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2021-04-20
Morto Mondale, lo sparring partner di Jimmy Carter
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Walter Mondale e Jimmy Carter (Ron Galella/Getty Images)
Dopo un lungo servizio come senatore del Minnesota a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, fu scelto da Jimmy Carter come proprio running mate al termine delle primarie democratiche del 1976.
Divenuto vicepresidente alle elezioni di quell'anno, accompagnò lo stesso Carter nei travagliati anni del suo mandato. In quel contesto, Mondale rivoluzionò in parte il ruolo di vice: adottò un approccio più energico e «interventista» nella strategia politica presidenziale e fu il primo vicepresidente ad avere un ufficio alla Casa Bianca. Tutto questo non bastò comunque a conferire stabilità a un'amministrazione che si ritrovò funestata dalla crisi energetica e dalla rivoluzione iraniana: un'amministrazione che, anche per questo, si concluse dopo un solo mandato, con la vittoria di Ronald Reagan nel 1980.
La sconfitta non impedì comunque a Mondale di restare nell'agone politico: dopo un brevissimo ritiro, l'ex vicepresidente fece il suo ritorno, candidandosi alle primarie democratiche del 1984. Una competizione che riuscì a vincere, battendo i suoi due principali avversari, il senatore del Colorado Gary Hart e il reverendo Jesse Jackson. Mondale, da candidato dell'establishment, partiva avvantaggiato e, nonostante qualche difficoltà, fu in grado di arginare il carismatico Hart e - soprattutto - Jackson, che veniva percepito come troppo spostato a sinistra. Del resto, una delle ragioni del successo della candidatura di Mondale a quelle primarie fu proprio il fatto di presentarsi come esponente centrista e, in tal senso, venne considerato maggiormente rassicurante rispetto al reverendo afroamericano. Reverendo che, a molti nel Partito democratico, rammentava il senatore George McGovern: candidato dem del 1972 che, molto spostato a sinistra, era stato elettoralmente annientato da Richard Nixon.
Il problema per Mondale fu comunque alla fine quello di essere percepito troppo a destra da ampi strati elettorali: e questo, soprattutto nelle fasi iniziali delle primarie, gli alienò le simpatie dei sindacati. Tra l'altro, la sua strategia centrista lo costrinse di fatto a inseguire Reagan su vari fronti: Mondale appoggiò per esempio la linea dura dell'allora presidente repubblicano in America Centrale. È pur vero che Mondale venga spesso ricordato per la sua scelta storica di aver nominato come proprio vice Geraldine Ferraro: la prima donna ad entrare nel ticket presidenziale di uno dei principali partiti statunitensi. Ciononostante la scelta della Ferraro si rivelò un'arma a doppio taglio. Costei era infatti un ex procuratore con fama di approccio «law and order»: un fattore che non piacque troppo agli ambienti più a sinistra del Partito democratico. Inoltre, la Ferraro era una cattolica collocata su posizioni liberal: un elemento che portò vari fedeli della Chiesa di Roma a spostarsi verso l'area repubblicana.
Per quanto dunque Mondale criticasse le politiche economiche reaganiane e mettesse talvolta nel mirino un'economia –a suo dire– eccessivamente favorevole alle classi abbienti, non fu troppo in grado di chiarire il suo messaggio elettorale. Con il risultato che molti elettori centristi lo consideravano ostile alla classe media e la sinistra, dal canto suo, troppo spostato a destra. Del resto, il grande problema per Mondale fu quello di trovare un'efficace via di mezzo tra il conservatorismo reaganiano e la sinistra alla McGovern. Il risultato fu un orientamento liberal-progressista un po' confuso, che di fatto non riuscì mai realmente a decollare. L'allora candidato dem cercò, tra l'altro, di colpire Reagan, facendo leva sull'età avanzata e su alcuni lapsus che aveva avuto. Una strategia che in un primo momento sembrò quasi funzionare, ma che venne successivamente arginata con successo dall'allora inquilino della Casa Bianca. Interpellato sulla sua età durante un dibattito televisivo, Reagan dichiarò: «Non renderò l'età un problema di questa campagna elettorale. Non ho intenzione di sfruttare, per scopi politici, la gioventù e l'inesperienza del mio avversario». Lo stesso Mondale rise alla battuta e quella linea di attacco finì lì. Il ticket democratico venne alla fine nettamente battuto: Reagan ottenne il 59% dei voti e vinse in 49 Stati. Una delle peggiori debacle della storia dell'asinello. Dopo la sconfitta, Mondale servì come ambasciatore statunitense in Giappone durante il primo mandato di Bill Clinton alla Casa Bianca, mentre - nel 2002 - corse una sfortunata campagna per la riconquista del seggio senatoriale del Minnesota.
Con Walter Mondale se ne va un pezzo della storia politica del Partito democratico americano: una storia che, al di là delle sfortunate vicende elettorali di un singolo, mostra come - nel suo passato - l'asinello sia stato una formazione politica plurale e non necessariamente ostile al centrismo. Un centrismo che oggi, tra i democratici americani, risulta sempre più sotto assedio: dai media, dalle associazioni, dai movimenti, dalle stesse correnti interne più spostate a sinistra. Ecco: la figura di Walter Mondale sta lì a ricordarci che le cose non sempre sono andate così.
