Tiziano Renzi da giorni denuncia su Facebook che La Verità lo diffama. Ma poi ci dà ragione. Venerdì 7 dicembre abbiamo pubblicato in prima pagina la foto di un tendone che si trovava nel piazzale della sua azienda, la Eventi 6 di Rignano sull'Arno, e abbiamo scritto che si trattava di una struttura abusiva, per cui era stata concessa un'autorizzazione di soli 90 giorni nel 2017. Ebbene, dopo poche ore, nel week end dell'Immacolata, Renzi senior ha pensato bene di smantellarlo. In gran fretta. Là sotto, la sua azienda, la Eventi 6, ricoverava gli automezzi e Laura Bovoli, in qualità di amministratrice della Eventi 6, il 28 marzo 2017 aveva presentato in Comune un modulo di «comunicazione di inizio lavori» nell'ambito della cosiddetta «attività edilizia libera». Questo tipo di procedura riguarda le «opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e a essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni». I tre mesi erano scaduti durante l'estate del 2017, ma tutto è rimasto come era sino all'articolo della Verità. A quel punto il sindaco di Rignano, Daniele Lorenzini, ha convocato il comandante dei vigili per chiedergli di fare un sopralluogo. Ma Tiziano ha giocato d'anticipo e ha tirato giù il tendone.
Lo deve aver fatto anche in vista del lungo servizio che Le Iene dedicheranno questa sera alle imprese del celebre babbo. Renzi senior ha infatti risposto per circa un'ora alle domande dell'inviato Filippo Roma e dell'autore Marco Occhipinti, sostenendo che le notizie pubblicate da questo giornale sul lavoro nero e sugli abusi edilizi sono delle fake news. Ma, a quanto ci risulta, davanti alle telecamere Mediaset, il genitore dell'ex premier ha negato ogni tipo di addebito, anche di fronte all'esibizione di alcune sentenze del Tribunale del lavoro e altri documenti.
La Verità la settimana scorsa ha pubblicato l'ordinanza del Comune che chiedeva l'abbattimento di sei manufatti, tra magazzini, laboratori e tettoie realizzati sulla sua proprietà. Il sindaco Lorenzini ha recuperato dagli archivi il verbale di sopralluogo dei vigili urbani, datato 6 aprile 2005, che constatava gli interventi effettuati per ottemperare all'ordinanza.
Eppure, su Facebook, Tiziano ha negato tutto: «Sono stato accusato di costruzioni abusive. Falso. Diciassette anni fa abbiamo ricevuto l'ordine di smontaggio di un tendone e siamo andati in causa con il Comune per quello. Ovviamente non abbiamo ricevuto nessuna condanna. Ho invitato Le Iene a venire a vedere il tendone, in qualsiasi momento. Un tendone, svitabile come quelli delle Feste popolari in piazza». Non si capisce perché, se era tutto in regola, i Renzi abbiano deciso di farlo sparire proprio dopo l'uscita del giornale e l'arrivo delle Iene.
Veniamo ora alla questione dei lavoratori ingaggiati al di fuori delle regole. Nella trasmissione di Mediaset racconteranno la loro esperienza i nigeriani Monday Alari e Evans Omoigui che a giugno, assistiti dall'avvocato Lars Markus Hansen, hanno presentato denuncia contro i Renzi per millantato credito, assunzione di lavoratori clandestini ed eventuali reati societari. Il fascicolo è stato archiviato dalla pm Chiara Maria Paolucci a settembre, senza il vaglio di un giudice, visto che il magistrato non ha individuato né indagati né ipotesi di reato. Evans e Monday, nel 2011, avevano vinto due cause di lavoro contro la Arturo Srl di proprietà dei fratelli Tiziano Renzi (90% delle quote) e Tiziana Renzi (10%), senza però ottenere il pagamento dei risarcimenti stabiliti dai giudici. Le sue disavventure con Renzi senior, hanno ispirato a Omoigui un libro (Il mondo deve sentire la mia storia) in attesa di pubblicazione e tre canzoni, tra cui il tormentone Io ballerò, il cui ritornello è: «Io ballerò finché Renzi mi pagherà i miei soldi». Infatti secondo una sentenza definitiva la Arturo Srl avrebbe dovuto versare circa 90.000 euro a Evans per quasi quattro anni di mancate retribuzioni a seguito di un ingiusto e inefficace licenziamento verbale avvenuto il 13 aprile 2007.
Una curiosità: la Arturo Srl nacque nel 2003 come ditta di panificazione e aveva come motto «Arturo il pane che non diventa mai duro». Matteo Renzi nel 2001 aveva acquistato metà di un fondo adibito a forno-panificio, con laboratorio, locale per le farine, bagno e spogliatoio. Poi l'ex premier divenne presidente della Provincia di Firenze e le mani in pasta divennero, consentiteci la battuta, solo metaforiche.
