Sono stata in molti Paesi islamici negli anni ‘70 e nei primi anni ‘80. Il velo non lo portava quasi nessuna donna. Non ne ho vista nessuna in Tunisia, pochissime in Egitto, molto poche in Indonesia, qualcuna di più in Sudan. Nessuna donna portava il velo in Marocco. Magdi Allam mostra la foto della sua mamma da giovane, con un bel vestito color ciliegia con le maniche corte. Le studentesse a Teheran erano vestite come noi. L’arrivo di Khomeini in Iran, salutato dalle sinistre europee come un salvatore dell’umanità, ha reintrodotto la lapidazione e l’obbligo del velo. La più giovane lapidata iraniana ha 12 anni eppure noi non cacciamo gli iraniani da ristoranti e festival del cinema. È stato l’inizio dell’effetto domino: velo e lapidazione si sono diffusi. Dal 1979, anno della «Rivoluzione islamica», decine di migliaia di donne sono state arrestate per motivi politici, spesso torturate e giustiziate a tal punto che molte di esse sono decedute durante le torture. Il velo si è diffuso ovunque. Non è un simbolo dell’islam, ma è il simbolo dell’islam integralista e aggressivo. Quando la signora Giorgia Meloni parla serenamente con i principi delle dinastia saudita, custodi dei luoghi santi dell’islam, lo fa con la testa scoperta. I custodi dei luoghi santi dell’islam a Gerusalemme sono gli appartenenti alla dinastia hashemita di Giordania e la principessa Rania di Giordania ha la testa scoperta. La signora Melania Trump ha la testa scoperta in Arabia Saudita, la signora Nancy Pelosi si è coperta la testa anche per andare a parlare con un esterrefatto Assad, la cui moglie veste all’occidentale con ovviamente la testa scoperta. Assad le chiese se per caso aveva il raffreddore. La signora Mogherini al velo aggiungeva l’espressione penitente da cagnolino bastonato/europeo cattivo tutte le volte che parlava con un islamico, la signora Bonino metteva il velo sopra il turbante da chemio per chiarire i sensi della sottomissione. And the winner is la signora Boldrini che si copre la testa anche per andare a parlare con l’iman sotto casa. L’obbligo del velo come segno di rispetto non appartiene all’islam ma solo alla sua versione più integralista, il velo non è rispetto, ma sottomissione e riconoscimento della propria inferiorità. Una parlamentare italiana che si copre la testa quando parla con gli islamici sta giustificando tutte le violenze contro le donne senza il velo, dalle botte alle bastonate, dall’arresto delle donne iraniane fino alla lapidazione delle donne afghane e offende profondamente l’Italia. Le forze di sicurezza iraniane hanno arrestato la quattordicenne Masooumeh dopo aver visionato le telecamere della scuola frequentata dalla giovane: il reato è stato quello di togliere il velo a scuola. Successivamente la ragazza è morta in ospedale a causa di una emorragia vaginale. Per l’organizzazione Center for Human Rights in Iran sarebbe stata violentata e uccisa. È stata cioè stuprata a morte con l’organo sessuale o con oggetti fino a quando i fornici vaginali sono stati sfondati: la morte è arrivata per emorragia e peritonite. Si tratta di una ragazzina di 14 anni. Come lei innumerevoli altre. Considero tutte le donnette occidentali che si coprono la testa davanti agli islamici corresponsabili di questi crimini. Che qualcuna di loro abbia fatto il gesto ridicolo di tagliarsi la ciocchetta di capelli per le donne iraniane è ancora più offensivo. Una donna che faccia una cosa di questo genere deve essere considerata una collaborazionista della violenza islamica contro le donne. Ci sono donne che sono state uccise per non aver portato il velo, ci sono donne che hanno avuto il viso distrutto dall’acido per non aver portato il velo. In Iran è il velo o la morte. Dobbiamo pretendere le dimissioni delle parlamentari che portano il velo: sono collaborazioniste di queste spaventose violenze. Portando il velo hanno affermato che il velo è rispetto per l’islam, che quindi le donne che non lo portano non rispettano l’islam, quindi sono apostate, meritorie di morte. Questo è infinitamente più grave di un peculato. Queste collaborazioniste dell’obbligo del velo devono dimettersi. Sono collaborazioniste di queste violenze tutte le fanciulline che si presentano in televisione col velo a raccontare le solite tre fregnacce: è la mia identità, è una scelta spirituale, è una forma di libertà. Ma perché permettiamo alle collaborazioniste dell’assassinio di tutte le adolescenti iraniani stuprate a morte, di quelle afgane ammazzate a pietrate per non parlare di tutte le donne che sono state punite con il fuoco o l’acido per non aver portato il velo, di andare a squittire le loro fesserie in televisione?