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Riduci
È morto lunedì, all'età di novantatré anni Walter Mondale. A confermare la notizia, è stata la portavoce della sua famiglia, secondo cui l'ex vicepresidente americano sarebbe deceduto per cause naturali.Dopo un lungo servizio come senatore del Minnesota a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, fu scelto da Jimmy Carter come proprio running mate al termine delle primarie democratiche del 1976.Divenuto vicepresidente alle elezioni di quell'anno, accompagnò lo stesso Carter nei travagliati anni del suo mandato. In quel contesto, Mondale rivoluzionò in parte il ruolo di vice: adottò un approccio più energico e «interventista» nella strategia politica presidenziale e fu il primo vicepresidente ad avere un ufficio alla Casa Bianca. Tutto questo non bastò comunque a conferire stabilità a un'amministrazione che si ritrovò funestata dalla crisi energetica e dalla rivoluzione iraniana: un'amministrazione che, anche per questo, si concluse dopo un solo mandato, con la vittoria di Ronald Reagan nel 1980.La sconfitta non impedì comunque a Mondale di restare nell'agone politico: dopo un brevissimo ritiro, l'ex vicepresidente fece il suo ritorno, candidandosi alle primarie democratiche del 1984. Una competizione che riuscì a vincere, battendo i suoi due principali avversari, il senatore del Colorado Gary Hart e il reverendo Jesse Jackson. Mondale, da candidato dell'establishment, partiva avvantaggiato e, nonostante qualche difficoltà, fu in grado di arginare il carismatico Hart e - soprattutto - Jackson, che veniva percepito come troppo spostato a sinistra. Del resto, una delle ragioni del successo della candidatura di Mondale a quelle primarie fu proprio il fatto di presentarsi come esponente centrista e, in tal senso, venne considerato maggiormente rassicurante rispetto al reverendo afroamericano. Reverendo che, a molti nel Partito democratico, rammentava il senatore George McGovern: candidato dem del 1972 che, molto spostato a sinistra, era stato elettoralmente annientato da Richard Nixon.Il problema per Mondale fu comunque alla fine quello di essere percepito troppo a destra da ampi strati elettorali: e questo, soprattutto nelle fasi iniziali delle primarie, gli alienò le simpatie dei sindacati. Tra l'altro, la sua strategia centrista lo costrinse di fatto a inseguire Reagan su vari fronti: Mondale appoggiò per esempio la linea dura dell'allora presidente repubblicano in America Centrale. È pur vero che Mondale venga spesso ricordato per la sua scelta storica di aver nominato come proprio vice Geraldine Ferraro: la prima donna ad entrare nel ticket presidenziale di uno dei principali partiti statunitensi. Ciononostante la scelta della Ferraro si rivelò un'arma a doppio taglio. Costei era infatti un ex procuratore con fama di approccio «law and order»: un fattore che non piacque troppo agli ambienti più a sinistra del Partito democratico. Inoltre, la Ferraro era una cattolica collocata su posizioni liberal: un elemento che portò vari fedeli della Chiesa di Roma a spostarsi verso l'area repubblicana. Per quanto dunque Mondale criticasse le politiche economiche reaganiane e mettesse talvolta nel mirino un'economia –a suo dire– eccessivamente favorevole alle classi abbienti, non fu troppo in grado di chiarire il suo messaggio elettorale. Con il risultato che molti elettori centristi lo consideravano ostile alla classe media e la sinistra, dal canto suo, troppo spostato a destra. Del resto, il grande problema per Mondale fu quello di trovare un'efficace via di mezzo tra il conservatorismo reaganiano e la sinistra alla McGovern. Il risultato fu un orientamento liberal-progressista un po' confuso, che di fatto non riuscì mai realmente a decollare. L'allora candidato dem cercò, tra l'altro, di colpire Reagan, facendo leva sull'età avanzata e su alcuni lapsus che aveva avuto. Una strategia che in un primo momento sembrò quasi funzionare, ma che venne successivamente arginata con successo dall'allora inquilino della Casa Bianca. Interpellato sulla sua età durante un dibattito televisivo, Reagan dichiarò: «Non renderò l'età un problema di questa campagna elettorale. Non ho intenzione di sfruttare, per scopi politici, la gioventù e l'inesperienza del mio avversario». Lo stesso Mondale rise alla battuta e quella linea di attacco finì lì. Il ticket democratico venne alla fine nettamente battuto: Reagan ottenne il 59% dei voti e vinse in 49 Stati. Una delle peggiori debacle della storia dell'asinello. Dopo la sconfitta, Mondale servì come ambasciatore statunitense in Giappone durante il primo mandato di Bill Clinton alla Casa Bianca, mentre - nel 2002 - corse una sfortunata campagna per la riconquista del seggio senatoriale del Minnesota.Con Walter Mondale se ne va un pezzo della storia politica del Partito democratico americano: una storia che, al di là delle sfortunate vicende elettorali di un singolo, mostra come - nel suo passato - l'asinello sia stato una formazione politica plurale e non necessariamente ostile al centrismo. Un centrismo che oggi, tra i democratici americani, risulta sempre più sotto assedio: dai media, dalle associazioni, dai movimenti, dalle stesse correnti interne più spostate a sinistra. Ecco: la figura di Walter Mondale sta lì a ricordarci che le cose non sempre sono andate così.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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