In vista della messa in onda della puntata delle Iene, l'avvocato Luca Mirco, legale di Renzi senior e della moglie Laura Bovoli, ha inviato una diffida «dal propalare notizie false e diffamatorie in relazione a “presunti" quanto inesistenti rapporti di lavoro nero tra il dottor Renzi, società dallo stesso amministrate e/o controllate». I genitori dell'ex premier hanno intimato alla produzione di astenersi «dall'utilizzare immagini e/o documentazione illecitamente acquisita e relativa a ipotizzati quanto immaginari abusi edilizi». Il riferimento potrebbe essere alle riprese effettuate dal drone delle Iene che ha sorvolato l'azienda dei Renzi. Un trattamento già riservato alle proprietà della famiglia Di Maio.
E infatti, i genitori del fu Rottamatore hanno messo in guardia gli autori della trasmissione da «improvvide associazioni tra fattispecie di recente attualità politica totalmente differenti nei fatti, nei presupposti e nelle ipotesi di illeciti prospettati». Ogni riferimento ad Antonio Di Maio è assolutamente voluto. Forse perché il padre del vicepremier ha ammesso con un video i propri errori. Tiziano ha scelto di negarli a oltranza.
Salvo condividere su Facebook un post che riportava l'articolo 12, quello sul diritto alla privacy, della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata esattamente 70 anni fa dall'Assemblea generale dell'Onu: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione».
Ha collaborato Gaia Sebastiani
- Oltre ai contratti irregolari, un tribunale accerta la presenza di stranieri abusivi fra il personale nella ditta del signor Tiziano. Un giudice ha riconosciuto a un nigeriano un risarcimento, rilevando anche che fu sfruttato in assenza di permesso di soggiorno.
- Il genitore di Luigi Di Maio: «Ho sbagliato, volevo provvedere alla mia famiglia. Luigi però non c'entra nulla». L'ex premier, che fino a pochi giorni fa gridava allo scandalo, davanti ai guai dei suoi ripiega: «Clima infame».
Lo speciale contiene due articoli.
(...) anno fa Monday si presenta in Tribunale sostenendo di aver lavorato «continuativamente dal 14 novembre 2005 al 12 aprile 2007 senza alcuna regolarizzazione ai fini contributivi e previdenziali con mansioni di consegna del quotidiano Il Secolo XIX durante la notte alle dipendenze delle società convenute (Eukos, Dmp, Arturo) che si sono via via succedute nell'esecuzione dell'appalto commissionato dalla predetta testata giornalistica». Un appalto che era stato conquistato, nel 2003, dalla Chil Srl della famiglia Renzi.
Tiziano all'inizio si affidò per la distribuzione al sodale Mariano Massone, genovese trapiantato ad Alessandria, a cui nel 2010 cederà la Chil imbottita di debiti, la quale andrà in malora e costringerà Tiziano Renzi a difendersi dall'accusa di concorso in bancarotta fraudolenta. Renzi senior uscirà indenne dall'inchiesta, Massone patteggerà 26 mesi di reclusione.
In principio la distribuzione viene affidata alla cooperativa Recapita, presieduta da Giovanna Gambino, coniuge di Massone, e successivamente alla Eukos distribuzioni Srl, sempre riconducibile a Massone.
Per pochi mesi l'attività di consegna passa alla Dmp servizi pubblicitari di Massimiliano Di Palma, un imprenditore genovese in rapporti sia con Massone sia con Renzi senior, poi Tiziano subentra direttamente con una società amministrata da lui stesso, la Arturo Srl. Per il Tribunale quest'ultima e la Eukos sono praticamente la stessa cosa.
Nel 2009 Monday, dopo essere stato licenziato in tronco e aver perso le speranze di essere riassunto, decide di fare ricorso e chiama in causa Dmp, Eukos e Arturo. La prima si difende e vince, dimostrando la propria buona fede. Eukos e Arturo, nel frattempo sciolte, si fanno invece processare in contumacia. Nel 2011 il giudice Giuliana Melandri le condanna a pagare in solido un risarcimento di 15.449,50 euro al nigeriano per differenze di paga, indennità di ferie e permessi, straordinari e Tfr non saldati. Ma il magistrato non riconosce al ricorrente le retribuzioni successive al licenziamento «intimato verbalmente» e, quindi, sulla carta, «inefficace a interrompere il rapporto di lavoro». Il motivo? Monday, essendo sprovvisto di permesso di soggiorno, per il Tribunale, «non avrebbe potuto svolgere attività lavorativa» e «conseguentemente» non era possibile «applicarsi nei suoi confronti la normativa tutela del posto di lavoro prevista nel nostro ordinamento».