Di buone intenzioni sono lastricate le vie per l’inferno. Come scrive Chahdortt Djavann nel libro Giù i veli (Lindau), coloro che parlano di libertà delle donne islamiche di portare il velo sono quelli che con le loro buone intenzioni lastricano gli inferni altrui. Con una decisione gravissima, sicuramente cianciando di inclusione, tolleranza e altre baggianate che lastricano l’intero inferno e non solo l’ingresso, insegnanti italiani di Monfalcone (Gorizia) hanno permesso ad adolescenti coperte di teli neri che lasciano liberi solo gli occhi, di accedere alle lezioni. La motivazione sbagliata è che così non perdono la scuola. Si cede a un ricatto che è una clamorosa finestra di Overton.
Se una cosa, una cosa qualsiasi, in un Paese è imposta con la violenza, quella cosa diventa indegna in tutte le parti del mondo. C’è un terribile filmato di tre donne afghane, uccise con un colpo alla nuca ai «bei tempi» dei talebani prima maniera. Esiste il video di una lapidazione avvenuta in Afghanistan. Per chi si mostrava senza burqa c’era la lapidazione: per i talebani equivale all’adulterio. In Iran giovani donne non sono uscite vive dal carcere dopo essere state arrestate per non aver portato il velo o non averlo portato correttamente. Le ragazze di Monfalcone coperte di teli neri sono tutte nipoti di nonne che non portavano il velo.
Le paladine del velo squittiscono che «il velo è la mia identità, lo porto perché dopo una ricerca interiore non posso più farne a meno», secondo un copione sempre uguale e sempre ugualmente idiota perché non vuol dire un fico, ma davanti alle parole identità e ricerca interiore chi avrà il coraggio di dire che sono pericolosissime, farneticanti idiozie? Noi. Il velo è osceno, riduce ogni donna a un organo sessuale, come ci spiega Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran), come ci spiega Chahdortt Djavann (Giù i veli) e come ci spiega Hirsi Ali (Non sottomessa). Ogni donna con il velo è una donna che ha rinunciato alla sua umanità per diventare un organo sessuale: gli organi sessuali sono giustamente pudenda, in latino, neutro plurale, parti di cui ci si vergogna e che vanno coperte.
Come è stato possibile che la sinistra mondiale, per non parlare di quella italiana, sia schierata con questo orrore, che abbia venduto il futuro, calpestato il passato? La sinistra ha già la colpa dell’alleanza con i mostri sovietico e cinese (e cubano, coreano, cambogiano, etiope, eccetera). Con il crollo dell’Unione sovietica la sinistra si è trovata in braghe di tela e si è trovata non solo senza finanziamenti ma nel ruolo innegabile del deficiente che non ha mai capito niente. La sinistra è diventata il perdente radicale. Il partito comunista francese è il primo a mettere a fuoco che gli immigrati e gli omosessuali sono il nuovo proletariato. Quindi, il nuovo nemico siamo noi e la nostra storia.
