Ottobre 2025 conferma un ciclo obbligazionario incerto ma non privo di opportunità. I governativi globali hanno messo a segno un +1,31%, sospinti ancora una volta dalla Federal Reserve: il Fomc ha tagliato il Fed funds di 25 punti base al range 3,75-4%. Il numero uno della Fed, Jerome Powell, però, ha raffreddato subito le aspettative, ribadendo che la politica monetaria è su un livello «neutrale» (3-4%) e che ulteriori allentamenti non sono affatto scontati, come segnala il calo delle probabilità di un altro taglio a dicembre dal 90% a circa il 50%. Più del taglio dei tassi conta la sospensione del Quantitative Tightening da dicembre: il bilancio Fed smetterà di ridursi e la scelta è letta come «un possibile presagio di un futuro ritorno agli acquisti obbligazionari (Quantitative Easing), necessario per sopprimere il segmento a lungo termine della curva dei rendimenti e ridurre il rischio di stress nel sistema finanziario». Il tutto in un contesto di debito federale statunitense su nuovi massimi storici e progressivo disimpegno della Cina dai Treasury. Il focus torna sul «premio a termine» e sull’offerta netta di debito pubblico. I bilanci privati appaiono solidi, ma «le traiettorie del debito sovrano, dovute a deficit elevati in Usa, Francia e Regno Unito, non sono rassicuranti». Da qui la valutazione di Salvatore Gaziano, direttore investimenti di SoldiExpert Scf, secondo cui «acquistare obbligazioni a medio-lungo termine rappresenti una scarsa opportunità nella scala delle opportunità della curva dei rendimenti». Chi aveva puntato sulle scadenze ultra-lunghe sulla scia della teoria di Ray Dalio - che le vedeva come «stabilizzatore» del portafoglio - si lecca ancora le ferite. La lettura di fondo è che i rendimenti reali sul tratto lungo possano restare elevati, o salire, complice l’emissione massiccia di debito e un’inflazione americana attesa «persistente». Fuori dagli Stati Uniti, pressioni inflazionistiche più moderate danno alle banche centrali un margine maggiore per tagli selettivi: da qui la preferenza tattica per duration brevi e intermedie. Non a caso, «nelle nostre selezioni obbligazionarie anche di titoli governativi preferiamo stare nella parte breve-media della curva», dice Gaziano. Per l’investitore italiano i titoli di Stato restano un pilastro difensivo: come spiega Giacomo Chignoli, consulente finanziario di Gamma Capital Markets, Btp a media scadenza, Btp Valore e CCTeu offrono rendimenti netti competitivi, grazie alla tassazione al 12,5%, e un profilo di rischio più leggibile rispetto a molte emissioni corporate. Il confronto internazionale - Treasury decennali oltre il 4%, Bund e OAT tra il 3,2% e il 3,6% - invita a non cadere nel «home bias (la tendenza a privilegiare investimenti nazionali, ndr)» e a utilizzare anche Etf e fondi su indici governativi in euro o globali. Con una Bce che a ottobre ha lasciato i tassi invariati, con crescita e inflazione tiepide, il vantaggio per il risparmiatore è chiaro: ancorare il portafoglio a scadenze corte-medie ben diversificate permette di beneficiare dei momenti attuali e mantenere flessibilità in caso di nuovi choc sui tassi.
La Federal Reserve ha tagliato i tassi dello 0,25% portando l’asticella fra il 4% e il 4,25%. La decisione è stata presa con undici voti favorevoli e un solo contrario. Si tratta del trumpiano Miran che avrebbe voluto una riduzione almeno dello 0,5%. Quella decisa ieri è la prima riduzione da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca. Un taglietto che ha il sapore di un equilibrismo e dell’omaggio dopo i violenti attacchi dei mesi scorsi nei confronti del governatore Powell accusato, senza giri di parole, di essere un incapace. Un gesto che assomiglia tanto a un piccolo inchino al tycoon che di tagli ne vorrebbe ben di più. Chissà se l’annuncio che ci saranno altri due interventi da 0,25% entro la fine dell’anno basterà a soddisfarlo. In ogni caso Powell in conferenza stampa ha voluto salvare la coscienza: «La Fed», ha detto, «è impegnata a mantenere la sua indipendenza».