E qui arriva la nota dolente. Tiziano sapeva di utilizzare lavoratori clandestini? Sembrerebbe di sì. Durante il processo è emerso che solo la Dmp aveva «vietato in modo categorico che potessero lavorare» i nigeriani sprovvisti di permesso di soggiorno. E così, chi era senza documenti aiutava chi era in regola «dividendosi il compenso». Al contrario, la Eukos e la Arturo non avrebbero applicato restrizione alcuna.
Proprio per riscattare quei mesi di lavoro da clandestini, il 23 giugno scorso Monday, insieme con Omoigui, ha sporto querela, assistito dall'avvocato danese (trapiantato a Genova) Lars Markus Hansen, per millantato credito, assunzione di lavoratori clandestini ed eventuali altri reati contro Tiziano e Matteo Renzi; denuncia per cui non hanno ricevuto ancora alcuna notifica ufficiale di archiviazione. Nell'esposto è sottolineato che «gran parte dei lavoratori di colore (della Arturo, ndr) erano clandestini non assunti e lavoranti in nero». E in un altro passaggio si legge: «Noi due e molti altri ragazzi di colore, che hanno lavorato per Tiziano Renzi e i suoi amici, abbiamo creduto in queste persone, perché Adewale Tore Adenigi, il braccio destro di Tiziano Renzi, ci diceva sempre di aver fiducia in Matteo Renzi perché stava diventando un importante politico nel Partito democratico. Ci disse: “Io, Tiziano e Matteo Renzi siamo amici, calma, calma, i permessi di soggiorno con Renzi figlio li avrete"». In realtà non arrivarono mai. «Sono in Italia da 14 anni, e ancora oggi non sono regolare» spiega Monday alla Verità. «Quando sono andato a offrirmi in azienda, per un lavoro, mi hanno detto: “Sai guidare? Hai un'auto?". E così ho iniziato».
Il babbo, si legge nella querela, avrebbe dichiarato personalmente: «Vi porto io in Questura. Ho degli amici lì. Così facciamo il documento per tutti». Nel marzo del 2007 i nigeriani improvvisarono uno sciopero e in piena notte apparve Tiziano, il quale avrebbe detto al rappresentante dei lavoratori: «Dammi due mesi e sistemo tutto io per i documenti». Monday Alari ha anche aggiunto: «Tiziano Renzi sapeva che in molti eravamo clandestini e ci dava degli ordini, a volte personalmente, ma in genere tramite il suo segretario Adewale Tori Adenige (…)». Insomma sapeva e impartiva direttive.
Nel marzo del 2007 Tiziano lasciò l'incarico di amministratore della Arturo a un amico fotografo, Pier Giovanni Spiteri, oggi coindagato con lui per la bancarotta di una cooperativa. Nella notte tra l'11 e il 12 aprile i nigeriani inscenarono una protesta per le promesse non mantenute e, a causa degli schiamazzi, gli abitanti del posto chiamarono la Polizia. I lavoratori vennero portati in Questura e 11 di loro non risultarono in regola con i permessi di soggiorno e per questo Spiteri venne denunciato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Non tutti i fermati erano soggetti raccomandabili e due di loro, o quanto meno due omonimi residenti a Genova, successivamente sono finiti sui giornali per storie di cronaca nera: Akhadelor Talatu nell'agosto del 2008 ha ucciso la compagna; Osawe Saturdau è stato condannato nel 2010 per racket della prostituzione. «A parte uno, che è tornato in Nigeria, quasi tutti gli altri vivono nascosti in Italia e non hanno avuto il coraggio di denunciare Renzi senior e i suoi soci» continua Monday, il quale, invece, il coraggio lo ha trovato eccome. Tanto che avrebbe ricevuto anche una telefonata: «Un giorno, il mio avvocato mi chiama e mi dice che il legale di Tiziano Renzi ha fatto una proposta di 2.000 euro per chiudere. Ma io ho rifiutato, preferisco morire povero. Non voglio i 2.000 euro di Renzi, io voglio i 15.000 euro che il giudice mi ha riconosciuto». E come vive ora? «Chiedo la carità e devo farmi aiutare dalla mia fidanzata, che lavora. Ho una “mamma adottiva" italiana, si chiama Paola. È lei a pagare, per me e per la mia compagna, la stanzetta da 200 euro al mese in cui viviamo. Io non voglio andare a rubare, non voglio vendere la droga. Vorrei solo un lavoro e i soldi che mi devono Tiziano Renzi e i suoi amici».
Di Maio senior chiede perdono e il Bullo inverte la rotta sui papà
Antonio Di Maio, padre del vicepremier grillino Luigi, rompe il silenzio e chiede scusa a tutti. Decide di parlare e lo fa usando Facebook - strumento più consono al figlio - e in giacca e cravatta, con grande emozione legge la sua verità, scritta su due fogli che gli tremano nelle mani, per spiegare le vicende dell'azienda di famiglia «spulciate» dai servizi delle Iene.