Chi fa spontaneamente una cosa che a un altro è imposta, diventa un collaborazionista di quella violenza. Fino a quando ci sarà un solo Paese dove è vietato a una donna di mostrarsi con la testa scoperta, mi rifiuterò di considerare normale e libera una donna con la testa coperta. Chi ha scelto di portare il velo, ed è una scelta, non un’usanza, non una tradizione ereditata da madre o nonna, non un simbolo religioso, dà il suo appoggio a un arbitrio spaventoso. Chi ha scelto di portare il velo si schiera con l’islam integralista che lapida le adultere, incluse le donne violentate, perché una donna violentata è comunque responsabile del proprio stupro. E adesso: se è responsabilità della donna, che cosa si evince? Che dove una donna porta il velo, chi non lo porta, quando viene violentata se l’è andata a cercare. In Danimarca lo scrittore che ha scritto un libro per ragazzi sulla vita di Maometto, il libro da cui è cominciata tutta la storia delle vignette, ha denunciato come sua figlia sia stata aggredita dai ragazzi islamici nella scuola media, dove aveva portato una gonna secondo loro troppo corta. Comincia a succedere normalmente che ragazze sole sulle spiagge francesi e olandesi vengano aggredite da islamici perché portano il bikini. Pensate davvero che chi impone il burqa alle proprie figlie sia disposto a tollerare la libertà delle altre donne? Qui non si tratta solo di lastricare di buone intenzioni l’inferno altrui, ma il nostro inferno. Il velo sarà imposto a noi, come già è imposto alle donne occidentali che vanno in Iran o nei quartieri islamici. Ogni Paese ha la sua usanza? Da noi è vietato nascondere la faccia. Ma la donna islamica dice che la sua religione le ordina di farlo, che è falso, perché altrimenti dovrebbero farlo tutte, è solo una prova di forza, ma non importa. Quando ti mettono la parola religione, tutti fermi. In Inghilterra, patria del diritto e della sharia, il burkini è già obbligatorio. Nelle ore in cui le piscine sono affittate da gruppi islamici, anche donne cristiane o non islamiche, per esempio le bagnine o le maestre di nuoto, devono portarlo. Gli occhi pudichi dei musulmani che vivono in Inghilterra sono normalmente colpiti da donne svestite, quindi è evidente che la pretesa «tutte le donne in burkini, inclusa la bagnina» è una prova di forza. Esattamente come alle poliziotte, tutte, è stato dato il velo islamico d’ordinanza da mettere nei quartieri islamici per non offendere i «locali». E la libertà della bagnina di non mettere il burkini? La libertà della poliziotta di trovare ripugnante il velo islamico d’ordinanza? E la libertà di tutte le donne iraniane che non vogliono portare il velo?
Di seguito le parole dell’autrice iraniana Chahdortt Djavann da Giù i veli (Lindau): «Ho portato 10 anni il velo. Era il velo o la morte. So di cosa parlo. [...] Da 13 a 23 anni sono stata repressa, condannata a essere una musulmana, una sottomessa e imprigionata sotto il nero del velo. Da 13 a 23 anni. E non lascerò dire a nessuno che sono stati i più begli anni della mia vita. Coloro che sono nati nei Paesi democratici non possono sapere a che punto i diritti che a loro sembrano del tutto naturali sono inimmaginabili per altri che vivono nelle teocrazie islamiche. [...] Ma che cos’è portare il velo, abitare un corpo velato? Cosa significa venire condannata a essere chiusa in un corpo velato perché femminile? Chi ha il diritto di parlarne? Avevo 13 anni quando la legge islamica si è imposta in Iran sotto la ferula di Khomeini rientrato dalla Francia con la benedizione di molti intellettuali francesi. Non solo il velo a scuola ma: il velo sempre. Bisogna essere ciechi, bisogna rifiutare di guardare la realtà in faccia, per non vedere che la questione del velo è un problema in sé, che precede qualsiasi dibattito sulla scuola e sulla laicità! Il velo non è per niente un semplice segno religioso, come la croce, che ragazze o ragazzi possono portare al collo. Il velo, lo hijab, non è un semplice fazzoletto di seta sulla testa; esso deve nascondere interamente il corpo. Il velo, prima di tutto, abolisce la promiscuità nello spazio e materializza la separazione radicale e draconiana dello spazio femminile e dello spazio maschile. Il velo, lo hijab, è il più barbaro dogma islamico che si inscrive sul corpo femminile e se ne impossessa. [...] Si accompagna a un messaggio di proselitismo destinato alle più giovani, a un messaggio esso stesso velato perché dissimula la sua vera natura sotto il velo delle parole “libertà”, “identità” o “cultura”. Imporre il velo a una minorenne è, in senso stretto, abusare di lei, disporre del suo corpo, definirlo come oggetto sessuale destinato agli uomini [...]. Non è in nome della laicità che bisogna vietare il velo alle minorenni, a scuola o altrove, ma in nome dei diritti dell’uomo e in nome della protezione dei minori». Rivendico il dovere dell’intolleranza. Chi tollera tutto e il contrario di tutto è un vile e un complice, e anche uno sprovveduto che non si rende conto che sta ipotecando il nostro futuro, perché per la sua ingenuità prima o poi dovremo combattere anche noi per non mettere il velo islamico di ordinanza.
