(Totaleu)
Lo ha detto il Presidente di Unipol Carlo Cimbri in occasione del convegno «Il contributo delle assicurazioni alla competitività europea», che si è svolto al Parlamento Ue.
Lo ha detto il Presidente di Unipol Carlo Cimbri in occasione del convegno «Il contributo delle assicurazioni alla competitività europea», che si è svolto al Parlamento Ue.
Settimana negativa per i mercati globali, colpiti da un mix di tensioni macro, dubbi sulle mosse delle banche centrali e segnali di rallentamento dalla Cina. I listini europei hanno chiuso in rosso, mentre Piazza Affari si è distinta in negativo. A pesare: vendite diffuse su bancari e titoli ciclici, con pochi nomi capaci di resistere.
Le incertezze su un possibile taglio dei tassi da parte della Fed a dicembre, dopo due riduzioni nel 2025, hanno raffreddato l’entusiasmo degli investitori. Alcuni membri del Fomc, tra cui Neel Kashkari, hanno mostrato scetticismo sul proseguimento della fase accomodante, rimarcando un’inflazione ancora lontana dal target. La probabilità implicita di un taglio si è ridotta sotto il 50%. Allo stesso tempo, prende corpo l’idea che la corsa dei titoli legati all’Intelligenza artificiale stia gonfiando una nuova bolla. Anche i dati macro cinesi hanno deluso: a ottobre, produzione industriale (+4,9%) e vendite al dettaglio (+2,9%) sono cresciute meno del previsto, mentre gli investimenti fissi sono scesi dell’1,7%.
Piazza Affari ha chiuso la seduta del 14 novembre in calo dell’1,7%, a 43.994 punti, segnando la peggiore performance in Europa. A pesare sono stati soprattutto i bancari: Unicredit ha perso il 4,45%, Bper il 3,81%, Banco Bpm il 3,27%, Intesa il 3,09%. Unica eccezione Mediobanca (+0,56%). Le prese di profitto hanno colpito un settore reduce da un lungo rally, penalizzato anche dalle incertezze sui tassi. Tra gli industriali, Stellantis ha ceduto circa il 3%, Leonardo l’1,9%, Saipem l’1,8%, Prysmian l’1,2%, Ferrari l’1%, Stm il 2%. Brembo ha perso oltre il 2%. Male anche i consumer: Diasorin -2%, Campari -1,7%, Moncler -1,9%, Hera -1,2%, Poste -0,2%. Italgas ha ceduto lo 0,2%. Si sono difese meglio le utility. Enel, dopo una trimestrale solida, ha chiuso poco mossa. Snam ha guadagnato lo 0,67%, Terna è salita dell’1,03% spinta da risultati e obiettivi per il futuro migliorati. In rialzo anche Azimut (+3,5%) dopo le recenti tensioni regolamentari. Bene Recordati (+1,34%) e Telecom Italia (+0,65%).
Fuori dal Ftse Mib, spiccano i rialzi di PharmaNutra (+3,1%), Cembre (+2,9%) e GVS (+2,6%), grazie a trimestrali solide. Sul versante opposto, cadute pesanti per Rai Way (-7,8%), WIIT (-5,7%) e Reply (-5,6%), penalizzate da risultati sotto le attese. Erg ha perso il 3,5%. Le altre Borse europee hanno seguito Milano, seppure con ribassi meno ampi. Il Dax ha chiuso a -0,7% (23.877 punti), il Cac 40 a -0,76%, il Ftse 100 britannico a -1,11% (9.698 punti). A Londra, pesa la retromarcia fiscale del governo di Keir Starmer (insieme alla ministra delle Finanze, Rachel Reeves), che ha rinunciato all’aumento dell’imposizione sul reddito, alimentando dubbi sulla tenuta dei conti. Fitch ha avvertito che il rispetto delle regole fiscali sarà cruciale per mantenere il rating.
Negli Stati Uniti, dopo un’apertura debole, i listini hanno recuperato: nella serata europea di ieri il Nasdaq era in salita a +0,8%, l’S&P 500 invariato e il Dow Jones -0,2%. Il mercato resta diviso tra chi sconta un rallentamento dell’economia e chi teme tassi troppo alti per troppo tempo. In Asia, giornata ugualmente molto negativa: Tokyo -1,76%, Kospi -3,8%, Hang Seng -1,8%, Shanghai -1%, Shenzhen -1,3%. Il sentiment resta fragile e reattivo ai dati macro e alle dichiarazioni delle banche centrali. Sul mercato delle materie prime, l’oro ha perso l’1,5% a 4.108 dollari/oncia. Il petrolio è salito di oltre il 2% grazie a tensioni geopolitiche. Sul fronte obbligazionario, lo spread Btp-Bund è sceso a 82 punti base, con il rendimento del decennale italiano al 3,45%, segno di fiducia sui conti pubblici.
