- L'ex procuratore «smemorato» sui contratti di lavoro del fratello avvocato e sui rapporti con 5 indagati dal suo stesso ufficio. Giovanni Salvi, titolare dell'azione disciplinare sul pm Stefano Fava, dovrà adesso rivedere gli atti di quando era pg della Capitale.
- «Area sbaglia sull'audio, è a Strasburgo da 5 anni». Niccolò Ghedini, il difensore di Silvio Berlusconi: «Le toghe progressiste non sanno di che cosa parlano. Grave interferenza con il nostro ricorso».
Lo speciale comprende due articoli.
Il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi, quando ricopriva l'incarico di Pg della Corte d'appello di Roma sembra essersi bevuto più di un'amnesia del già procuratore di Roma Giuseppe Pignatone che, prima di andare in quiescenza, gli comunicò solo qualche profilo di potenziale incompatibilità in alcuni fascicoli scottanti che la Procura di Roma stava trattando. In un provvedimento datato 9 aprile 2019 Salvi, infatti, valutò: «Va solo conclusivamente rilevato che il dottor Pignatone rappresentò correttamente a questo ufficio tutti i profili di potenziale incompatibilità di sua iniziativa e non appena ne venne a conoscenza informandone peraltro i magistrati del suo ufficio». Un'affermazione, contenuta in un documento ufficiale, che, però, appare cozzare con una serie di evidenze.
Il fratello di Pignatone, l'avvocato Roberto, è stato consulente di almeno tre indagati coinvolti (anche se Salvi nei suoi scritti dà atto che sono due) in un fascicolo del suo ufficio, quello sulla corruzione al Consiglio di Stato, con al centro la figura del faccendiere Piero Amara (oltre che per Amara, lavorò come consulente per Ezio Bigotti e per Pietro Balistreri). Inoltre Pignatone aveva rapporti personali, come da lui stesso ammesso, con altri due indagati, Riccardo Virgilio, ex presidente di una sezione del Consiglio di Stato, e il lobbista Fabrizio Centofanti. In tutto, quindi, lui e il fratello avevano incrociato cinque indagati dell'inchiesta sulle sentenze comprate. Qualche informazione però non sembra essere arrivata in Procura generale. Il 19 marzo 2019, infatti, Pignatone scrisse al pm Stefano Fava (autore di un esposto al Csm sui presunti conflitti d'interesse del suo capo, dal quale è scaturito un procedimento disciplinare a carico dello stesso Fava): «Ribadisco quanto affermato durante la riunione del 5 corrente mese con i colleghi (...) e cioè di essere sicuro di aver informato la signoria vostra a suo tempo, e cioè nella seconda metà del 2016 quando divennero oggetto di indagini Amara ed Ezio Bigotti, dell'esistenza di rapporti professionali peraltro già cessati tra il Bigotti e mio fratello avvocato Roberto Pignatone». E proprio in quella comunicazione sottolineò che «di tutto era stato informato tempestivamente il procuratore generale». Ovvero Salvi. «Che», aggiunse Pignatone, «con suo provvedimento del 3 luglio 2017 ha ritenuto che non ci fosse alcun elemento che rendesse opportuna, o tanto meno necessaria, la mia astensione». Qualcosa, però, sembra non tornare. Nella richiesta di astensione datata 17 maggio 2017 Pignatone affermò che «in epoca di poco successiva (all'arresto del fratello di Centofanti, avvenuto il 4 maggio 2016, ndr) sono emersi a carico di Fabrizio Centofanti indizi di reità (...). Subito dopo l'estate 2016 la figura di Centofanti è emersa in altro procedimento penale». Ma Pignatone, per quanto riguarda Centofanti, avrebbe dovuto essere informato già a maggio 2016, e per gli altri indagati dalla seconda metà del 2016. Ha inoltrato la richiesta di astensione, però, il 17 maggio 2017, dopo aver adottato atti proprio nei confronti di Amara: assegnò un'informativa di reato che riguardava Amara e Bigotti il 14 novembre 2016 e, il 19 dicembre 2016, coassegnò a più sostituti il procedimento che riguardava Amara. Ma c'è ancora qualche tassello fuori posto. Nella richiesta di astensione del 26 marzo 2019 Pignatone comunicò: «Aggiungo per precisione che dai controlli eseguiti è risultato che la prima iscrizione nel registro degli indagati per Amara è