«Chiedo scusa per gli errori che ho commesso, chiedo scusa alla mia famiglia per i dispiaceri che hanno provato. Chiedo scusa agli operai che hanno lavorato senza contratto per la mia azienda qualche anno fa. Mi dispiace per mio figlio Luigi, che stanno cercando di attaccare ma lui non ha colpa. Luigi non sapeva nulla».
Si definisce un piccolo imprenditore che ha commesso degli errori ma sottolinea polemicamente i sequestri: «Nei giorni scorsi, la polizia municipale è venuta a Mariglianella per controllare il capanno sul terreno, di proprietà mia e di mia sorella: l'area è stata sorvolata da un drone, come anche la nostra casa. C'erano telecamere e giornalisti ovunque. Ammetto che nel cortile avevo lasciato qualche mattone e dei sacchi con materiale edile e altre cose. Anche in questo caso se ho sbagliato me ne assumo la responsabilità, ma essendo la mia proprietà privata non pensavo che questo potesse essere addirittura un reato ambientale. Forse non spetta a me giudicare, ma mi sembra un trattamento che si riserva a un pericoloso criminale e mi spiace anche per i miei vicini e per tutto il paese».
Per quanto riguarda quel debito di 176.000 euro che l'Agenzia di riscossione (già Equitalia) non ha mai riscosso in 10 anni, chiarisce: «Non esiste nessuna elusione fraudolenta. Nel 2006 ho deciso di chiudere la mia azienda per debiti tributari e previdenziali che non ero in grado di pagare. Non vi era altra strada che chiudere. Ma non ho sottratto i miei beni alla garanzia dei creditori».
Di Maio ricorda poi che non sono state eluse le tasse da sua moglie, la docente Paolina poi diventata titolare della nuova impresa (benché incompatibile in quanto insegnante di scuola pubblica). La trasmissione di Mediaset, infatti, dopo le polemiche sull'utilizzo di manodopera in nero dell'impresa Ardima Costruzioni di Antonio, ha tirato fuori il ruolo di titolare della moglie e, infine, domenica ha ipotizzato per il leader del Movimento 5 stelle nonché ministro del Lavoro il ruolo di prestanome nell'azienda di famiglia, prospettando il possibile reato di concorso in elusione fraudolenta. In pratica, stando alla trasmissione Mediaset, Luigi Di Maio avrebbe avuto un ruolo di prestanome per salvaguardare l'Ardima Costruzioni proprio nel contenzioso con Equitalia.
Antonio Di Maio, con toni ancora più accorati, ha poi confessato la sua debolezza di pater familias: «Come ogni padre ho provato a non far mancare nulla alla mia famiglia. Per questo nei periodi difficili ho cercato di andare avanti da solo, perché non volevo pesare su di loro. So che tanti papà mi capiscono. Luigi a volte mi ha dato una mano in azienda, come fanno tanti figli con i padri e ci sono tutti i documenti che lo provano, lui li ha già pubblicati. Io sono molto orgoglioso dei miei figli e sono orgoglioso di Luigi. Come scritto da mia cugina, non potendo attaccare l'onestà, la trasparenza e il coraggio di Luigi, ecco che sono partiti gli attacchi spropositati verso la sua famiglia, pur di screditarlo e togliergli la voglia di andare avanti. Cosa che, se conosco mio figlio, non succederà. Non voglio certamente discolparmi se ho fatto degli errori. E voglio, da padre a figlio, dire a Luigi che mi dispiace per tutto quel che sta passando. Da padre posso solo incoraggiarlo ad andare avanti, non perché è mio figlio ma perché credo che stia facendo il bene di questo Paese contro tutto e contro tutti».
La videolettera non commuove il Partito democratico, che attacca con l'hastag #DiMaioBugiardo, mentre l'ex segretario, Matteo Renzi, si dice dispiaciuto nel vedere le telecamere entrare nell'intimità di una famiglia, però chiede al vicepremier di chiarire il suo ruolo di prestanome. Non solo, il Rottamatore ne ha anche per i propri compagni politici, tant'è vero che si è scagliato contro il gruppo dirigente del Pd, a suo dire mai solidale col capo quando l'inchiesta Consip coinvolse suo padre Tiziano.
Renzi cita Bettino Craxi: «Hanno creato un clima infame», per dire che la vicenda del padre di Luigi Di Maio dovrebbe essere tenuta fuori dalla scena politica ma ci sono due ragioni per cui se ne parla: «Perché il Movimento 5 stelle ha creato un clima infame, con aggressioni personali. E oggi la famiglia Di Maio è vittima di questo sistema. Io conosco cosa sta passando la famiglia Di Maio», continua Renzi, ricordando come i pentastellati siano stati i suoi principali accusatori politici quando l'inchiesta Consip coinvolse suo padre, Tiziano Renzi, «per colpa di Luigi e dei suoi amici ci siamo passati anche noi».