La volatilità resta insomma elevata. Gli operatori attendono segnali più chiari da parte della Fed e nuovi dati su inflazione e lavoro per ricalibrare le attese. Piazza Affari paga la sua esposizione ai titoli più sensibili al ciclo, mentre gli investitori si rifugiano in settori difensivi. In assenza di svolte macro, l’ultimo trimestre dell’anno si preannuncia all’insegna della cautela, con volumi più selettivi e una maggiore attenzione alla qualità dei bilanci. In questo contesto gli strategist ricordano che le prossime settimane saranno decisive per capire se la correzione resterà un fisiologico aggiustamento delle valutazioni o l’avvio di una fase più strutturale di risk-off. Molto farà la traiettoria dei rendimenti governativi e la capacità di Cina ed Eurozona di evitare un ulteriore rallentamento: solo segnali convincenti su crescita e prezzi potranno riportare fiducia stabile sui listini.
Erano quasi le 17 del 12 marzo 2020 quando Christine Lagarde, nella sua prima conferenza stampa da presidente della Banca centrale europea, pronunciò dieci parole destinate a entrare nei libri di economia. O, più realisticamente, nei faldoni della cattiva coscienza: «Non è compito della Bce quello di chiudere gli spread» disse l’ex direttrice del Fondo monetario chiamata a sostituire Mario Draghi su pressante indicazione di Nikolas Sarkozy. Bastarono pochi minuti: lo spread italiano volò a 253 punti, la Borsa perse il 17% e il nostro Paese - già alle prese con un virus invisibile e un debito molto visibile - si trovò abbandonato in mezzo alla tempesta. Tutto in nome dell’ortodossia. Cinque anni dopo, a Francoforte, stesso palcoscenico: la conferenza stampa che segue la riunione del direttivo Bce. Partono le domande. I tassi d’interesse? Inalterati al 2%, come ampiamente previsto. L’inflazione? In calo, ma «intorno» al target del 2%. I mercati? Sereni, tutto sommato. E la Francia? Con molta prudenza il capo della Bce chiama una vecchia conoscenza: lo scudo anti spread. Quello che nel 2020 sembrava una parola impronunciabile (anche se Mario Draghi l’aveva sdoganata con il quantitative easing) oggi è diventato uno strumento a disposizione visto che il debito da salvare non è italiano ma francese.
Christine Lagarde - sempre con un look impeccabile - questa volta si è mostrata ben disposta. Lo ha fatto con classe, certo: niente dichiarazioni roboanti, nessun colpo di teatro. Ma tra un «siamo in una buona posizione» e «decideremo riunione per riunione», è scivolata una frase che vale più di mille tagli ai tassi: «La Bce ha tutti gli strumenti necessari, se la trasmissione della politica monetaria dovesse incepparsi». Se serve, interverremo per difendere gli Oat, versione parigina dei nostri Btp. I mercati applaudono. Milano +0,89%, Londra sale dello 0,78%, Francoforte avanza dello 0,34% e a Parigi dello 0,80%. L’euro si è rimesso in carreggiata (1,1734 sul dollaro), e perfino l’inflazione americana – in risalita al 2,9% – non ha smontato le scommesse su un possibile taglio dei tassi da parte della Fed. Lagarde garantisce che nel direttivo di ieri non si è parlato del «Transmission protection instrument», ultima versione dello scudo salva spread lanciato nel 2022. Ufficialmente non era all’ordine del giorno. Ma se anche l’avessero evocato sarebbe stato come Voldemort: senza nominarlo, ma tremando un po’.
Del resto, la situazione lo richiede: la politica francese è terremotata, i conti pubblici traballano, il debito preoccupa ed Emmanuel Macron sta facendo stretching istituzionale. E allora, in un sussulto di prudenza (e di pragmatismo), ecco la Bce pronta a tendere la mano. Soprattutto adesso che i titoli francesi rendono un po’ di più di quelli greci (3,4% contro 3,3%) e il differenziale con l’Italia si è quasi azzerato. Segno che i mercati ritengono Parigi più rischiosa di Atene e Roma.
