Greggio in cambio di cemento. Il patto «invisibile» Iran-Cina sfida il dominio del dollaro
- Una forma di «baratto» ad alta tecnologia permette a Teheran e Pechino di aggirare le sanzioni. Grazie a circuiti finanziari ombra, l’energia si paga con le infrastrutture.
- L’annuncio del ministro persiano dell’Energia: «Così riequilibreremo il sistema energetico». Oggi la domanda supera la produzione, provocando regolari blackout.
- L’analista Antonio Selvatici: «La quantità di merci e armi che aggirano i paletti americani è enorme. Il Dragone vuole imporre il renminbi negli scambi internazionali. La “Via della Seta” si sta ampliando, coinvolgendo nuovi Paesi».
Lo speciale contiene tre articoli.
Nascosto tra i meccanismi dell’economia globale e lontano dai radar della finanza internazionale, esiste un sistema segreto che permette all’Iran di incassare miliardi nonostante l’embargo americano. È un canale parallelo costruito con la precisione di un ingranaggio diplomatico, che consente alla Cina di ricevere petrolio iraniano in cambio di opere pubbliche e grandi infrastrutture. Un circuito fuori dalle regole che ha cementato il legame tra due potenze decise a indebolire l’influenza di Washington nel Medio Oriente. Secondo documenti d’intelligence e testimonianze raccolte da funzionari occidentali e dal Wall Street Journal, il meccanismo funziona come un baratto ad alta tecnologia: Teheran invia greggio a Pechino che a sua volta paga fornendo opere strategiche sul territorio iraniano – strade, aeroporti, oleodotti, impianti energetici – senza muovere un solo dollaro.
Dietro questo sistema si muovono due protagonisti: Sinosure, colosso assicurativo controllato dallo Stato cinese e principale garante del credito all’esportazione del Paese, e Chuxin, una misteriosa entità finanziaria non registrata in alcun elenco ufficiale e assente nei database bancari nazionali.
Il patto permette a Teheran di sopravvivere al blocco economico che, dal ritiro americano dall’accordo sul nucleare del 2015, ha tagliato fuori il Paese da quasi ogni circuito finanziario globale. Fonti occidentali stimano che nel 2024, attraverso questo canale, siano transitati fino a 8,4 miliardi di dollari di compensazioni per la vendita di petrolio, utilizzati per finanziare i cantieri affidati a imprese cinesi.
L’Energy Information Administration statunitense calcola che l’Iran abbia esportato lo scorso anno 43 miliardi di dollari di greggio, di cui il 90% destinato alla Cina. Dopo che Donald Trump nel 2018 cancellò la partecipazione americana al Joint Comprehensive Plan of Action e reintrodusse le sanzioni, Pechino è diventata il cliente principale del petrolio iraniano. Le sanzioni secondarie imposte alle società che commerciano con Teheran non hanno fermato il flusso: il greggio continua a raggiungere i porti cinesi, spesso mascherato attraverso scambi tra navi o miscelazioni con petrolio di altri Paesi per nasconderne l’origine. Dietro questo scambio commerciale si cela una strategia geopolitica. Pechino non agisce solo per convenienza energetica, ma per consolidare un’alleanza alternativa all’ordine imposto dagli Stati Uniti. Lo dimostra la visita del presidente Masoud Pezeshkian a Pechino, accolto con tutti gli onori dal leader cinese Xi Jinping durante un vertice con Russia e Corea del Nord: una fotografia simbolica dell’asse antioccidentale che si sta rafforzando. Le sanzioni multilaterali, ripristinate da Europa e Stati Uniti per punire le violazioni iraniane dell’accordo sul nucleare, vengono definite da Pechino e Mosca «misure arbitrarie».