Poi però attacca il suo stesso partito: «Almeno Di Maio può contare sulla solidarietà dei suoi colleghi pentastellati. A me invece la solidarietà è arrivata dalla nostra gente, non dal gruppo dirigente del Partito democratico, che per la stragrande maggioranza è rimasto in silenzio, sia pubblicamente che privatamente». In ottica congressuale, sono dichiarazioni di peso, è innegabile. L'attacco al Pd per la mancanza di solidarietà davanti ai guai giudiziari del Giglio magico, unito a quel «dobbiamo chiedere scusa a Berlusconi» pronunciato pochi giorni fa, rende sempre più credibile lo scenario che vede Renzi impegnato nella creazione di un nuovo partito.
La nipote del Duce: «Nessuno è costretto a denunciare suo papà, ma non deve neppure diventarne complice. Il mio cognome? Una scuola di vita, dal provino con Eduardo, senatore comunista, all'esame con il prof ebreo».
«Noi Mussolini siamo marziani».
Prego?
«Marziani rispetto al cognome. Avendo quello più “pesante" della storia italiana, ci siamo dovuti esercitare nel farlo diventare “leggero"».
Ed è possibile?
«Il peso dei cognomi, dei padri, dei figli, è a geometria variabile».
Prediamo Di Maio.
«Guarda come cambia il rapporto tra un padre e un figlio: dieci anni fa Luigi era solo “il figlio di suo padre", anonimo e leggerissimo. La settimana scorsa Antonio era diventato il padre del vicepremier. E quel cognome era diventato pesantissimo per entrambi».
E il tuo per te oggi come è?
«Ne ero e ne sono orgogliosa. È stato un macigno in alcuni momenti, un peso leggerissimo in altri. E ho deciso di darlo ai miei figli».
Anche in maniera ufficiale?
«Sono dei Mussolini-Fiorani, e so che mi ringrazieranno per quello che hanno imparato quando hanno dovuto portare il peso».
Ogni volta che intervisto Alessandra Mussolini riesce a spiazzarmi. La chiamo per un'opinione sul caso dei genitori eccellenti, dei padri e dei figli, e lei ci scherza: «Io sono nel Guinness...». Poi finiamo per parlare di storia, di memoria. Lei parte da questa idea: «Un cognome è sempre condizionante. Il mio è stato una palestra di vita».
Proviamo a rileggere la tua biografia?
«Io, ovviamente non avevo un problema con la mia identità, al contrario di tanti figli in conflitto con la loro eredità. Tuttavia...».
Cosa?
«All'università avrei voluto fare filosofia».
Se avessi proseguito, forse, nel 1993 non avremmo avuto una candidata simbolo del Msi a Napoli ma una studiosa di Hegel?
«So che ci provai e dovetti scappare. Altro mondo, metà anni Ottanta a Roma, facoltà molto di sinistra, Lettere e filosofia, e un rischio fisico concreto. Mettere il mio cognome su un foglio di carta bianco, per iscrivermi pubblicamente a un esame universitario. Un rito pubblico per cui non esisteva privacy».
Cosa accadeva dopo?
«Era come convocare un sit in di protesta contro me stessa. L'ho fatto una o due volte, poi ho capito che dovevo cambiare facoltà».
Disastro.
«Affatto. Mi sono iscritta a Medicina. E ho trovato un ambiente tutto diverso... E sono diventata più forte di prima».
E oggi?
«Sono ancora felicemente medico. Mi sono laureata con ottimi voti. Ho anche la specializzazione in medicina e chirurgia!».
E a scuola?
«Ero stata in una privata, abbastanza protetta. Alla maturità, quando avevo annunciato la scelta delle mie materie, un professore mi disse: “Con quel cognome vuoi pure portare filosofia?"».
E a medicina tutto bene?
«Un professore mi disse. “Qui il tema è studiare o non studiare: del suo cognome non ci importa nulla". Mi capitò una vicenda traumatica con il professor Tagliacozzo, ebreo. Luminare di fama, un professore severissimo di anatomia. Tutti mi avevano consigliato: cambia canale, cioè passa all'altro professore».
E tu?
«Cambiare solo per il mio cognome? Sorrisi e dissi: “Mai"».
E all'esame?
«Massacrata. Ricordo ancora l'interrogazione sull'anatomia della regione pelvico-anale. Mi scrisse: “Respinto" sul libretto, cosa rara, e lo buttò per terra. Una umiliazione. Gridava: “Voi dovete essere degni di diventare medici!"».
Un peso terribile.
«No. Perché io effettivamente non ero preparata. Non mi piansi addosso, cambiai canale e dopo dieci giorni, con un altro professore, presi 30 e lode».
Anche tuo padre aveva dovuto confrontarsi con il suo cognome.