«si sentono minacciati da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato, come ad esempio la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici o il velo integrale islamico». Libertà, pari dignità sociale, eguaglianza formale e sostanziale sono valori costituzionali da difendere sempre e comunque. E sono leggermente più importanti di alimentazione, attività sportiva, turismo, buon gusto nell’arredamento e nel vestiario e di tutti quei consumi che concorrono a formare e indicare lo «stile di vita italiano consolidato». Ma l’Italia del 2024 è così, davvero un Paese privo di ancoraggi forti, dove mentre il pontefice manda in libreria saggi con titoli da motivatore americano («Ti voglio felice», «Sei unica», «Sei bella», come raccontava ieri Marcello Veneziani su queste pagine) devono arrivare i sociologi del Censis, seppur in modo liquido, a rivelarci che gli italiani hanno paura di come vivono alcuni immigrati.
Gran parte dei media ha ovviamente scelto di valorizzare la parte del 58° rapporto Censis che riguarda i redditi degli italiani, il calo del potere d’acquisto, l’aumento della paura di impoverirsi e, in generale, il timore di non farcela. Tutto vero e certificato da anni anche dalle tabelle di Banca d’Italia ed Eurostat, sia sulla diseguaglianza economica crescente, sia sulla drammatica perdita di potere d’acquisto dei salari. Sicuramente l’immigrazione, regolare o clandestina non importa, è una parte del problema salariale, visto che non a caso è la Confindustria a spingere da anni per l’importazione in Italia di mano d’opera. E di fatto, specie la fascia di lavoratori italiani meno formata, si trova a essere messa in concorrenza con gli immigrati detti, forse non per caso, «migranti economici». Nel senso che costano poco.
Ma la parte più interessante del Rapporto Censis è quella in cui, pur sganciando il tema immigrazione da quello reddituale o della sicurezza, i ricercatori sono andati a sondare i cittadini sulle loro vere «paure» nei confronti degli stranieri. Come detto, è venuto fuori che il «il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato, come ad esempio la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici o il velo integrale islamico». E non a caso, il 38,3% degli italiani è molto preoccupato da chi vuole facilitare l’ingresso nel Paese dei migranti, mentre un altro 29,3% «vede come un nemico chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale e un 21,8% avverte ostilità nelle persone che professano un’altra religione». Per fortuna, il Censis non ha voluto esprimersi troppo sul concetto di «famiglia tradizionale» e quindi non sappiamo con certezza se anche costringere le donne a mettere il velo sia da considerarsi «tradizionale».
Se si va a guardare la tabella riassuntiva denominata «Opinioni degli italiani su valori e identità», a parte le percentuali sopra riportate, colpiscono le altre domande del Censis, decisamente mirate a scoprire se e quanto siamo razzisti. Da che cosa gli «italiani si sentono minacciati»? Da «chi professa una religione diversa»? No, solo il 21,8%. Da «chi ha un diverso colore della pelle»? Solo per il 14,5%. Da «chi ha un diverso orientamento sessuale?». No, per fortuna vale solo per l’11,9%. Invece emerge che il 75% degli italiani «vuole il pugno duro per chi occupa abusivamente le case e il 59,6% chiede la revoca della cittadinanza italiana per gli stranieri nel caso commettano reati». Insomma, almeno per chi legge La Verità, nessuna sorpresa: la maggior parte degli italiani è affezionata ai valori cardine della democrazia occidentale, che, certo casualmente, si è sviluppata nelle nazioni con una storia cristiana. Mentre perfino tra gli strombazzatissimi Paesi Brics, come Cina, India, Pakistan, Turchia, Egitto o Brasile, si fatica ancora a vedere la democrazia. E quattro italiani su cinque non sono minimamente razzisti. Chiedono solo che non ci siano occupazioni abusive e libertà di delinquere.
E a proposito di delitti gravi, proprio nei giorni scorsi un altro rapporto, questa volta dell’Onu, ha certificato che il 90% delle donne e delle ragazze che attraversano il Mediterraneo sui barconi «subisce violenze di ogni tipo». La ricerca è stata condotta dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unchr) raccogliendo le testimonianze di decine di migliaia di migranti nel corso degli ultimi anni, in particolare sulla rotta centrale del Mediterraneo in direzione dell’Europa. I punti di partenza delle rotte esaminate vanno dall’Africa Orientale a quella dell’Ovest, in prossimità del Magreb. Ebbene, il 90% delle donne cadute nelle mani dell’immigrazione clandestina, per l’Onu, ha subito violenze di ogni tipo, torture, estorsioni. Nelle 72 pagine del rapporto si descrive una realtà di estrema brutalità commesse da scafisti e passeur, ma a volte anche dagli stessi compagni delle vittime, «che sono sistematicamente violentate» e in molti casi costrette al matrimonio. Se si volesse trovare un qualche nesso tra queste due notizie, si potrebbe immaginare che chi scappa dal Maghreb o dal Medio Oriente sia alla ricerca di diritti e democrazia. Pardon, di stili di vita consolidati.