A volte basta davvero poco per accontentare tutti. O quasi, visto che Stephan Miran, appena nominato alla Fed proprio da Trump e considerato l’ideologo della politica economica della Casa Bianca, avrebbe voluto un comportamento più coraggioso.
Le stime della Fed parlano di una crescita più lenta del mercato del lavoro, un Pil che si fermerà all’1,6% (ma a giugno prevedeva l’1,4%) e inflazione al 3%.
I dati dimostrano la delicatezza del momento. Il 9 settembre, un fulmine a ciel sereno: i dati sull’occupazione tra marzo 2024 e marzo 2025 hanno mostrato 911.000 posti di lavoro in meno rispetto alle stime iniziali. E di questo Trump si è accorto. Il suo fedele pupillo, EJ Antoni, capo dell’Agenzia del Lavoro ha già proposto di azzerare o, perlomeno, rendere queste statistiche mensili anziché settimanali come accade oggi. Una scelta che il presidente apprezzerebbe considerando che vuole abolire la pubblicazione dei conti trimestrali delle società quotate. Ma la Fed ha un approccio diverso. Non solo la piena occupazione fa parte suo mandato, ma i dati sono essenziali, per orientare i mercati e la politica economica
Eppure, l’incertezza regna sovrana. I numeri sulle assunzioni mensili sono sempre più deboli, con una curva inesorabilmente inclinata verso il basso. Una debolezza che giustificherebbe anche un taglio dei tassi un po’ più deciso, ma ecco il colpo di scena: l'inflazione ha deciso di fare il suo ingresso trionfale in scena, con un picco a settembre: il 2,9%. Un incremento che, rispetto ai 2,3% di aprile, è una vera e propria «fuga di prezzi», un filo di fumo che si alza da un calderone ancora caldo. E qui si fa chiara la scelta della Fed: non basta un 0,25% di taglio per calmare la domanda interna.
In un Paese dove il tasso di inflazione è un tema centrale per i destini politici dei presidenti Usa, Powell e compagni si trovano di fronte a un bivio: sostenere l’occupazione con tassi in coraggiosa discesa, come vorrebbe Trump, o continuare a combattere quell’inflazione che, come un ospite indesiderato, sembra non volersene andare? La Fed ha scelto il compromesso, il taglio piccolo piccolo, ma significativo. Eppure, come ha fatto notare lo stesso Powell, il costo del denaro è ancora lontano da quel fatidico «tasso neutrale», che, secondo i calcoli più ottimistici, potrebbe trovarsi intorno al 3% (ma alcuni membri della Fed, più prudenti, lo vedono a 3,5% o più). Insomma c’è spazio per le riduzioni annunciate da Powell entro fine anno.
E qui arriva la parte più interessante. La Fed sta manovrando con una certa maestria, come chi cammina su un filo sottile, evitando di cadere da una parte o dall’altra. I salari orari, per esempio, continuano a crescere più rapidamente della media storica. La trasformazione dei rialzi dei prezzi da eventi eccezionali in fatto permanente è un rischio concreto. E, come sempre, la Fed lo sa bene: a volte, la cautela non è solo una virtù, ma una necessità.
Allora, cosa fare? In un certo senso, Powell e la sua squadra hanno risolto la questione con un colpo da maestro: un taglio dei tassi che sembra dire «eccomi, sto facendo qualcosa» e la promessa di altri interventi. Non è una risposta decisa, ma è una soluzione pragmatica, una manovra tanto cauta quanto necessaria. Trump chiederà di più ma Powell avrà ottenuto la sua parte di stabilità, senza scatenare un terremoto. Un compromesso che suona quasi come una danza elegante: passi piccoli, ma giusti, e soprattutto, non troppa esposizione. La Fed si piega a Trump, ma non troppo. E in fondo, questa è la vera vittoria.