Ufficialmente la Cina sostiene di non importare più petrolio iraniano, ma le rotte marittime raccontano un’altra storia. Navi cisterna che cambiano bandiera in mare aperto, scali intermedi nei porti del Sud-Est asiatico e triangolazioni commerciali sono diventati la norma di un commercio che si svolge nell’ombra ma su scala industriale. Il fulcro operativo del sistema è la Sinosure, acronimo di China Export & Credit Insurance Corporation. La società, che dichiara di aver garantito oltre 9 trilioni di dollari di transazioni commerciali e d’investimento in tutto il mondo, funge da garanzia per i contratti che collegano il petrolio iraniano ai progetti infrastrutturali. A completare la catena è Chuxin, una struttura finanziaria che riceve i depositi delle compagnie cinesi acquirenti – centinaia di milioni di dollari ogni mese – e li trasferisce direttamente alle aziende impegnate nei lavori in Iran. Tutto avviene fuori dal circuito in dollari e senza passaggi attraverso banche occidentali. Secondo diverse fonti sentite dal Wall Street Journal, il processo funziona così: una società iraniana registra la vendita di petrolio a un intermediario cinese collegato al commerciante statale Zhuhai Zhenrong, già oggetto di sanzioni Usa. L’acquirente versa l’equivalente del valore su un conto gestito da Chuxin, che poi utilizza quei fondi per pagare gli appaltatori cinesi incaricati delle opere. Le garanzie sui contratti vengono emesse da Sinosure che riduce il rischio politico e assicura l’operazione per conto dello Stato cinese. In sostanza, il denaro non lascia mai la Cina, ma rientra sotto forma di beni e infrastrutture. Un equilibrio perfetto che consente all’Iran di ottenere ciò che non può più acquistare – servizi, tecnologia e know-how – e a Pechino di ampliare la propria influenza economica nel Golfo Persico.
Secondo il centro di ricerca AidData, tra il 2000 e il 2023 la Cina ha promesso oltre 25 miliardi di dollari di investimenti in Iran, con Sinosure direttamente coinvolta in almeno 16 dei 54 progetti censiti. Dopo la firma dell’accordo di cooperazione strategica venticinquennale del 2021, la presenza cinese è esplosa: oleodotti, ferrovie, centrali elettriche, raffinerie e hub portuali finanziati da Pechino stanno trasformando il volto del Paese.
Nonostante le prove raccolte da agenzie di intelligence, nessuna grande banca o impresa pubblica cinese è mai stata inclusa nella lista nera del Tesoro americano. Le sanzioni finora hanno colpito soltanto intermediari minori negli Emirati Arabi e a Hong Kong, accusati di favorire i trasferimenti. Né Sinosure né Chuxin sono state designate come entità sanzionate. Il ministero degli Esteri cinese ha respinto ogni accusa, definendo «illegittime» le misure unilaterali di Washington e ribadendo che il diritto internazionale consente una «normale cooperazione economica» tra Stati sovrani. Tuttavia, secondo l’economista Brad Parks di AidData, la struttura dell’intesa somiglia a un precedente modello adottato da Pechino in Iraq: un contratto ventennale in cui Sinosure garantiva prestiti a imprese cinesi in cambio di forniture petrolifere. «Ogni costruttore e ogni creditore coinvolto in Iran rientra in quella stessa logica», osserva Parks.
Per l’Iran, soffocato da anni di embargo, questo scambio rappresenta una forma di respiro economico indispensabile. Il baratto con Pechino gli consente di mantenere i servizi essenziali e finanziare nuovi progetti industriali senza accesso diretto alle valute straniere. Per la Cina, invece, è un modo per rafforzare la sua influenza strategica lungo la Nuova Via della Seta e consolidare il controllo su una regione cruciale per le forniture energetiche globali.
Washington continua a monitorare il fenomeno con crescente preoccupazione. Secondo il Dipartimento del Tesoro il sistema «mina la credibilità delle sanzioni» e alimenta la rete finanziaria che sostiene le milizie e le attività militari iraniane. Ma al di là delle condanne ufficiali gli Stati Uniti faticano a bloccare un meccanismo che non passa attraverso le banche, ma attraverso cantieri, acciaio e cemento. Oggi, mentre le petroliere continuano a solcare le acque del Golfo e le gru cinesi dominano i cieli di Teheran, l’accordo segreto tra i due Paesi dimostra che l’egemonia americana sul sistema finanziario globale non è più un dogma. Ogni barile che lascia i porti iraniani porta con sé un pezzo di autostrada, una centrale elettrica o un ponte costruito da Pechino. È il nuovo linguaggio del potere: meno dollari, più infrastrutture.