«Papà era appassionato di jazz. Ma era - in quegli anni - la “musica negra", proibita. Mi raccontò che non poteva suonarla a casa, perché sarebbe stata una sfida».
E cosa fece?
«Una soluzione all'italiana. Andava a suonare sul tetto di Villa Torlonia. La notizia si diffuse in famiglia. Mio padre fu convocato da nonno Benito, che gli disse: “Gira voce che... È vero?". Papà era preoccupato, ma alla fine nonno concluse così: “Se fosse vero che suoni jazz sul tetto, non scendere"».
Chi era peggio trovarsi di fronte: lui o donna Rachele?
«Mio padre non aveva dubbi. Prendeva brutti voti e mi diceva: “Se devo farmi firmare una pagella, meglio affrontare il Duce che mia madre". E infatti le firmava tutte lui».
Mi immagino che sollievo per gli insegnanti... E fare l'attrice con il tuo cognome?
«In Italia l'attrice se ti chiamavi Mussolini non la potevi fare. Ero io che ero una matta. Guardo sempre Leo Gassman a X Factor, che trovo bravissimo. Però ogni volta che mettono in mezzo la sua famiglia, soffro. Metti pure che io potevo entrare davvero nel Guinness».
In che senso?
«In quel mondo ero due volte nipote. Di mio nonno e di mia zia Sophia Loren. Era più facile che restassi a casa e mi chiudessi dentro. Ogni provino era come sentire di essere marchiata su due spalle».
Esempio?
«Mi ritrovai ad avere la fortuna di recitare una parte in teatro con Eduardo De Filippo. Un turco napoletano. Lui era già senatore eletto nelle fila del Pci. Qualcuno potrebbe pensare che avesse delle riserve su di me. Lo ricordo attentissimo al provino, silenzioso, poi severissimo quando prese la parola. Quasi preoccupato».
Parlaste di fascismo?
«Macché. Mi disse: “Tu ti devi assolutamente correggere. Hai l'accento puteolano!"».
Sfumature della lingua...
«Scherzi? Il due, per esempio: nel primo caso è “O roie". Nel secondo “O doie". Edoardo poteva sorvolare sul cognome ma non sull'esattezza della lingua teatrale».
Hai imparato da lui?
«Tutto: diventai Giulianella, la figlia di Felice Sosciammocca. E c'era in lui un rigore meritocratico per cui ogni sera, se funzionavi, ti aumentava le battute. Ho imparato con lui tante piccole tecniche silenziose che uso ancora, in politica».
Mancata filosofa, mancata chirurgo, ma volevi fare l'attrice.
«No. Ho avuto tre figli e sono stata rapita dalla politica nel 1992. Il resto è storia nota».
In politica il cognome ti ha aiutato. Ammettilo.
«Nessuno ricorda che Fini mi mise in lista al numero 31».
Perché sapeva che ce la facevi?
«No, perché doveva far eleggere Abbatangelo. Per fortuna lo superai, di 57.000 voti. E vinsi pure a Bologna».
Grazie al cognome?
«Non voglio fare la vittimella ma ho dovuto lottare nei partiti. Meglio con Berlusconi che con Fini».
Perché?
«Berlusconi è l'unico che non mi ha mai raccontato balle. Alle europee mi chiamò e mi disse: “Alessandra, so che in Senato stai bene, ma ho bisogno del tuo nome per trainare la lista". Così fu».
E alla fine hai lasciato il Senato per Strasburgo.
«Ero candidata al penultimo posto e ho preso 82.000 voti».
Di Maio figlio è responsabile per Di Maio padre?
«No. Non come figlio, almeno. Non si può chiedere a un figlio di denunciare il padre, a meno che non sia un mafioso. Mica puoi rispondere di tua moglie o di tuo marito in tutto e per tutto. Altrimenti finiamo al cannibalismo...».
Sento che c'è un però.
«Se di tuo padre sei braccio destro, o compagno di avventura, diventi suo socio!».
Il familismo amorale è un piaga italiana?
«Non lo credo. Da quando sono in Europa mi sono convinta che all'estero fanno di tutto, ma non esce fuori. Ma meglio una informazione vigile che addormentata. Meglio aver saputo del padre della Boschi o di Renzi. I cittadini giudicano».
E tuo padre con te?
«Era umorista, ironico, autoironico. Non aveva la pesantezza retorica di altri parenti, anche rispetto al regime».
Si diceva che Romano fosse meno politico.
«Non era così. Adorava suo padre, ed è riuscito a spiegarmi che c'erano due Mussolini: uno per noi, uno per il resto del mondo. L'ho ritrovato quando ho iniziato a fare politica: si interessava, mi consigliava. Mi ha aiutato a vincere la paura».
Non ci credo che fossi timida!
«Scherzi? Non sei mai pronto. Tutti siamo dilettanti. All'inizio volevo parlare sempre per prima, in pubblico. E sparire».