avvenuta in data 16 gennaio 2017 e per Bigotti in data 19 gennaio 2017, mentre le operazioni di intercettazione nei loro confronti sono cominciate rispettivamente il 24 novembre 2016 e il 30 gennaio 2017». In realtà, Amara è stato iscritto il 18 novembre 2016. Come poteva essere intercettato dal 24 novembre 2016 senza essere stato iscritto come indagato? Il nome di Centofanti, insomma, arrivò a Pignatone già nel maggio 2016 ma la richiesta di astensione risale al 17 maggio 2017. Il 26 marzo 2019, poi, chiese di nuovo di astenersi, allegando un progetto di parcella emesso dal fratello nei confronti della Nico Spa, «riconducibile al Bigotti», scrisse Pignatone. In realtà la Nico è riconducibile a un altro indagato: Balistrieri, anche lui cliente dell'avvocato Amara. La società di Bigotti era invece la Sti (che ha conferito incarichi al fratello Roberto). Pignatone, quindi, non ha comunicato al Pg che Balistrieri aveva conferito incarichi al fratello. E lo stesso sembra aver fatto per Virgilio, sebbene ne diede comunicazione ai suoi sostituti. Del rapporto con Centofanti ha riferito con un anno di ritardo; dei rapporti di suo fratello con Amara ha riferito con circa otto mesi di ritardo. E infine non ha mai comunicato al pg di avere adottato atti nei confronti di Amara in costanza dei rapporti che l'avvocato intratteneva con il fratello. E Salvi? Con il cambio di ruolo è diventato titolare dell'azione disciplinare su Fava. E sarà costretto a riguardare i suoi stessi atti. Da controllore e da controllato.
«Area sbaglia sull’audio, è a Strasburgo da 5 anni»
L'avvocato di Silvio Berlusconi, Niccolò Ghedini, è rimasto esterrefatto dal comunicato delle toghe progressiste di Area là dove scrivono che «la vicenda delle confessioni postume del Giudice Amedeo Franco al suo imputato ha profili torbidi ed inquietanti» e che «la registrazione, della quale è ignoto il contesto e non è stata appurata la genuinità e l'integralità, viene divulgata a molti anni di distanza, dopo la morte del giudice Franco, in un contesto che appare favorevole ad accreditare qualsiasi ignominia per screditare e delegittimare i magistrati e la giurisdizione».
«Non sanno neanche cosa dicono» si scalda Ghedini. «Prospettano che la registrazione sia inveritiera. Se quella registrazione è falsa lo appurerà la Corte europea per i diritti dell'uomo, mica loro. Ma perché dovrebbe esserlo? Non c'è ragione. Quelli di Area fanno un errore di fondo: le registrazioni di Franco sono nella disponibilità della Corte europea da cinque anni. È una cosa gravissima che la magistratura italiana voglia intervenire su un atto procedimentale di un'autorità sovranazionale. Berlusconi ha accettato la condanna, ha scontato la pena a Cesano Boscone, non ha rotto le scatole a nessuno. Semplicemente ha portato all'attenzione del giudice sovranazionale il fatto che a suo parere, e a parere dei suoi difensori, non ha avuto un giudice super partes. Tra le tante cartucce a sua disposizione aveva una registrazione dove uno dei giudici dice che il giudizio non è stato imparziale. Se sia vero lo deciderà la Corte europea, mica i giudici italiani…».
Avete approfittato del clima anti toghe creato dal caso Palamara per fare la denuncia?
«Non c'entra un tubo. Glielo ripeto, quella cosa lì era depositata da cinque anni. Nelle scorse settimane abbiamo fatto l'ennesimo sollecito, come ogni sei-sette mesi. Dopodiché, in un momento in cui c'è molta attenzione sulle questioni legate alla magistratura, un giornalista attento ha recuperato gli atti del nostro procedimento, visto che le carte depositate alla Corte europea sono tutte pubbliche. Per questo le insinuazioni di Area sono una follia. Hanno sempre detto che Berlusconi non voleva farsi processare e Berlusconi è stato processato. Noi a quell'epoca avremmo potuto tirare fuori le registrazioni quando Berlusconi era in affidamento in prova ai servizi sociali, ma lui non ha voluto. Così le abbiamo prodotte davanti alla Corte europea e Franco era ancora vivissimo quando gli atti sono andati alla Cedu».
