la definì «una persona orribile») che passa da una tv all’altra a rammaricarsi della situazione. È lady Pelosi, impegnata a lanciare il suo saggio L’arte del potere, che non perde occasione per battersi il petto. Si rammarica sulla rete Cnbc perché «non ho più facile accesso al presidente»; praticamente lei chiama e lui si rifiuta di rispondere. In un’intervista alla radio Npr ammette candidamente: «Non dormo la notte al pensiero che Biden possa avercela con me». Lady Macbeth era più ingenua.
La Corte Usa blocca le norme Lgbt
La Corte Suprema americana stoppa l’amministrazione Biden sul gender. Con un voto a stretta maggioranza - cinque no e quattro sì - venerdì la più alta magistratura statunitense ha rifiutato di consentire alla Casa Bianca di applicare una parte fondamentale di una nuova norma sull’identità di genere «a tutela» degli studenti Lgbt. Sia pure con un provvedimento provvisorio, che cioè ora passa la palla ai tribunali di grado inferiore, la Corte suprema ha infatti confermato il blocco delle nuove regole con cui l’amministrazione Biden ha allargato la protezione degli studenti transgender dalle discriminazioni sessuali, includendo l’identità di genere, anche nella possibilità di usare bagni e armadietti nelle scuole.
Lo scorso aprile, infatti, il governo democratico ha messo in pista delle nuove norme di applicazione del Titolo IX degli Emendamenti all’istruzione - legge del 1972 che proibisce la discriminazione sessuale nei programmi scolastici federali -, rinnovandolo in senso estensivo a favore degli studenti transgender, così da renderli «protetti» anche nell’uso dei bagni e degli armadietti scolastici. Tale estensione, entrata in vigore il 1° agosto in Tennessee, Louisiana e altri otto Stati, ha generato una rivolta dei repubblicani, che in Corti minori hanno visto accolti diversi loro appelli. La Casa Bianca si è così rivolta alla Corte Suprema per garantire in via d’urgenza l’applicazione della propria normativa, alla luce delle cause intentate da Louisiana, Mississippi, Montana, Idaho e numerosi consigli scolastici della Louisiana, e di altre cause avviate da Tennessee, Kentucky, Ohio, Indiana, Virginia, West Virginia e da un’associazione di educatori cristiani.
Questi Stati hanno denunciato come la nuova normativa obbligherebbe le scuole a consentire agli studenti trans l’uso di bagni e spogliatoi secondo l’identità «percepita», e il corpo docente a usare, verso costoro, pronomi corrispondenti alla loro identità di genere. La procuratrice generale della Louisiana, Liz Murrill, ha parlato di «ideologia gender estrema» da parte di Biden, e di «scuole costrette a cambiare le loro regole e il loro linguaggio, e che non possono più avere spazi privati per bambine o donne. È enormemente invasivo, ed è molto più di un suggerimento». Di qui il ricorso della Casa Bianca, che nelle speranze dem avrebbe dovuto sbloccare la situazione; peccato che abbia trovato dinnanzi a sé un muro.
Con l’opposizione delle giudici di nomina democratica Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson - ma pure del giudice Neil Gorsuch, nominato da Donald Trump -, la Corte Suprema ha infatti stabilito che le nuove norme debbono restare sospese finché la disputa legale non sarà risolta. La battaglia legale insomma continua, ma senza dubbio il verdetto di sospensione provvisoria è una vittoria repubblicana; e spiega anche perché Joe Biden pare non sopporti più l’alta magistratura; al punto, secondo quanto fatto trapelare non più tardi di un mese fa dal Washington Post, che vorrebbe riformare la Corte Suprema, da una parte introducendo un termine al mandato dei giudici - attualmente a vita -, dall’altra varando un codice etico di condotta assai rigoroso e vincolante.