«Se Donald Trump dovesse prendere controllo della politica monetaria americana porrebbe un pericolo molto serio per l’economia Usa e mondiale». Così, con voce grave e accento da governante del destino altrui, Christine Lagarde ha ammonito il presidente degli Stati Uniti in un’intervista all’emttente francese Radio Classique. Poi ha spiegato: «Se la politica monetaria dipendesse dal diktat di questo o quello, l’equilibrio dell’economia americana, e di conseguenza gli effetti che ciò avrebbe in tutto il mondo, sarebbero molto preoccupanti». Per fortuna, conclude la signora Lagarde «sarà molto difficile per Trump arrivare a una tale situazione, perché la Corte Suprema degli Stati Uniti, che è ampiamente rispettata nel Paese e che spero sarà rispettata anche da lui, ha chiaramente indicato che un governatore della Fed può essere revocato solo per colpa grave». Applausi. Lacrime. Standing ovation. Peccato che a parlare sia la stessa Christine Lagarde che, quando si tratta di politica monetaria europea, ha sempre avuto un concetto molto relativo dell’indipendenza. La più politicizzata presidente della storia della Bce: basta ascoltarla un paio di volte per accorgersi che per lei non esistono confini fra politica monetaria, geopolitica, lotta al cambiamento climatico e perfino la moda del momento. A volte sembra più un ministro del Green deal che una guardiana dei tassi d’interesse.
La sua carriera nasce, non a caso, sotto l’ombrello di Nicolas Sarkozy. È il presidente francese, nel 2011, a spingerla con forza al Fondo Monetario Internazionale, dopo la caduta spettacolare di Dominique Strauss-Kahn. L’Europa si congratula, la Francia brinda: una donna elegante, di mondo, con l’accento giusto e le amicizie giuste. Lagarde viene presentata come la «garante della stabilità». In realtà sarà la garante di Parigi. Poi, nel 2019, l’approdo al trono vero: la presidenza della Banca Centrale Europea. Qui il concetto di indipendenza diventa un optional. Perché la Bce, se si ascoltano i suoi discorsi e si guardano le sue decisioni, sembra avere due capitali ufficiali: Berlino e Parigi. Germania e Francia hanno sempre dettato la linea, e Lagarde non ha mai dato l’impressione di voler contraddirli. Al massimo, con un sorriso, ha ricordato agli altri Paesi che il loro compito era di adeguarsi.
Gli italiani, per esempio, ricordano bene la sua prima conferenza stampa da presidente della Bce. Era il 12 marzo 2020, in piena tempesta pandemica e con i mercati già in panico. Bastava una parola rassicurante per calmare la speculazione sui titoli di Stato. Bastava dire ciò che Mario Draghi aveva scolpito nella memoria collettiva: «whatever it takes» (faremo tutto quello che serve) dichiarò che «il compito della Bce non è quello di chiudere gli spread». Boom: i mercati crollarono, lo spread italiano volò, e milioni di risparmiatori capirono in un istante che la nuova presidente non avrebbe mai avuto la stoffa del predecessore.
Oggi, però, si erge a paladina dell’autonomia della Federal Reserve. Avverte Trump che la politica monetaria non può finire «sotto il diktat di questo o quello». Giustissimo. Peccato che per anni, sotto il suo comando, la Bce sia sembrata il diktat della coppia franco-tedesca contro i Paesi più fragili del Sud Europa.
E non basta. Perché oltre ai tassi e agli spread, la presidente della Bce ama occuparsi di clima, sostenibilità e transizione verde. Ha fatto della «lotta al cambiamento climatico» una delle missioni della Banca Centrale, come se comprare o meno titoli di Stato fosse la stessa cosa che piantare alberi in Amazzonia. Interventi che nulla hanno a che vedere con la stabilità dei prezzi, ma che mostrano una Bce trasformata in una succursale della Commissione europea, più attenta agli obiettivi del Green deal che all’inflazione che erode i salari. La verità è che Christine Lagarde predica l’indipendenza degli altri, non la propria. Si preoccupa dell’America perché lì esiste un vero sistema di contrappesi, con una Corte Suprema pronta a difendere la Fed. In Europa, invece, i contrappesi non li ha mai voluti: meglio obbedire a Parigi e Berlino, distribuire sermoni su clima ed energia, e ricordare agli italiani che gli spread sono un loro problema.