Quindi le trascrizioni non le avete tirate fuori solo adesso che Franco è morto?
«Adesso abbiamo depositato l'audio. Noi abbiamo dato fin dall'inizio la disponibilità delle trascrizioni e abbiamo detto alla Corte europea: se volete le registrazioni sono qui. La memoria aggiuntiva di aprile riguardava al 90% la sentenza civile che ci ha dato recentemente ragione. Dopodiché abbiamo detto: comunque ricordatevi la vicenda del giudice Franco che purtroppo è deceduto e non l'avete sentito. E a questo punto gli abbiamo dato anche l'audio. Certo se l'avessero convocato prima avrebbero potuto ascoltare la sua versione dalla sua viva voce».
Dunque la Corte europea per i diritti dell'uomo aveva da anni la possibilità di visionare questo materiale?
«Avevamo solo chiesto che le trascrizioni non fossero rese pubbliche, ma erano narrate all'interno dell'atto a disposizione del giudice naturale precostituito per legge, che poteva quindi in qualsiasi momento prenderne visione. Ed era a disposizione anche dell'autorità italiana perché il governo italiano viene informato sempre delle carte depositate».
Le due donne che hanno aiutato Berlusconi a registrare il giudice Franco, e le cui voci si sentono distintamente negli audio, sono state identificate?
«Credo si tratti di due povere segretarie. Ma non so proprio chi fossero».
«Il dibattito sulle intercettazioni e sulle necessità di riforme a tutela della privacy dei cittadini si riaccende ciclicamente a ogni occasione in cui un'inchiesta giudiziaria getta una luce su quel sottobosco di malaffare, di connivenze e collusioni nella gestione delle funzioni pubbliche, che purtroppo è una costante della nostra società. A leggere le dichiarazioni di alti esponenti politici, però, sembra che il problema non sia la corruzione. Il problema sono le intercettazioni (...)
(...) e i magistrati che le dispongono». Chi lo ha detto? Il coordinamento nazionale di Area, la corrente più a sinistra della magistratura, ma non ieri: qualche anno fa. Quella stessa Area e quello stesso coordinamento che l'altro ieri ha diffuso un comunicato per stigmatizzare la diffusione sulle pagine dei giornali di registrazioni che hanno per protagonisti i magistrati. Già, mentre fino a ieri il problema non erano le intercettazioni, ma il malcostume della classe politica, adesso che nel bel mezzo delle confessioni carpite all'insaputa dei protagonisti ci sono le toghe e il loro malcostume, Area s'indigna e parla di «un contesto che appare favorevole ad accreditare qualsiasi ignominia per screditare e delegittimare i magistrati e la giurisdizione». La corrente progressista dei giudici, quella per intenderci che ai tempi di Silvio Berlusconi si lamentava della limitazione agli ascolti delle conversazioni ed era contraria a ogni norma che contenesse la libertà di pubblicazione dei brogliacci d'indagine, ora che al centro dello scandalo ci sono le toghe si lamenta e reclama il diritto alla privacy, perché la pubblicazione di certe frasi minaccia nientepopodimeno che l'autonomia e l'indipendenza della magistratura.
Sì, Area si duole per la propalazione delle chat telefoniche di Palamara e compagni, perché «effettuata in modo strumentale da una parte compiacente della stampa». Ma come, i magistrati democratici non erano quelli che sostenevano il movimento «Intercettateci tutti» per chiarire che loro, così come la parte migliore della società, ovviamente quella di sinistra, non avevano nulla da nascondere? E allora che problema c'è se oggi, per effetto di un'indagine giudiziaria, si disvela «il sottobosco di malaffare, di connivenze e di collusioni» che riguarda i magistrati, le loro carriere e le loro appartenenze? In fondo, i giudici sono cittadini come gli altri, soggetti alla legge al pari di politici e imprenditori, e dunque soggetti anche alle intercettazioni e, di conseguenza, una volta che siano trascritte e depositate, anche alle conseguenze della loro pubblicazione. O forse le toghe di sinistra pensano che i magistrati siano cittadini più uguali degli altri, e dunque debbano godere di un trattamento speciale che vieta la pubblicazione delle loro parole?