Oggi l’Iran è alla ribalta geopolitica, tutti ne parlano, dimenticando la lapidazione come peccato di gioventù ormai quasi abbandonato, e ignorando la questione del velo. In Iran la situazione è sempre stata migliore che in Afghanistan, ci ricordano. Vero. Ricordo un vecchio video, di una ventina di anni fa, tre donne afghane uccise in uno stadio sparando loro alla testa, in quanto ree di essere andate dal parrucchiere, la maniera delle donne afghane di manifestare il dissenso: una di loro aveva trasformato il suo tugurio con un casco, un paio di specchi, un lavandino e qualche foto ricavata da giornali occidentali e queste donne avevano giocato a fare le donne libere.
In Iran le donne possono andare dal parrucchiere. Se si fossero mostrate senza velo, in Afghanistan sarebbe state lapidate, perché per i talebani equivale all’adulterio, mentre in Iran bastano una ventina di frustate. L’islam è come il comunismo: c’è ne è sempre uno più smoderato che ti fa sembrare l’altro moderato. In Iran, da quando l’ayatollah Khomeini prese il potere, nell’incredibile plauso della sinistra mondiale e anche di un discreto numero di movimenti femministi, la scelta per le donne è: o il velo o la morte. Non solo: è di qualche settimana fa l’ultima stretta, con l’avvio dell’operazione Nour, che in italiano significa luce. È stato il capo della polizia di Teheran, Abasali Mohammadian, a lanciare il monito, annunciando «misure severe» verso chiunque osi sfidare le autorità sui copricapi. Mohammadian ha tenuto a precisare che l’operazione Nour è stata avviata seguendo la volontà delle personalità religiose del Paese ed è arrivata a pochi giorni dal discorso in cui la guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamanei, ha ricordato che tutte le donne devono rispettare l’uso del velo, qualunque sia il loro credo.
Il mondo occidentale è pieno di parole che sembrano buon senso e tolleranza per le paladine della dittatura che spiegano che «il velo è la mia identità, lo porto perché dopo una ricerca interiore, non posso più farne a meno», secondo un copione sempre uguale e sempre ugualmente idiota, perché non vuol dire un fico, ma davanti alle parole «identità» e «ricerca interiore», chi avrà il coraggio di dire che sono pericolosissime e farneticanti idiozie?
Il velo potrebbe essere qualcosa di simile se in nessun punto del pianeta ci fosse una condanna a morte per chi non lo porta. Il velo riduce ogni donna a un organo sessuale, spiega Azar Nafisi (si veda Leggere Lolita a Theran). Ogni donna con il velo è una donna che ha rinunciato alla sua umanità per diventare un organo sessuale: gli organi sessuali sono giustamente parti di cui ci si vergogna e che vanno coperte. Come ci spiega Charlott Djavanne (Giù i veli) e come ci spiega Hirsi Ali (Non sottomessa), è una maniera di sessualizzare enormemente la donna che smette di essere un essere umano.
E come è stato possibile che la sinistra mondiale, per non parlare di quella italiana, abbia rinnegato la propria storia, i propri valori, venduto il futuro, calpestato il passato? L’odio anticristiano è talmente potente negli eredi di Marx che trova normale l’alleanza con l’islam. Sta nascendo l’islam-comunismo. Una sinistra che va rifondata, completamente.
La sinistra ha già la colpa dell’alleanza con i mostri sovietico e cinese (e coreano e cambogiano, eccetera). La storia e la provvidenza non concedono una seconda occasione, un secondo perdono. Il polso della situazione, qualsiasi situazione, è sempre dato dai giornali femminili, una pubblicazione basata sulla pubblicità e sul consumismo, quindi paradigma non solo del conformismo più totale, ma anche della volontà delle élite finanziarie.
Oggi non c’è giornale femminile in cui, tra un accorato appello all’eutanasia, una raccomandazione a ricordare che le donne possono avere il pene, un inno alla magnificenza dell’aborto, non manchi l’articolo su «mi sono convertita all’islam, ho scoperto finalmente la gioia, e felice porto il niqab», più raramente il burka. La legge che vieta il burka, il divieto a nascondere il viso, una normale necessità di ordine pubblico, visto che più di una volta nella stessa Inghilterra terroristi e ricercati si sono nascosti sotto il burka, è troppo dura per i multiculturali. Attentato dopo attentato, l’Eurabia ha sviluppato una vera e propria sindrome di Stoccolma per chi la tiene in ostaggio: un odio forsennato contro sé stessa, e un amore incondizionato per i propri carnefici.