Ma per la verità, già nel maggio 2021 si era parlato dell’intenzione della Casa Bianca di allargare il numero dei giudici che siedono nel massimo organo giudiziario statunitense; perché i dem ragionano così: quando la magistratura dà loro ragione è sacra; quando non lo fa, è essa stessa da buttare.
La Cina continua in queste ore a spostare mezzi militari verso la provincia di Fujian, la più prossima all’isola di Taiwan, dove nella serata di martedì è arrivata la presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi. Lo mostrano video in circolazione in queste ore sul web, simili a quelli diffusi nei giorni scorsi. Sempre oggi diversi aerei da guerra delle forze armate cinesi hanno sorvolato lo Stretto di Taiwan lambendone la linea mediana.
Nancy Pelosi è stata chiara: se il vicepresidente americano Mike Pence non destituirà Donald Trump tramite il venticinquesimo emendamento, la Camera dei Rappresentanti avvierà (forse già domani) un nuovo processo di impeachment contro il presidente. In tal senso, i dem - vista la contrarietà dei repubblicani alla destituzione - hanno presentato formalmente ieri una risoluzione di messa in stato d’accusa, contenente un unico capo di imputazione: quello di «incitamento all’insurrezione» (per i fatti del Campidoglio).
Avviare un impeachment adesso potrebbe apparire paradossale, visto che il mandato del presidente scadrà - in base alla Costituzione - il 20 gennaio. Ricordiamo che la messa in stato d’accusa è un processo complicato, dalle tempistiche non esattamente rapide: deve essere infatti istruito dalla Camera (a maggioranza semplice) e celebrato dal Senato (dove, per arrivare a una rimozione del presidente, è necessaria una maggioranza di due terzi). Ora, nonostante la probabile assenza di audizioni preliminari, sperare di arrivare a concludere tutto in meno di dieci giorni è quasi un’utopia. E di questo la speaker è ovviamente consapevole. Senza contare che, nell’asinello, si teme che un impeachment adesso finirebbe con l’intralciare anche i primi passi dell’amministrazione entrante.
Ecco quindi che l’influente deputato dem, Jim Clyburn, ha avanzato una proposta. La Camera dovrebbe rapidamente votare per istruire il processo, ma dovrebbe poi attendere circa cento giorni prima di trasmettere formalmente il capo d’imputazione al Senato: giusto il tempo per permettere a Joe Biden di avviare senza intoppi o tensioni la propria presidenza. Ora, al di là del fatto che una simile linea sembra piegare l’impeachment alle esigenze politiche del Partito democratico, si scorge anche un problema di natura tecnica.
Se l’idea fosse veramente quella di trasmettere il capo d’imputazione al Senato tra tre mesi, ciò significherebbe che un eventuale processo verrebbe celebrato ben dopo il 20 gennaio: vale a dire, quando Trump sarà già tornato a essere un privato cittadino. Piccolo particolare: in base all’articolo II della Costituzione, l’impeachment è un procedimento volto a rimuovere dal proprio incarico «il presidente, il vicepresidente e tutti i funzionari civili», non riguardando pertanto i privati cittadini. E allora che senso ha un impeachment «postumo»? Il senso c’è. Ed è tutto politico.
La Costituzione prevede che un presidente rimosso tramite impeachment venga interdetto dai pubblici uffici. E la Pelosi, con Trump, punta esattamente a questo. Peccato tuttavia che l’interdizione non sia l’obiettivo costituzionale dell’impeachment: l’obiettivo è infatti la rimozione dall’incarico, di cui l’interdizione è semmai un effetto aggiuntivo. Condurre quindi un impeachment contro un privato cittadino con l’intento di interdirlo dai pubblici uffici ha senso politicamente ma non costituzionalmente. E questo è bizzarro per una speaker che, soprattutto negli ultimi anni, si è sempre professata paladina dello Stato di diritto e del più rigoroso rispetto delle norme costituzionali. Del resto, come riportato venerdì da Nbc News, i giuristi sono divisi sulla possibilità di condurre un impeachment contro un presidente che abbia già lasciato il proprio incarico.