Eppure, qualche anno fa la stessa Area che oggi si scandalizza perché frasi imbarazzanti finiscono in prima pagina, si dimostrava stupita che la classe politica non capisse come il dramma del nostro Paese fosse il degrado etico e non le indagini che lo svelavano. «Insomma», scriveva il coordinamento nazionale «il problema non è la malattia, ma il medico che fa la diagnosi (o lo strumento tecnico che consente di farla)». All'epoca, la sinistra giudiziaria «respingeva con fermezza» ogni limitazione all'uso delle intercettazioni e pure ogni legge che ne impedisse la divulgazione. Perché, scrivevano i giuristi progressisti, è vero che le intercettazioni sono uno strumento invasivo, che colpisce la sfera privata dei soggetti coinvolti, ma «ci piacerebbe discuterne quando un'indagine penale disvela indebitamente le abitudini sessuali di un terrorista, di un mafioso o di un trafficante di droga, piuttosto che le debolezze private di un ministro della Repubblica». Ogni riferimento a Silvio Berlusconi era ovviamente intenzionale, per dire che in fondo la privacy violata era quella del presidente del Consiglio e dunque non c'era da allarmarsi troppo. Poi però è venuto il trojan, che ha rivelato la «modestia etica» di certa magistratura (la definizione non è farina del mio sacco, ma quella di Sergio Mattarella, presidente oltre che della Repubblica anche del Consiglio superiore della magistratura), ed ecco che improvvisamente la corrente di sinistra delle toghe scopre che la documentazione raccolta dalla Procura di Perugia, una volta pubblicata, presenta l'immagine di una magistratura che ricorre «a prassi inaccettabili, frutto di una trama di schieramenti cementati dal desiderio di occupare posti di particolare importanza giudiziaria e amministrativa, un intreccio di contrapposte manovre, di scambi, talvolta con palese indifferenza al merito delle questioni e alle capacità individuali». Le parole anche questa volta non sono mie, ma del capo dello Stato.
La verità è che le attuali lamentazioni dei giudici di sinistra appaiono molto simili a quelle di Silvio Berlusconi quando era soggetto a indagini. Anche allora il Cavaliere parlava di tentativi di delegittimare e screditare un potere dello Stato, anzi, di abbattere un leader democraticamente eletto. Ma all'epoca la magistratura non sembrava certamente incline a limitarsi nel disporre gli ascolti delle persone che ruotavano intorno al presidente del Consiglio. Oggi Area dice che la posta in gioco sono la credibilità e l'onore del corpo sano della magistratura, che rifiuta e ha sempre rifiutato logiche e pratiche clientelari. Siamo d'accordo. Ma il sistema migliore per difendere l'autonomia e l'indipendenza della magistratura non è, come sembrano credere i giudici di sinistra, il bavaglio alla stampa. Il mezzo più utile è, per usare le loro parole, quello di far pulizia. Il problema non sono le intercettazioni. Il problema sono gli intrighi, la spartizione degli incarichi giudiziari, le manovre ai danni della politica. Ed è da questo che i giudici si devono difendere. Non dai nostri articoli.
«Roberto Rosso è in una cella delle Vallette da oltre quattro mesi. Ma le indagini sono chiuse. Il reato non può essere ripetuto. In carcere c'è una situazione di sovraffollamento e cresce l'emergenza sanitaria per il coronavirus. E la Procura ha già dato parere favorevole al suo trasferimento agli arresti domiciliari. Francamente, il no del giudice ci lascia perplessi». Così parla Giorgio Piazzese, uno degli avvocati di Rosso, l'ex assessore piemontese ai Rapporti con il consiglio regionale che è stato arrestato il 20 dicembre 2019. Il legale dice dio non capire quello che definisce «un atteggiamento di chiusura».
Rosso è accusato del reato di scambio elettorale politico-mafioso. L'inchiesta "Fenice" della Direzione distrettuale antimafia torinese ha coinvolto lui e altre sette persone: secondo gli inquirenti, l'ex assessore avrebbe versato 7.900 euro in cambio della promessa di un "pacchetto" di voti da parte di esponenti di 'ndrangheta per le elezioni regionali del maggio 2019.