Vietiamo di augurare buon Natale e festeggiamo il Ramadan. Per inciso, la sindrome di Stoccolma non è una reazione psicologica universale: appartiene solo ai vili e ai nati servi. I bravi resistono e per loro più grave dell’odio del nemico, è l’odio dei nati servi. La capacità di autoinganno del conformismo è straordinaria e grazie al fatto che abbiamo letto Orwell e ci ricordiamo la fedeltà canina degli intellettuali europei (i moralmente superiori) a quel crimine contro l’umanità che è stato ed è il comunismo, non ci stupiamo più di tanto.
Anche la cosiddetta pandemia ha visto uno schema mentale analogo. Dove anche in una sola nazione il velo sia obbligo statale, la «libera» scelta del velo è abiezione, e le donne, studentesse spesso, che «orgogliosamente» vogliono portare le loro catene di stoffa in sfregio all’Occidente e come simbolo della sua colonizzazione culturale, sono le paladine della dittatura. Le donne politiche che si mettono il velo in testa, Boldrini, Mogherini, Serracchiani, Bonino, per rispetto agli uomini dell’islam, pensano veramente che il potere che quegli uomini rappresentano, permetterà alle loro nipoti di non portarlo, se e quando, ma l’ipotesi è sempre più verosimile, arriverà al potere? Perché se io vado in Iran, che in realtà si chiama Persia, ci vado a visitare i simboli ormai calpestati della mia civiltà, perché la Persia cristiana è stata colonizzata dall’islam nel 650, l’islam che ha cancellato la civiltà precedente e annientato gli abitanti, come è successo nel Nord Africa cristiano, nel Sudan cristiano, nella Siria, cristiana anche lei, l’Anatolia, l’Armenia.
La chiesa cristiana più antica del mondo, risale all’80 dopo Cristo, è in Persia, nome che mi piace di più di Iran, il nome imposto dagli invasori islamici, e se io ci vado ho la libertà di scegliere tra coprire la mia testa e essere arrestata, ipotesi sgradevole, perché non sempre è successo alle utenti delle prigioni iraniane di uscirne vive.
Sono prigioni parecchio più aspre di quelle ungheresi. Dovrei coprire la mia testa come hanno fatto Boldrini, Mogherini, Serracchiani, Bonino e come non ha fatto davanti allo stesso Khomeini, Oriana Fallaci.
Il mondo si divide tra chi ha capito cosa è la libertà e chi non lo ha capito, è una scelta dolorosa e purtroppo definitiva, come ci ricordano le valorose donne dell’islam che ogni giorno rischiano la vita per non portarlo. In più il burka copre la faccia, impedisce la mimica, il primo linguaggio della creatura umana.
Cancellare il viso, la mimica, è un crimine per l’umanità di una persona e di conseguenza di tutte le persone umane. Ora che ci penso lo abbiamo fatto anche noi imponendo una inutile e dannosa mascherina. Almeno non c’erano le frustate o la morte come punizione, ma una multa.
- Una bimba di Pordenone si presenta a lezione a volto coperto, la maestra interviene e l’episodio non si ripete. Ma il dirigente dell’Ufficio scolastico regionale la striglia: «Non è vietato». Il Carroccio: «Rivedere le regole».
- Nell’esposizione «Gratia plena» c’è un Longino equivoco sul corpo di Gesù e un trittico con una donna denudata da uomini famelici. Il vescovo Castellucci: «Solo pregiudizi».
Lo speciale contiene due articoli.
A dieci anni, già vessata. E per giunta in una scuola pubblica dove, giustamente, c’è una crescente attenzione a qualunque fenomeno di discriminazione, isolamento, bullismo. A Pordenone, una bambina di dieci anni è stata mandata in classe dai genitori con un velo, il niqab, che le copriva buona parte del viso, lasciando scoperto solo una striscia per gli occhi. La maestra l’ha convinta a chiedere ai genitori di tornare il giorno dopo almeno a volto scoperto, richiesta che per fortuna è stata accolta. Ma intanto è esplosa la polemica, con la Lega che chiede di colmare il vuoto legislativo su burka e dintorni e la comunità islamica di Pordenone costretta a parlare di «malinteso» e ad arrampicarsi sugli specchi sostenendo che quel «tipo di copricapo» (testuale) va indossato «solo quando si è più grandi». Insomma, tutta colpa dei genitori.