Va rilevato che esiste un (parziale) precedente: nel 1876, il segretario alla Guerra, William Belknap, subì un processo di impeachment dopo essersi dimesso dal proprio incarico. Ci sono tuttavia delle differenze con il caso odierno. All’epoca, lo speaker della Camera, Michael Kerr, sostenne che le dimissioni di Belknap avessero lo scopo di «eludere» il processo, mentre oggi abbiamo un’imminente scadenza di mandato. In secondo luogo, si trattava di un ministro e non di un presidente. Pensiamo infine a Richard Nixon, che - dimessosi il 9 agosto 1974, poco prima che la Camera votasse per metterlo in stato d’accusa - non venne poi sottoposto a procedimento. È pur vero che Nixon avrebbe ottenuto il perdono presidenziale da Gerald Ford: ma il perdono arrivò l’8 settembre del ’74, mentre il procedimento per arrivare all’impeachment fu chiuso dalla Camera il 20 agosto. Si dirà che, nel caso di Trump, lui tornerebbe privato cittadino a processo già iniziato: il punto è che sempre privato cittadino risulterebbe e -ripetiamolo- un impeachment ha lo scopo di rimuovere qualcuno da un incarico pubblico. Resta quindi il dubbio se gli Stati Uniti, in un momento di tale divisione, abbiano realmente bisogno di questo impeachment. Così come è lecito chiedersi se, dopo i gravi fatti dell’Epifania, i dem stiano puntando a una ricostruzione nazionale o piuttosto a una resa dei conti con i loro avversari. A partire da un Trump che -in conseguenza di quanto accaduto a Washington la scorsa settimana - si è già politicamente indebolito con le sue stesse mani. Tra l’altro, se l’impeachment ha incassato ieri il sostegno di Hillary Clinton sul Washington Post, Biden non si è ancora pronunciato apertamente sul tema, optando per una posizione evasiva. Una posizione che lascia intendere come, in seno all’asinello, il peso politico della Pelosi si stia rivelando molto più significativo di quello del presidente in pectore. Nel frattempo, Melania Trump ha condannato ieri l’irruzione al Campidoglio, dichiarando: «Condanno assolutamente le violenze che si sono verificate nel Campidoglio della nostra nazione. La violenza non è mai accettabile». Il Pentagono ha frattanto autorizzato il ricorso a 15.000 componenti della guardia nazionale per l’inaugurazione presidenziale. Tutto questo, mentre è prevista per oggi la prima apparizione pubblica (dallo scorso 6 gennaio) di Trump, che dovrebbe recarsi in Texas, per visitare il confine con il Messico.
Nancy Patricia Pelosi è una politica americana di lungo corso e incarna, anche dal punto di vista simbolico, tutte le istanze etiche e politiche che i media del pianeta attribuiscono a Joe Biden. L'arzilla ottantenne, nota per aver accumulato un patrimonio di parecchi milioni di dollari, si è fatta notare nella sua lunga carriera per la difesa delle lotte femministe, dell'aborto, dei diritti di tutte le minoranze possibili e immaginabili. E da ultimo per essere un'acerrima nemica di Donald Trump e un sostegno sicuro per i no borders delle due sponde dell'Oceano. Proprio in queste ore, è stata rieletta speaker della Camera con una maggioranza di 216 voti contro 208, durante la prima seduta del nuovo Congresso Usa. La donna ha così riconquistato l'incarico per altri due anni, probabilmente per l'ultima volta.