Cinquantanove anni, avvocato, vercellese, a partire dal 1994 e per ben cinque legislature Rosso è stato parlamentare di Forza Italia. Nel 2018 ha deciso di passare a Fratelli d'Italia. Alle elezioni regionali piemontesi del maggio 2019 è stato eletto con meno di 5mila voti e nominato assessore. Subito dopo l'arresto, però, ha rassegnato le dimissioni dall'incarico. Rosso era anche capogruppo di FdI nel Consiglio comunale di Torino e vicesindaco di Trino Vercellese, il Comune dove abita. Si è subito dimesso anche da queste cariche.
I suoi legali hanno chiesto più volte l'attenuazione della misura cautelare, e la concessione degli arresti domiciliari: l'ultima istanza era stata presentata lunedì 20 aprile. Ma anche se per due volte la Procura di Torino ha dato il suo via libera, l'ufficio del giudice per le indagini preliminari ha sempre risposto con un no. L'ultimo diniego è arrivato giovedì 23 aprile. Il giudice l'ha giustificato con il timore della reiterazione del reato da parte dell'indagato: un rientro a casa, ha spiegato, potrebbe permettere a Rosso di recuperare la sua rete di relazioni nella politica.
Anche Ester Molinaro, che con l'avvocato Piazzese partecipa alla difesa dell'ex assessore assieme al professor Franco Coppi, del cui studio fa parte, contesta l'assunto: «Rosso è accusato di un reato specifico, lo scambio elettorale. Ma in questo periodo non ci sono elezioni in vista, e comunque non credo proprio avrebbe alcuna intenzione di candidarsi, né del resto gli sarebbe facile trovare un partito in cui farlo».
In effetti, non sembra così facile che oggi Rosso possa trovare "agganci" nella politica piemontese, un mondo che pure ha frequentato per tanti anni. Il giorno del suo arresto, oltre quattro mesi fa, il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, era stato netto nel prendere le distanze: «Sono allibito», aveva detto, «perché un'accusa di questo tipo è la peggiore per chi vuole rappresentare le istituzioni, ed è incompatibile con il nostro modo di vedere la vita e l'impegno politico. Per questo ci auguriamo che Rosso possa dimostrare quanto prima la sua totale estraneità ai fatti e confidiamo pienamente nel lavoro della magistratura". Poi aveva concluso: "Quanto accaduto mi ha deluso profondamente. Dopo la conferenza stampa degli inquirenti ho capito che io e Rosso eravamo incompatibili, e ho accettato le sue dimissioni».
Se possibile, con l'arrestato era stata anche più dura Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d'Italia, cioè il partito di Rosso. Lo scorso dicembre non soltanto aveva subito annunciato la sua espulsione dal partito, ma gli aveva quasi negato la presunzione d'innocenza: «Annuncio fin d'ora che Fratelli d'Italia si costituirà parte civile nell'eventuale processo a suo carico» aveva dichiarato Meloni. E aveva aggiunto: «Il voto di scambio politico-mafioso è l'accusa più infamante di tutte: mi viene il voltastomaco».
È peraltro vero che, come segnala l'avvocato Piazzese, la situazione sanitaria alle Vallette non è tra le più rosee. I detenuti contagiati nel carcere torinese sono almeno 60 su 1.250, un dato denunciato dalla polizia penitenziaria, che parla apertamente di "situazione esplosiva". C'è anche un parallelo, a suo modo paradossale: lo scorso 9 aprile la Corte d'appello di Reggio Calabria ha concesso di uscire dalle Vallette per andare agli arresti domiciliari a Rocco Santo Filippone, accusato di essere il boss della 'ndrangheta di Melicucco, centro della Piana di Gioia Tauro, e imputato nel processo "'Ndrangheta stragista" accanto al capomandamento mafioso di Brancaccio Giuseppe Graviano. Filippone, che quindi è accusato di un reato molto più grave di quello di Rosso, è uscito dal carcere torinese: i giudici hanno accolto la sua richiesta per motivi di salute e per evitare di contrarre il coronavirus.