La bambina frequenta la quarta elementare, è un’immigrata di seconda generazione ed è figlia di una coppia di origine africana e di religione musulmana. La scorsa settimana si è presentata così, pare per la prima volta, a scuola. La maestra non ha fatto passare la cosa e con molto tatto ha detto all’alunna di chiedere ai genitori di lasciarle scoperto il volto. Il giorno dopo, la bimba è tornata senza il niqab e la faccenda si è risolta all’insegna della massima tolleranza e del buon senso. Quello che è successo, però, è abbastanza grave e non poteva restare chiuso tra le mura della scuola. La notizia è uscita sui media locali e, naturalmente, ha fatto scalpore, se non altro per l’età della malcapitata. Non avendo avuto notizia formale dell’accaduto, le autorità scolastiche hanno fatto sapere che indagheranno su come sono andati esattamente i fatti. Ma, intanto, hanno spiegato al Messaggero Veneto che in quella scuola e in altri istituti della Provincia non mancano altri ragazzi di famiglia musulmana, eppur non ci sono mai stati problemi con il velo. Per il senatore Marco Dreosto, segretario della Lega in Friuli Venezia Giulia, «È un fatto inaccettabile e contravviene alle più basilari regole del vivere comune, dei diritti fondamentali dei bambini e dell’identità femminile». In ogni caso, c’è un punto politico generale grave e annoso: in Italia non c’è una legge che vieti esplicitamente il velo integrale, ma solo un’interpretazione acrobatica delle vecchie leggi antiterrorismo sull’identificabilità delle persone. E su questa linea che si è asserragliato il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale, Daniela Beltrame: «Non essendoci al momento una norma specifica che vieti il velo integrale tra i banchi le scuole devono favorire l’inclusione nel rispetto delle differenze anche di abbigliamento», ha riportato Rai News, «L’insegnante ha certamente agito in buonafede ma è opportuno che riconsideri la sua decisione».
Dreosto , intanto, tira le somme del fattaccio di Pordenone: «Penso sia arrivato il momento che anche l’Italia prenda iniziative per vietare il niqab a scuola e nei luoghi pubblici, per il rispetto dei diritti delle donne e per la sicurezza pubblica. Ricordo come Francia e Belgio abbiano vietato il niqab nei luoghi pubblici e anche l’Egitto, Paese musulmano, ne abbia vietato l’uso a scuola», e promettendo di portare il caso in Parlamento, proponendo una legge che vieti il velo integrale nelle scuole e nei luoghi pubblici. Il vicesindaco di Pordenone, Alberto Parigi, anche assessore all’Istruzione, ha spiegato di non aver ricevuto segnalazioni riguardo a bambine che indossano veli quasi integrali a scuola. «In ogni caso», ha affermato, «farò subito accertamenti e se la notizia venisse confermata, il mio primo pensiero deve andare a una bambina costretta nel niqab. Voglio sperare che tutti siano d’accordo sul fatto che nelle nostre scuole non si deve entrare velati, compresi coloro che invocano ogni giorno la laicità e l’emancipazione femminile».
Dal fronte opposto, vista l’enormità dell’accaduto, per una volta non si sono tentate penose difese della libertà di culto. Per Caterina Conti, segretario regionale del Pd, «nascondere il volto delle donne, fin da bambine, significa togliere loro la dignità di persone, renderle “cose” sottomesse alla potestà degli uomini. Ci sono acquisizioni di diritti femminili che non possono essere messe in discussione». E anche secondo Fausto Tomasello, segretario provinciale del Pd di Pordenone, «il velo integrale su una bambina di dieci anni è semplicemente inconcepibile, ma in particolare a scuola è inaccettabile e la maestra è intervenuta correttamente con la famiglia. Esprimiamo forte preoccupazione per un episodio che rappresenta una discriminazione di genere e un rischio per il benessere psicologico e fisico delle bambine». Tomasello da un lato ha anche avuto il coraggio di dire che «la velatura è un atto di indottrinamento e di controllo», salvo sostenere che «la stessa velatura non c’entra nulla con la religione». Il che francamente, è un approccio un po’ buonista e riduttivo, perché invece il suo fondamento è pienamente religioso, anche se per fortuna ci sono alcune comunità islamiche dove le donne possono girare senza velo.