Pochi giorni fa, proprio dal suo scranno alla Camera, la Pelosi ha proposto con veemenza una riforma del lessico da adottare alla Camera stessa. Cancellando così, d'un sol colpo, termini in effetti pericolosissimi, fascisti e antidemocratici, quali «padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella, zio, zia, fratello cugino, nipote, nipote, marito, moglie, suocero, suocero, genero, nutra, cognato, patrigno, matrigna, matrigna, figliastro, fratellastro, fratellastro, fratellastro, sorellastra, nipote e nipote». E anche se l'idea di un Nuovo ordine sponsorizzato dalle élite viene tacciato di complottismo, quando è una delle più alte cariche della politica statunitense a proporre certe cose, forse il dubbio che i cosiddetti complottisti non delirino a qualcuno viene. Tanto più che la stessa dem italoamericana, mesi prima delle elezioni presidenziali, disse che «in ogni caso» avrebbe vinto Biden e avrebbe perso Trump. Mera profezia?
Ma poi tanto per rinforzare le (inaccettabili) teorie del complotto, almeno in senso semantico-grammaticale, ecco che ieri, un altro deputato del partito democratico, ha recitato una devota e sorprendente preghiera in Congresso. E la cosa non stupisce perché il deputato in questione, il texano Emanuel Cleaver, è anche, nei giorni festivi, un pastore protestante.
Solo che, invece di concludere la preghiera con il tradizionale «amen», Cleaver ha detto «amen and awomen», dando evidentemente per scontato che la parola «amen» (di origine ebraica e che può essere tradotta con «così è, così sia, in verità») facesse riferimento a men, il plurale inglese per la parola «uomo». Da qui l'idea di aggiungere anche women, che significa appunto «donne» e rendere la preghiera più «inclusiva».
Amen, in questo contesto decostruttivo, non viene detto e capito come si dovrebbe, ovvero come una parola religiosa, appunto di origine ebraica. La quale, secondo l'insegnamento cristiano, «esprime la solidità, l'affidabilità, la fedeltà» dell'uomo a Dio (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1062). Una intera pagina del Catechismo di Giovanni Paolo II è dedicata infatti ai profondi significati del lemma Amen, tradotto normalmente in italiano con «Così sia».
Ma nell'ideologia post-razionale e post-biblica, post-nazionale e mondialista, una parola tutt'altro che bellicosa, viene letta - strumentalmente - come una parola sessista, quasi uno scabroso hate speech. La quale includendo men, cioè uomini in inglese, escluderebbe le donne (women).
Il che ha voluto riparare, nel suo delirio politicamente corretto, il deputato di Biden.
Ma le donne fanno parte degli uomini e del genere umano non meno dei maschi. E la Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1948) non esclude signore e signorine. D'altra parte l'Amen cristiano, nulla ha a che vedere con l'idioma di Shakespeare.
Chissà se in Vaticano a qualcuno stiano fischiando le orecchie... Per mesi e mesi la stampa cattolica più ufficiale, con nobilissime eccezioni, ha fatto di tutto per promuovere Biden e per demonizzare Trump, presentandolo come un razzista, maschilista, militarista, riccone, capitalista, insensibile.
Ma Trump, nei suoi tanti limiti, dopo aver fatto molto per difendere la famiglia tradizionale e la vita, ha recentemente elogiato la figura di san Tommaso Becket, facendone un patrono della libertà religiosa che lui avrebbe voluto continuare a difendere, in America e nel mondo.
Ora, prima ancora che Biden si sia ufficialmente insediato nella White House, i suoi deputati e collaboratori, già si adoperano, come novelli giacobini, a sovvertire il linguaggio, al fine di superare istituzioni in nessun modo partitiche o ideologiche come la famiglia, la parentela, la filiazione o il matrimonio. E annientare la differenza sessuale tra i cittadini.
È mai possibile che non ci sia qualche presule cattolico (o protestante) che abbia il coraggio di dire che la china presa dai liberal americani (ed europei) è pericolosa e sabotatrice di ogni civiltà, e che il problema sia in chi vuole fare tabula rasa di madre-padre-figlio e non in chi vuole mantenere ordine, frontiere (etiche e linguistiche), istituzioni, retaggi e principi?