Scoperto un nuovo giacimento di gas
La scorsa settimana il ministro iraniano dell’Energia ha reso nota la scoperta di un vasto giacimento di idrocarburi nel sud del Paese, sottolineando che la nuova riserva potrebbe contribuire ad attenuare la crescente crisi energetica nazionale, aggravata dalle sanzioni internazionali e dal deterioramento delle strutture industriali. Mohsen Paknejad ha dichiarato che, durante recenti operazioni di esplorazione, i tecnici hanno individuato per la prima volta uno strato orizzontale contenente circa 200 milioni di barili di petrolio grezzo. Il giacimento, denominato Pazan, si trova nella provincia meridionale di Fars e si estende verso nord fino a lambire il territorio di Bushehr. Secondo il ministro, la nuova area «contiene anche circa 10 trilioni di piedi cubi di gas naturale e potrebbe avere un peso decisivo nel riequilibrare il sistema energetico iraniano negli anni a venire». Paknejad ha aggiunto che, «considerando un coefficiente di recupero del 70%, il volume di gas effettivamente estraibile ammonterebbe a circa 7 trilioni di piedi cubi», come riportato dai media ufficiali di Teheran.Nonostante le immense risorse naturali, il Paese continua a fare i conti con carenze strutturali: la domanda interna di elettricità e gas supera regolarmente la capacità produttiva, provocando blackout ricorrenti e rallentamenti industriali che pesano sull’economia. Le misure restrittive imposte dall’Occidente hanno impedito all’Iran di importare tecnologia e componenti per ammodernare i propri impianti, molti dei quali risalgono a decenni fa e non sono più in grado di garantire un’estrazione efficiente delle riserve note. Secondo un rapporto diffuso a luglio dall’Unione iraniana degli esportatori di petrolio, gas e prodotti petrolchimici, la situazione si è aggravata a partire da novembre 2024 proprio a causa dell’obsolescenza delle infrastrutture energetiche. La scoperta giunge in un momento di profonda recessione economica, segnata dal ripristino di nuove sanzioni. Alla fine di settembre, Francia, Germania e Regno Unito hanno deciso di riattivare parte delle misure dell’Onu, sostenendo che Teheran non avrebbe rispettato gli obblighi legati al proprio programma nucleare. Questa decisione ha ristabilito limiti severi alle esportazioni di idrocarburi e prodotti derivati, isolando ulteriormente il comparto energetico iraniano e scoraggiando gli investimenti esteri indispensabili per la modernizzazione del settore.Dati recenti della National Iranian Gas Company evidenziano che il consumo domestico di gas varia da 250 milioni di metri cubi giornalieri in estate a circa 650 milioni nei mesi invernali, generando un disavanzo di oltre 200 milioni di metri cubi al giorno. «L’Iran è oggi il terzo produttore mondiale di gas e il secondo Paese per riserve accertate. Tuttavia, secondo gli ultimi studi dei centri di ricerca energetica, il consumo nazionale è pari al doppio di quello dell’intera Unione Europea», ha spiegato a Iran International Reza Padidar, presidente della Commissione per lo sviluppo sostenibile, l’ambiente e gli standard della Camera di Commercio iraniana. Stando ai dati diffusi nel 2021 dalla Iranian Gas Engineering and Development Company, il fabbisogno energetico complessivo del Paese corrisponde a 2,2 miliardi di barili di greggio equivalenti: il gas copre il 72% del totale, il petrolio e i suoi derivati rappresentano il 26,5%, mentre carbone e altre fonti alternative incidono per meno dell’1,5%.
«Xi riscrive le regole del commercio. Per l’Occidente fermarlo è utopia»
Antonio Selvatici è un saggista e docente universitario
In che modo strutture come Sinosure e Chuxin riescono a operare al di fuori del sistema bancario internazionale senza incorrere formalmente in violazioni delle sanzioni statunitensi?