Insomma, oggi Lagarde scopre l’importanza dell’autonomia delle banche centrali. Benvenuta. Peccato che la lezione, per noi, sia arrivata con anni di ritardo, qualche centinaio di miliardi in più di interessi sul debito e una Bce trasformata in pulpito politico, dove la stabilità dei prezzi è diventata solo una delle tante voci all’ordine del giorno, accanto al riscaldamento globale e alla transizione energetica.
Donald Trump va allo scontro con la Fed. Il presidente americano ha infatti licenziato Lisa Cook, che è un membro del board dei governatori della Banca centrale degli Stati Uniti. L’inquilino della Casa Bianca ha giustificato la sua mossa invocando l’articolo II della Costituzione e il Federal Reserve Act del 1913. In particolare, la Cook è stata accusata dall’amministrazione americana di frode sui mutui ed è per questo stata deferita a un procedimento di natura penale. Un annuncio, quello di Trump, che la diretta interessata ha rispedito al mittente.
«Il presidente Trump ha dichiarato di volermi licenziare “per giusta causa”, quando non esiste alcuna causa ai sensi della legge e lui non ha l’autorità per farlo», ha dichiarato, per poi aggiungere: «Non mi dimetterò». «Il tentativo di Trump di licenziarla, basato esclusivamente su una lettera di deferimento, è privo di qualsiasi fondamento fattuale o legale. Presenteremo una causa per contestare questa azione illegale», ha affermato, dal canto suo, l’avvocato della Cook, Abbe Lowell. «Se fossi in lei, nelle sue circostanze, andrei in congedo subito», ha invece detto il direttore del Consiglio economico nazionale degli Stati Uniti, Kevin Hassett. Dal punto di vista legale, il Federal Reserve Act consente al presidente di licenziare i membri del board dei governatori della Fed soltanto per «giusta causa»: una fattispecie talmente ampia da risultare non troppo chiara. È del resto la prima volta che un inquilino della Casa Bianca si muove in vista di un simile siluramento. Siamo quindi anche a corto di precedenti storici. «La Federal Reserve rispetterà qualsiasi decisione del tribunale», ha comunque dichiarato un portavoce della Banca centrale.
Chiaramente la questione, nel complesso, è di natura politica. Trump è da mesi ai ferri corti con il presidente della Banca centrale americana, Jerome Powell, criticandone la politica monetaria a suo dire troppo restrittiva. L’inquilino della Casa Bianca, che gli avversari accusano di voler minare l’indipendenza della Fed, auspica infatti da tempo un deciso taglio dei tassi d’interesse. Lo scontro con la Cook, nominata da Joe Biden nel board a gennaio 2022, si inserisce quindi all’interno di questo quadro. Senza poi trascurare lo spoil system che Trump sta cercando di portare avanti in varie istituzioni statunitensi. A inizio agosto, un’altra esponente del board dei governatori designata da Biden, Adriana Kugler, si era dimessa dall’incarico. Il presidente americano l’ha quindi sostituita con l’attuale presidente del Council of Economic Advisers della Casa Bianca, Stephen Miran, che, in attesa di essere confermato dal Senato, è uno strenuo fautore del taglio dei tassi. Tra i principali architetti dei dazi, Miran sostiene che le politiche tariffarie dell’amministrazione Trump non determineranno un incremento dell’inflazione. È quindi convinto della necessità di una politica monetaria più espansiva come stimolo all’economia statunitense.