Cosa non sopporti?
«Uno come Friedman che dice: “Non ti ascolto perché non parlo con una Mussolini"».
E hai voluto che i tuoi figli assumessero questo cognome?
«Quando hai una storia che suscita reazioni, conoscere meglio chi è stronzo è un vantaggio».
Avranno la tua cazzimma?
«Se la faranno venire. Io ogni volta che vedo la foto di piazzale Loreto soffro. Nelle pieghe del naso insanguinato di un cadavere trovo la mia storia. Mentre so che altri, in quello stesso corpo, vedono un dittatore».
Su questo piano nessun marziano può sorvolare.
«No. Ma per fortuna i marziani sono intelligenti».
Dunque lei è l'anima pragmatica del Movimento 5 stelle? «Sono il re dei pragmatici», ride, «ma la prego non faccia paragoni». In effetti l'hanno definito il Giancarlo Giorgetti del M5s, per via dell'inclinazione lombarda alla concretezza, cioè a puntare al sodo sorvolando le polemiche del partito preso. Uno stile che condivide con il suo parigrado leghista. «Arrivo da un territorio dove la gente si aspetta dei risultati, e con un po' di metodo i cambiamenti tanto attesi potranno realizzarsi». Intercettiamo Stefano Buffagni nella sua casa di Milano, nel tardo pomeriggio d'un weekend passato a tenere a bada il procedere della manovra, con un occhio, e il figlio di 17 mesi, con l'altro. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sostiene che la fiducia sulla finanziaria punterebbe ad accelerare i tempi, ma «io non ho problemi a passare Natale e Capodanno in aula», aggiunge.
Sottosegretario Buffagni, l'Istat disegna un segno meno sul Pil italiano, la disoccupazione sale, avanza lo spettro della recessione. Le stime di crescita del governo per il 2019 non iniziano a suonare avventurose?
«Stiamo andando verso un rallentamento generale dell'economia mondiale. Per questo stiamo lavorando a una manovra che possa risultare realmente espansiva per l'economia. Dire che occorre semplicemente tagliare in maniera incondizionata rischia soltanto di aggravare la situazione. La rabbia sociale sta crescendo in tutta Europa, basti vedere quanto sta accadendo in Francia. Da questo punto di vista il Movimento 5 stelle continua a essere un valido filtro volto a disinnescare le frange più estreme del malcontento».
Quale sarà il punto di caduta della trattativa con l'Europa sul deficit? Ci arrenderemo al 2%?
«Non facciamone solo una questione di numeri. Se intavolassimo una discussione esclusivamente sullo zerovirgola in più o in meno, affronteremmo la situazione da un'ottica sbagliata. Dico semplicemente che quando un'azienda è in difficoltà non può limitarsi soltanto a tagliare e spese, ma deve mirare alla crescita. Sulla base di questa convinzione ci muoviamo anche noi. Il premier Giuseppe Conte sta calibrando con costanza un lavoro di trattativa importante, e sono convinto che la procedura di infrazione si possa ancora evitare».
Secondo il Sole 24 Ore, quota 100 comporterà una riduzione dell'assegno pensionistico tra il 5 e il 21%.
«Siamo ancora in fase di quantificazione delle risorse. È chiaro che una rivalutazione sarà necessaria, ma ci saranno tante persone in età di pensionamento, che magari hanno avuto interruzioni nella vita lavorativa, le quali potranno pensionarsi in anticipo e tornare ad avere reddito in base ai contributi versati. Ovviamente dobbiamo occuparci di una platea per volta, i soldi non sono infiniti e miracoli non ne facciamo».
Di recente aveva espresso preoccupazione sulla fattibilità concreta del reddito di cittadinanza.
«Ma no, semplicemente, invito a discutere su come farlo funzionare. Inutile giocare a fare i tifosi. È assodato che il reddito sarà realtà, ora occupiamoci di ottimizzarne l'applicazione».
Queste famose card le avete già stampate oppure no?
«Guardi, posso assicurarle che in casa mia non stampo nulla, non ho una tipografia in salotto. Scherzi a parte, esistono dei contratti che lo Stato ha già in essere con alcuni fornitori, e che già oggi garantirebbero la possibilità di disporre degli strumenti adatti per usufruire del reddito di cittadinanza».
Nessun bando?
«Dovendo partire a marzo, fare nuove gare richiederebbe troppo tempo. Il ministro Luigi Di Maio ha effettuato una ricognizione degli strumenti già a disposizione alla luce dei contratti attivi. Poi, in futuro, potremo studiare altri metodi per perpetuare il funzionamento del reddito. Sarà indispensabile anche garantire il rispetto sociale dei beneficiari, i quali non dovranno sentirsi esclusi, giudicati o emarginati. Occorre la giusta sensibilità».