In assenza dell’imam di zona, che deve ancora essere nominato, alla fine si sono fatti vivi con i media locali alcuni esponenti della comunità islamica di Pordenone e hanno minimizzato su tutta la linea: «Stiamo parlando di un caso che sembra non esistere, frutto forse di un malinteso. Quel tipo di copricapo va indossato solo quando si è più grandi di età». «Dunque, usarlo», proseguono, «in generale e non soltanto a scuola, per una bimba così piccola, era forse frutto di un errore di interpretazione dei genitori». E dopo aver scaricato tutto su mamma e papà, si sono pure detti «stupiti che si dia così tanta eco a un caso risolto con saggezza dalla maestra». Più che altro, devono essersi stupiti del fatto che in Italia ci sia una Costituzione.
Arte blasfema nella diocesi di Carpi
«Nessuna immagine blasfema o dissacrante alla mostra Gratia plena allestita al Museo diocesano»: recita così una nota della diocesi di Carpi diffusa a difesa di una mostra che, appena inaugurata, è già al centro di forti polemiche. Stiamo parlando di Gratia plena, esposizione dell’artista Andrea Saltini il cui catalogo presenta testi di don Carlo Bellini e della critica d’arte Cristina Muccioli. Il contesto ecclesiale, il catalogo con gli scritti di un sacerdote per di più un vicario episcopale per la pastorale e, in fondo, pure il periodo quaresimale dovrebbero essere quanto di più rassicurante sotto il profilo morale.Invece Gratia plena, aperta al pubblico solo sabato scorso, è già al centro di una polemica accesa che difficilmente potrà spegnersi a breve. Sì, perché nel percorso espositivo, che comprende una ventina di dipinti a tecnica mista su tela, molti dei quali di grandi dimensioni, si trova un’opera Saltini che sta facendo molto discutere. Si tratta del quadro intitolato Inri - San Longino, realizzato in gesso, cera e argilla pigmentata e che, in buona sostanza, raffigura Gesù Cristo crocifisso con, davanti a lui, un uomo con la mano destra nascosta dietro le sue cosce, la sinistra allungata fino a premergli il costato e, soprattutto, il volto platealmente affacciato sulle sue parti intime.Una raffigurazione che a diversi visitatori passati davanti ai piedi dell’altare maggiore della chiesa di Sant’Ignazio di Carpi, dove appunto si trova l’opera, ha subito fatto pensare, per quanto possa apparire incredibile visto il contesto, a un rapporto orale. Quando la Nuova bussola quotidiana ha chiesto spiegazioni alla guida della mostra circa l’ipotesi che il quadro di Saltini possa effettivamente essere ciò che a tanti appare, e cioè qualcosa di blasfemo, si è sentita rispondere: «Beh, potrebbe… Del resto, quello di provocare è uno degli intenti dell’artista». Neppure chi illustra l’opera è, dunque, stato in grado di negare come essa abbia qualcosa di anomalo; di qui la polemica, dato che nel percorso espositivo di Gratia plena il problema non è solo Inri - San Longino.Vi sono, infatti, anche altre opere dal tenore provocatorio, a partire da quella che dà il nome all’intera mostra, un trittico che raffigura una donna progressivamente spogliata con diversi soggetti maschili famelici attorno a lei. Per questo, a distanza di poche ore dall’inaugurazione della mostra, la diocesi di Carpi, retta dal vescovo Erio Castellucci, ha deciso di prendere posizione con una nota con la quale, cercando di parare l’urto delle critiche che stanno fioccando, premette che in effetti l’arte di Saltini «non è devozionale» e «difficilmente potremmo vederla in una chiesa», eppure è «vera arte contemporanea a soggetto religioso, ancora una volta una rarità. Davanti a queste opere si può meditare».Fatta questa premessa, la diocesi sostiene, «quanto ai giudizi (o pregiudizi) secondo cui alcuni quadri esposti» nella mostra «riproducono immagini blasfeme o dissacranti», che «pur rientrando nella libera circolazione delle opinioni, oltre a risultare irrispettosi nei riguardi del percorso compiuto soprattutto dall’artista e anche dai promotori, nulla di tutto questo è rilevabile davanti a una visione delle opere corretta». Per questo, per meglio facilitare una «visione delle opere corretta», a breve «sarà predisposto, in addendum al catalogo della mostra, un sussidio che presenta le singole opere dal punto di vista dell’artista». Il punto di vista della gente comune, invece, è già chiaro. E incredulo.