Non è forse un caso che lo scontro con la Cook sia esploso più o meno contemporaneamente alle nuove minacce di dazi, formulate da Trump nei confronti dell’Ue nel comparto tecnologico. «Come presidente degli Stati Uniti, mi opporrò ai Paesi che attaccano le nostre incredibili aziende tecnologiche americane. A meno che queste azioni discriminatorie non vengano eliminate, io, come presidente degli Stati Uniti, imporrò dazi aggiuntivi sostanziali sulle esportazioni di quel Paese verso gli Stati Uniti e istituirò restrizioni all’esportazione sulla nostra tecnologia e sui nostri chip altamente protetti», ha tuonato l’inquilino della Casa Bianca, innescando l’irritazione della Commissione europea. Questo significa che le fibrillazioni commerciali tra Washington e Bruxelles potrebbero non essere ancora finite. Era d’altronde abbastanza chiaro come, agli occhi di Trump, la tutela delle grandi aziende tecnologiche americane fosse una questione di primaria importanza. Tra l’altro, come abbiamo visto, la Casa Bianca minaccia di intervenire pesantemente in un comparto strategico come quello dei microchip.
In tutto questo, ieri sono scattati i dazi americani al 50% contro l’India. Trump punta a mettere sotto pressione Nuova Delhi per spingerla sia ad accettare le condizioni di Washington su un eventuale accordo commerciale sia a rompere i suoi rapporti con la Russia dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico. Il rischio, per la Casa Bianca, è che l’India si avvicini a Pechino: alla fine di questa settimana, Narendra Modi si recherà infatti in Cina per il summit della Shanghai Cooperation Organisation. È in un tale quadro che, lunedì, Trump ha minacciato la Repubblica popolare con dazi più elevati, nel caso quest’ultima dovesse ridurre l’export di magneti e terre rare. «Devono darci dei magneti, se non ce li danno, allora dobbiamo imporre loro dazi del 200% o qualcosa del genere», ha dichiarato. D’altronde, come spiegò lo stesso Miran in un’intervista alla Verità lo scorso maggio, per l’amministrazione Trump i dazi sono principalmente legati alla tutela della sicurezza nazionale. Il loro obiettivo è infatti quello di rilanciare il manifatturiero americano e rendere resilienti le catene di approvvigionamento nei settori considerati strategici. «Il problema principale è che non si può combattere una guerra senza la produzione di acciaio e alluminio in America», dichiarò a giugno, in audizione al Senato, il segretario al Commercio americano, Howard Lutnick. Si condivida o meno, la strategia dei dazi, portata avanti dall’amministrazione Trump, segue una sua logica. Una logica non priva di rischi, ma che ha un suo senso.
Per le banche centrali e per il mondo della finanza in generale, il 2 aprile ha segnato un epocale spartiacque. Nulla sarà più come prima e il sentiero relativamente tracciato su cui sembravano avviate sia la Bce che la Fed ora non esiste più. Spazzato via come una pista del deserto dopo una tempesta di vento. Con l’essenziale differenza che la Fed è sul pezzo da diversi giorni, con il suo presidente, Jerome Powell, che ci ha messo la faccia più volte e invece di Christine Lagarde pare che si siano perse le tracce. Anzi, dopo gli avventati annunci di inizio marzo da parte di Ursula von der Leyen e Friedrich Merz a favore di una politica di bilancio espansiva, era aumentata la probabilità che dal prossimo Consiglio del 17 aprile sarebbe uscita una decisione di tassi invariati.
Poi ieri mattina il confronto con la realtà è stato affidato al governatore della Banca centrale greca e membro del Consiglio direttivo della Bce, Yannis Stournaras, che dalle colonne del Financial Times ha suonato la fine della ricreazione a Francoforte, contestando la prudenza sui timori inflazionistici che la Lagarde aveva lasciato trapelare fino a qualche settimana fa.
Oggi invece la notizia è che i rischi deflazionistici e recessivi per l’Eurozona sono così evidenti che alla domanda se la situazione fosse abbastanza grave da giustificare un taglio dei tassi di 50 punti base, Stournaras ha solo rifiutato di commentare.