Peccato che, nel marzo 2020, quando i mercati scaricavano i titoli di Stato italiani come fossero volantini del televoto, quella mano restò in tasca. Allora, il problema era il «moral hazard», il rischio di mandare il messaggio sbagliato. «L’Italia deve fare i compiti a casa» era il ritornello.
Oggi, invece, lo spread francese si allarga, e subito la Bce si fa morbida. Sarà che in Francia si parla la lingua madre di Christine, sarà che Parigi pesa politicamente più di Roma, sarà che nessuno vuole un’altra crisi nel cuore dell’Europa mentre già ci sono abbastanza incendi in giro per il mondo - ma il cambio di tono è palpabile. E beffardo.
Christine Lagarde ha confermato: i tassi restano fermi. La Bce è «in una buona posizione». L’inflazione è vicina all’obiettivo, quella core - senza cibo ed energia, per non farsi impressionare - è in discesa. Il mercato del lavoro regge, gli accordi commerciali con gli Stati Uniti, seppur onerosi, hanno evitato nuove guerre sui dazi e le previsioni di crescita per il 2025 sono state addirittura riviste al rialzo.
Una pace apparente. Anche perché il 2026, guarda caso, si preannuncia più grigio: crescita limata all’1%, inflazione stimata in calo all’1,7%.
Insomma, tutti sono contenti. Tranne forse chi ha buona memoria.
Ora è la Francia il «sorvegliato speciale» dell’Eurozona. Non l’Italia. Paradossale, se si pensa a quanti rimproveri ha ricevuto Roma tra raccomandazioni, procedure d’infrazione sventate e lettere minatorie scritte in burocratese da Bruxelles. Ma ora, all’improvviso, il rischio sistemico ha cambiato indirizzo. E il fatto che la Bce sia pronta a «fare tutto il necessario» - purché necessario a Parigi - la dice lunga su come certi equilibri restino asimmetrici.
Perché se la speculazione attacca Roma, si invoca la responsabilità fiscale. Se scricchiola Parigi, c’è lo scudo.
«Il vertice di venerdì prossimo a Bruxelles sarà un’ultima chiamata per la Commissione Ue. Le case automobilistiche e i fornitori metteranno la presidente Ursula von der Leyen di fronte a un bivio: prendere o lasciare. Il settore non si accontenterà più di generiche dichiarazioni come è stato all’incontro di marzo scorso. Siamo pronti a scendere in piazza a Bruxelles, con una manifestazione che coinvolgerà tutti gli attori dell’automotive». Il presidente dell’Anfia (filiera dell’auto), Roberto Vavassori, va dritto al punto. Senza tanti giri di parole sciorina le richieste che la filiera automotive metterà sul tavolo all’incontro con la Commissione: flessibilità nelle scadenze della transizione ecologica 2030-2035, neutralità tecnologica e fondi per incentivare gli acquisti di veicoli Made in Europe.
Sarà un ultimatum?
«Da Ursula von der Leyen, il comparto vuole la concretezza di rivedere le norme sulla decarbonizzazione nel segno delle flessibilità rispetto agli obiettivi che ci siamo dati al 2035, con contenuti e date. Non siamo contro l’elettrico, non disconosciamo l’obiettivo di decarbonizzare il settore, ma servono tempi diversi. E soprattutto chiediamo di contrastare la concorrenza, a cominciare da quella cinese ad armi pari. Questo significa incentivi all’acquisto di veicoli elettrici e ibridi che siano Made in Europe. I prodotti locali vanno premiati. È il momento di far riguadagnare centralità e competitività all’automotive europeo. I nostri prodotti vanno premiati. Come negli Stati Uniti dove se un veicolo non ha almeno il 75% di contenuto del Nord America è soggetto a tariffe».
Volete quindi arrivare a colpire con tariffe sul modello americano, l’auto extra Ue?
«Non è questo ciò che chiediamo ma vogliamo che il local content venga premiato rispetto alle importazioni. Un veicolo assemblato in Europa con componenti soprattutto europei deve avere una valorizzazione. Questo deve tener conto dell’accordo raggiunto di recente con gli Stati Uniti che dà il via libera ai veicoli assemblati negli States e quindi non si può usare nei rapporti Ue-Usa».