Mario Monti dice che state attraversando il «momento Tsipras», quello in cui i rivoluzionari scendono a patti con la realtà.
«Monti si diverte a stuzzicarci. Chi ci ha preceduto ha avallato accordi suicidi che oggi siamo costretti a rispettare ma che vogliamo ridiscutere. Le regole si osservano ma si possono migliorare. Ad esempio, sarebbe utile allargare la sfera di competenza della Bce. Sulla scia delle prerogative della Fed, sarebbe giusto si occupi non solo della tenuta dell'inflazione, ma anche di favorire la crescita».
C'è chi vorrebbe modificare il meccanismo dell'asta di emissione dei titoli di Stato, giudicato troppo penalizzante per l'emittente. Si può fare?
«Sì e ne stiamo discutendo con il ministero dell'Economia. Occorre migliorare i meccanismi di emissione, prendendo quanto c'è di buono dai metodi in vigore negli degli altri Paesi. Le aste sicuramente non sono intoccabili, se l'obiettivo è andare incontro all'interesse dei risparmiatori».
L'idea di far leva sul risparmio privato giacente nei conti correnti è ancora un sogno?
«Escludendo la patrimoniale, che esiste solo nella testa di qualche burocrate europeo, la mia visione è quella di incentivare fondi di investimento a guida pubblica per indirizzare le risorse private sulle infrastrutture utili al Paese».
A proposito di infrastrutture, sulla Tav la linea del movimento sta cambiando?
«I treni ad alta velocità, in linea generale, sono una grande risorsa. Ma la Torino-Lione è un progetto obsoleto, che rischia di farci gettar via una marea di milioni. Se su quella tratta non è previsto un incremento del traffico, sarebbe più logico potenziare le linee tradizionali».
Il padre di Luigi di Maio ammette di aver avuto lavoratori in nero, ma sostiene che il figlio non ne sapesse nulla. Il giustizialismo è un boomerang?
«I figli non devono pagare le colpe dei padri. Non possiamo trasformare in un criminale un uomo che non ha ucciso nessuno, e che non ha mandato sul lastrico nessuno. In questa vicenda Di Maio ha reagito alla grande, non dev'essere stato facile per lui sul piano umano. È una polemica figlia dell'esasperazione comunicativa, segno che qualcuno sta esagerando».
Che differenza corre tra la vicenda del padre di Di Maio e quella del padre di Matteo Renzi, o di Maria Elena Boschi?
«Guardi, non troverà una sola frase da parte mia contro avversari politici su questioni di natura familiare. Preferisco criticare Renzi e Boschi per aver compromesso il futuro dei nostri figli, piuttosto che per i comportamenti dei loro parenti. Certo, Di Maio sta subendo attacchi su errori fatti da qualcun altro, sui quali non ha responsabilità. Altri invece hanno agito attivamente, confondendo il ruolo pubblico con l'opportunità personale».
Anche lei come Di Maio pensa che la stampa stia soffrendo per via delle fake news che diffonde? O stiamo generalizzando un po' troppo?
«Non auguro il male a nessuno, ma le balle che sono state scritte negli ultimi tempi hanno delegittimato gli stessi organi di informazione, fondamentali per un corretto funzionamento del sistema democratico. Insomma, l'autocritica non spetta solo alla politica».
La parlamentarizzazione del global compact sull'immigrazione riflette l'ennesimo scontro tra Lega e 5 stelle?
«No, semplicemente vogliamo studiare la pratica in Parlamento senza pregiudizi. Sono regole utili al Paese, o rischiamo di farci un autogol? Tanto vale discuterne, altrimenti cosa paghiamo a fare i parlamentari?».
Insomma non vede rischi per la maggioranza.
«Stiamo lavorando serenamente. Del resto, a nessuno converrebbe tornare al voto chiedendo di governare, dopo che al governo ci siamo già stati. Non avrebbe senso».
Eppure talvolta il Movimento sembra subalterno alla Lega, o no?
«In un contratto di governo, ogni tanto qualcuno deve cedere terreno. Anche la Lega lo ha fatto a favore del Movimento sul decreto Dignità o sull'Anticorruzione. Poi in tanti si divertono a metterci in contrapposizione, con la storia della Lega che vince sempre e noi, polli, che chiniamo la testa. Il tentativo di innescare tensioni nel Movimento è fallito, e i cittadini non hanno l'anello al naso».
Adesso abbiamo altri problemi più pressanti, ma un giorno si tornerà a parlare di riforme costituzionali?
«La priorità è il taglio del numero dei parlamentari e l'inserimento del vincolo di mandato. Teoricamente il taglio dei parlamentari potrebbe essere approvato immediatamente con larga maggioranza. Mi immagino una legislatura costituente, anche perché sulle riforme di cui il Paese ha estremo bisogno le porte sono aperte a tutti. Anche all'opposizione».