La realtà è che, dopo almeno otto anni di avvertimenti, ci siamo fatti cogliere con le mani nel sacco da Donald Trump - gli Usa costituiscono il più grande mercato di esportazione dell’Eurozona e rappresentano il 21% dell’export totale - e ora, secondo Stournaras, sebbene sia difficile «valutare con precisione l’impatto dei dazi», l’impatto negativo sulla crescita dell’area euro «potrebbe essere compreso tra 0,5 e 1 punto percentuale». Un numero che significa recessione per l’Eurozona, perché la Bce proprio a marzo aveva abbassato le sue previsioni di crescita per l’area euro nel 2025 a solo lo 0,9 per cento.
A questo punto, analisti e investitori puntano decisamente su un altro taglio dei tassi di un quarto di punto in aprile. Jp Morgan, che in precedenza si aspettava che la Bce mantenesse i tassi stabili al 2,50% ad aprile, ora ha cambiato idea e ha previsto un altro taglio di un quarto di punto, seguito da altri due a giugno e a settembre. Il punto d’arrivo sembra ora essere l’1,75%.
Sempre il Financial Times riporta una stima del Cologne institute for economic research, secondo cui il danno economico totale all’economia tedesca nel corso del mandato quadriennale di Trump potrebbe ammontare a 200 miliardi di euro, portando a un livello del Pil inferiore di 1,5 punti percentuali nel 2028.
Inoltre, «nel breve termine, il governo entrante avrà difficoltà ad attutire lo shock commerciale immediato», hanno scritto gli economisti della Deutsche bank in una nota di lunedì, aggiungendo che la Germania potrebbe persino affrontare un terzo anno di Pil in calo nel 2025. Scenario confermato dal presidente dell’Ifo, Clemens Fuest, secondo il quale «dato che l’economia tedesca è già in stagnazione, è possibile che i dazi statunitensi spingano la crescita economica in Germania sotto lo zero».
Il probabile effetto recessivo e deflazionistico sull’economia dell’Eurozona richiede indubbiamente una decisa azione sui tassi di interesse. Ma non bisogna dimenticare che quando ci sono variazioni così rilevanti e rapide dei corsi azionari, c’è anche un serio problema di liquidità che potrebbe portare ulteriori danni. Questo è un ulteriore compito delle banche centrali, per il quale la Bce sembra essere impreparata, essendo impegnata attraverso la riduzione dei titoli pubblici in portafoglio, esattamente nella direzione opposta. Un tema che abbiamo sollevato già da qualche settimana ma su cui a Francoforte ancora nicchiano.
Forse in Bce pensavano che la salita delle quotazioni di Thyssenkrupp (+141%), Rheinmetall (+115%), (Thales +77%), Leonardo (+73%) dal primo gennaio 2025, fosse un fenomeno normale e non invece il segnale chiaro di una bolla finanziaria?
Per la discesa dei prezzi, i titoli dati a garanzia diventano insufficienti e quindi gli investitori sono costretti a vendere a qualsiasi prezzo per ricostituire i margini, aggravando la discesa dei prezzi. Viceversa, avendo a disposizione le linee di credito della Fed, si riuscirebbe a calmierare il fenomeno, come peraltro accaduto in passato. Proprio per questo motivo, la Fed si è già prudentemente avviata su questa strada, rallentando da tempo il ritmo con cui sta alleggerendo il proprio portafoglio di titoli pubblici. Sul fronte dei tassi, ieri pomeriggio è stata convocata una riunione a porte chiuse del Consiglio dei Governatori della Fed per esaminare «la revisione e la determinazione dei tassi da applicare alle banche della Federal reserve». Un eventuale annuncio di un taglio dei tassi o l’approntamento di misure straordinarie per la fornitura di liquidità al sistema, seppure inusuale al di fuori dell’abituale calendario, sarebbe un segnale di accomodamento rispetto alla direzione che hanno già preso i mercati.
Mentre, fino alla scorsa settimana, erano state completamente prezzate solo tre riduzioni, ieri alcuni indicatori hanno mostrato una probabilità pari a quasi il 40% che la banca centrale abbassi il suo tasso di riferimento di 25 punti base entro la prossima settimana, ben prima della prossima decisione politica programmata dalla Fed il 7 maggio.