Quindi non volete rinunciare alla decarbonizzazione?
«No ma invece di guardare al 2035 consideriamo che il parco circolante ha un’età media di oltre 12 anni. Abbiamo un stock di circa 800 milioni di tonnellate di CO2 l’anno che potremmo aggredire con un piano europeo di aiuto allo svecchiamento dei veicoli tramite sussidi. In questo modo si potrebbero recuperare quei 3 milioni di veicoli che mancano di produzione e vendite rispetto al pre Covid. Un piano che premia solo i veicoli europei. Le case automobilistiche avrebbero così i fondi necessari per continuare a fare ricerca e darsi l’obiettivo del 2035 di studiare prodotti e tecnologie alternative rispetto a quelle cinesi».
Lei è convinto che con gli incentivi si riuscirà ad abbattere la concorrenza cinese?
«Ne sono convinto. Noi vogliamo continuare ad essere in competizione ma con una perequazione con i sussidi che le case cinesi hanno avuto dallo Stato. Se una casa cinese vuole conquistare l’Europa, venga qui a produrre, così come hanno fatto i giapponesi a suo tempo. Il più grande stabilimento francese di auto è Toyota. Questo per dire che ci sono altri sistemi più efficaci per mantenere la competizione».
La Byd dice che l’Italia è nella short list per la seconda fabbrica europea.
«L’Anfia ha realizzato mesi fa 170 confronti tra funzionari cinesi e i nostri fornitori. Ora stiamo lavorando per trasformare quei contatti in contratti. È fondamentale però avere costi di energia competitivi e aprire a sistemi di ibridizzazione magari alimentati con carburanti di natura non fossile. L’incontro di venerdì a Bruxelles, in cui verranno elencati questi punti, è un prendere o lasciare. Non abbiamo tempo per dichiarazioni vuote come lo scorso marzo».
E se venerdì dovesse ripresentarsi il copione di sempre?
«Se non ci saranno risultati concreti andremo oltre. Così rischiamo di perdere 13 milioni di lavoratori».
Che significa andremo oltre?
«Significa, come sento dai colleghi, spagnoli, francesi, tedeschi e italiani, organizzare una serie di manifestazioni a Bruxelles con decine di migliaia di lavoratori, imprenditori e manager, per reclamare l’attenzione su un settore che vale il 7% del Pil europeo e 400 miliardi di entrate l’anno, come fatto per l’agricoltura».
Che ne è stata della gigafactory di Termoli?
«Di quante batterie abbiamo bisogno oggi? Poche. Installare oggi una gigafactory a Termoli sarebbe come mettere una serie di caricatori ad alto voltaggio nel deserto. Stellantis per ora si è dotata attraverso di una gigafactory in Spagna ritenuta al momento sufficiente per il fabbisogno. Sono tranquillo che nel momento in cui il mercato lo richiede la gigafactory nel nostro Paese si farà».
Quale è stato il risultato dell’incontro con il ministro del Made in Italy Adolfo Urso e l’ad di Stellantis, Antonio Filosa?
«Ci siamo proposti di continuare a verificare che le tappe del piano Stellantis vengano conseguite e di fare un tagliando di dove siamo. La nostra catena di fornitura è sotto pressione per mancanza di volumi, perché si stanno rifacendo i modelli, situazione molto critica che va monitorata. Volumi produttivi bassissimi».
L’attacco notturno di Israele all’Iran ha provocato un aumento istantaneo dei prezzi del greggio, con il Brent che sui mercati ha fatto registrare un guadagno del 13% sino a 78,53 dollari al barile, per poi ripiegare attorno ai 74 dollari al barile, pari a +6% circa rispetto al giorno precedente. Anche il riferimento americano, il greggio WTI, è salito sino a 74,63 per ripiegare poi attorno ai 70,5 dollari al barile (+5,57%).
I prezzi salgono perché l’Iran ricopre un ruolo chiave nel mercato mondiale del petrolio. Non solo perché è un grande produttore, ma anche per la sua posizione geografica. L’Iran, infatti, controlla l’ingresso del Golfo Persico, lo stretto di Hormuz, attraverso cui, via nave, passa circa un terzo delle forniture petrolifere mondiali via mare. Gli attacchi di Israele rilanciano la vecchia questione del tipo di reazione iraniana. Teheran potrebbe bloccare il collo di bottiglia rappresentato dallo stretto, condizionando così tutto il mercato mondiale del greggio?
Intanto, sappiamo che l’attacco di Israele non ha toccato le infrastrutture petrolifere iraniane. Dunque nell’immediato non c’è un effetto concreto sulla produzione di petrolio del Paese. Tuttavia, è evidente che la situazione di tensione nell’area rende il mercato molto nervoso. Un nuovo attacco israeliano o un prolungamento del conflitto potrebbe avere effetti diretti sulla produzione iraniana.
I fatti dell’altra notte si collegano con quanto accaduto negli ultimi due mesi nel mercato petrolifero. Quando due mesi fa l’Arabia Saudita aveva deciso di forzare la mano e aumentare la produzione del cartello OPEC+, molti rimasero sorpresi per via dell’eccesso di offerta che aleggiava sul mercato, portando con sé il rischio di un calo robusto dei prezzi.
Si disse che con questa mossa, l’Arabia Saudita, il dominus del cartello di produttori di petrolio, intendeva spiazzare le costose produzioni americane ottenute con la tecnica del fracking, abbassando i prezzi per occupare quote di mercato. Ma i fatti della notte tra giovedì e venerdì spingono a guardare alle scelte arabe sotto un’altra luce.
A Riad, evidentemente, sapevano con ampio anticipo che un attacco all’Iran era imminente, e che questo avrebbe spinto verso l’alto i prezzi, perché la produzione iraniana potrebbe calare o fermarsi del tutto in caso di attacchi massicci. In quel caso, gli aumenti della produzione già decisi dai paesi OPEC+ possono compensare i flussi iraniani, al contempo facendo salire i prezzi stabilmente sopra una certa soglia. Lo stesso presidente americano Donald Trump vorrebbe che gli USA esportassero più petrolio, con il suo slogan Drill, baby, drill. I produttori americani si sono dimostrati scettici sinora, per i timori sui prezzi, ma se la produzione iraniana si riduce o si blocca, ecco che c’è spazio anche per una maggiore produzione statunitense, con prezzi più alti. Con le quotazioni cresciute di 5-7 dollari al barile, tutti, anche gli americani con il loro shale oil, possono produrre con un certo agio.
Lo stesso Trump ieri ha definito i raid israeliani contro l’Iran «ottimi per il mercato», sostenendo che impediranno a Teheran di ottenere l’arma nucleare. «Dovrebbe essere la cosa migliore di sempre per il mercato. L’Iran non avrà un’arma nucleare che rappresentava una grande minaccia per l’umanità».
Dunque, i sauditi sapevano, o quantomeno davano come ampiamente probabile un attacco israeliano. Negli ultimi giorni, in effetti, sui mercati petroliferi vi erano già segnali di rialzo ed erano aumentate le posizioni in acquisto. Il maggior acquirente di petrolio iraniano è la Cina. Esiste da anni un embargo occidentale sulle esportazioni di greggio dall’Iran, ma questo riesce comunque ad avere un mercato grazie a flotte fantasma e a travasi tra petroliere, fino al grande paese asiatico. L’attacco di Tel Aviv a Teheran ha insomma conseguenze anche per Pechino.
Teheran potrebbe davvero bloccare il traffico marittimo nello Stretto di Hormuz? Il braccio di mare è largo 34 kilometri nel punto più stretto, ma le corsie di navigazione occupano solo 3 km in ciascuna direzione. La chiusura della via d’acqua sarebbe un gesto estremo da parte di Teheran, che provocherebbe certamente una reazione diretta della Marina degli Stati Uniti, che in zona ha la Quinta flotta. Più probabili sarebbero attacchi diretti alle petroliere, come avviene a sud della Penisola Arabica, nello stretto di Bab el Mandeb dove gli Houti, appoggiati dall’Iran, insidiano il traffico marittimo da e verso lo stretto di Suez. In seguito ai precedenti rialzi di due giorni fa, il prezzo della benzina alla pompa era già salito, ma da lunedì è possibile che i listini saranno rivisti al rialzo in maniera sostanziale.
In Europa il gas sul mercato TTF è salito di circa il 6% con un massimo a 38,5 euro per megawattora. Poi ha chiuso a 37,894 (+4,75%). Anche l’oro è salito a 3.468 dollari l’oncia, vicino al record di 3.509 di fine aprile.
Non bene le borse. Negli Stati Uniti, l’indice S&P 500, il Dow Jones Industrial e il Nasdaq Composite hanno perso tutti oltre l’1%. L’indice tedesco, il Dax, ha perso fino all’1,7%. A Parigi, il CAC40 ha perso oltre l’1%, Milano ha fatto segnare un calo dell’1,5%. In Giappone, il Nikkei ha chiuso con una perdita dello 0,9%.
Russia, Cina e Turchia con l’Iran, l’Occidente con Israele: possiamo sintetizzare così le reazioni internazionali all’attacco di ieri. Partiamo dall’Europa: ieri pomeriggio il primo ministro britannico Keir Starmer, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il presidente francese Emmanuel Macron, dopo una conversazione telefonica a tre, hanno diffuso un appello congiunto a evitare ogni «ulteriore escalation». «I tre leader», fa sapere Downing Street, «hanno discusso delle gravi preoccupazioni che da tempo gravano sul programma nucleare iraniano, sollecitando tutte le parti a trattenersi da ogni ulteriore escalation che potrebbe destabilizzare ulteriormente la regione». I tre leader hanno parlato al telefono con Benjamin Netanyahu, che ha avuto colloqui anche con il primo ministro indiano Narendra Modi, e il suo ufficio ha fatto sapere che sentirà anche Vladimir Putin. Poi Macron ha fatto sapere che è pronto a partecipare ad operazioni per difendere Israele. Ed ha confermato il rinvio della Conferenza Onu sui 2 Stati, «ma», ha precisato, «resta intatta la nostra determinazione per questa soluzione». «Le notizie che giungono dal Medio Oriente», ha scritto su X la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, «sono profondamente allarmanti. L’Europa esorta tutte le parti a dare prova della massima moderazione, a ridurre immediatamente l’escalation e ad astenersi da ritorsioni». L’Iraq ha presentato un reclamo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, condannando la violazione del suo spazio aereo da parte di Israele e per compiere attacchi militari contro l’Iran. A proposito di Onu, l’Iran ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza, e il Segretario generale Antonio Guterres ha condannato «qualsiasi escalation militare in Medio Oriente» e si è detto «particolarmente preoccupato per gli attacchi israeliani contro installazioni nucleari in Iran». Guterres ha ribadito «l’obbligo degli Stati membri delle Nazioni Unite ad agire in conformità con la Carta dell’Onu e il diritto internazionale». Molto dura la reazione della Russia: «La responsabilità di tutte le conseguenze di questa provocazione», ha scritto il ministero degli Esteri di Mosca, «ricadrà sulla leadership israeliana. Condanniamo inoltre l’isteria anti-iraniana provocata dagli Stati occidentali che hanno sostenuto nell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) una risoluzione punitiva contro l’Iran». Poi Putin si è proposto come mediatore con Netanyahu. Tali Stati, aggiunge il ministero degli Esteri russo, «devono riconoscere i risultati disastrosi del loro corso distruttivo e la portata della colpa che ricade su di loro per la tragedia». Da Mosca a Pechino, la Cina ha affermato di essere «fortemente preoccupata» per le conseguenze degli attacchi israeliani all’Iran, condannando le violazioni della sovranità di Teheran.
Allo stesso tempo, ha sottolineato il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian, Pechino si offre per svolgere «un ruolo costruttivo» e contribuire ad allentare le crescenti tensioni. «La Cina è profondamente preoccupata per le gravi conseguenze che tali azioni potrebbero comportare», ha aggiunto Lin, esortando «le parti interessate ad adottare misure che promuovano la pace e la stabilità nella regione evitando un’ulteriore escalation delle tensioni». L’Arabia Saudita ha definito «l’attacco odioso» di Israele «una chiara violazione del diritto internazionale». Durissino il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il governo israeliano, ha scritto Erdogan su X, vuole provocare «instabilità nella nostra regione. Per questo, gli attacchi di Netanyahu e della sua rete di massacri, che stanno incendiando l’intera regione e il mondo, devono essere prevenuti. Gli attacchi di Israele contro il nostro vicino Iran sono una chiara provocazione che viola il diritto internazionale. L'amministrazione Netanyahu», ha aggiunto Erdogan, «sta cercando di trascinare la nostra regione e il mondo intero nel disastro con le sue azioni sconsiderate, aggressive e illegali. La comunità internazionale deve porre fine al banditismo israeliano che colpisce la stabilità globale e regionale».