«Gli Stati Uniti stanno cercando attraverso sanzioni ed inserimento in black list di bloccare la vendita del petrolio di Teheran a Pechino. La lista è lunga, un assaggio: a maggio di quest’anno gli Stati Uniti hanno sanzionato la raffineria indipendente Hebei Xinhai Chemical Group. A luglio hanno sanzionato il terminal petrolifero cinese di Zhoushan Jinrun Petroleum Transfer Co. Ltd. Anche la Shandong Shouguang Luqinq Petrolchemical Co. nella provincia dello Shandong era stata individuata come acquirente di petrolio iraniano. È la caccia alle “teapots” (letteralmente “raffinerie teiere)”: soggetti indipendenti di modeste dimensioni che acquistano petrolio dall’Iran. Non solo “raffinerie teiere”. Per cercare di superare le sanzioni i metodi sono diversi tra cui il “blending”, la miscelazione con petrolio proveniente da altri siti, l’Sts (ship to ship) vale a dire trasferimenti da nave a nave da flotte ombra: vengono effettuati in mare, in zone tranquille (ad esempio nel Golfo dell’Oman). Modalità utilizzata anche dalle navi russe. Spesso le petroliere coinvolte sono registrate in Paesi con normative non severe (ad esempio Liberia e Gabon). Le navi coinvolte nei travasi eludono i sistemi di tracciamento marittimo (“spoofing”) nascondendo la propria identità, diventando fantasma. Stime recenti indicano che una quantità che varia dal 70 al 90% della produzione di petrolio iraniano viene acquistato dalla Cina. Ciò rende quasi impossibile bloccare il flusso».
Quanto è strategico per Pechino il rapporto con Teheran nel quadro della sua espansione economica e politica in Medio Oriente e nella Belt and Road Initiative?
«Un aspetto importante riguarda la valuta di pagamento degli scambi utilizzata anche per il passaggio del petrolio: il renminbi (lettarlmente “moneta del popolo”), non il dollaro. Dai petroldollari al petrolrenminbi? Il tentativo di espansione globale della Cina passa anche nel cercare d’imporre negli scambi internazionali la propria moneta sostituendo lo storico globalizzato dollaro. Ciò rientra in un ottica di conquista di spazi, esigenza conseguente all’espansione produttiva della Cina. Quella della “fabbrica del mondo” è una visione passata ed attuale. Mi spiego. La Cina continua ad essere il bacino produttivo del globo, ma il suo incredibile sviluppo alimentato dalla domanda e dal trasferimento di tecnologia occidentale la sta portando ad un livello produttivo d’eccellenza. Bisogna ammettere come la politica industriale e infrastrutturale imposta da Pechino abbia dato i suoi frutti. La Belt and Road Initiative si sta ampliando coinvolgendo altri Paesi. È il ternativo di formare un blocco economico, di relazioni e scambi preferenziali».
Il modello «petrolio in cambio di infrastrutture» rappresenta un’opportunità per l’Iran o rischia di trasformarsi in una nuova forma di dipendenza economica dalla Cina?
«Gli interessi sono reciproci. Per fare una giusta valutazione economica bisognerebbe sapere a quale prezzo (anche mediante baratto), la Cina acquista il petrolio da Teheran. Se l’Occidente embarga l’Iran, questo si rivolge a mercati e “fornitori amici” ben disposti a raggirare le sanzioni. Sembra anche che in cambio di petrolio vengano forniti dalla Cina all’Iran armamenti (“missili, droni e sistema di difesa aerea”). Recentemente una fonte avrebbe elencato le società cinesi coinvolte nello scambio».
Perché gli Stati Uniti, pur conoscendo il ruolo di Sinosure e delle banche cinesi nel sostegno a Teheran, evitano di sanzionarle direttamente?
«Evitano o non riescono? La quantità di merce, di petrolio, di armamenti che quotidianamente vengono scambiate aggirando le sanzioni (ciò riguarda anche la Russia) sono enormi. Proviamo solo ad immaginare l’utilizzo del dual use (duplice uso, possibile utilizzo di tecnologie civili in quelle militari) o le triangolazioni: il transito di merci attraverso Stati neutrali, ma amici di quelli sanzionati. È utopistico immaginare di bloccare tutti i rivoli che alimentano il grande fiume dell’economia parallela. Anche perché alcuni raggiri sfruttano ambiguità legislative».
Questo canale di scambi paralleli tra Cina e Iran potrebbe ridimensionare in modo strutturale l’efficacia delle sanzioni occidentali e modificare gli equilibri del mercato energetico globale?
«Paesi con modelli di governace simili si attraggono: da anni è noto il triangolo Pechino-Mosca-Teheran. A cui si aggiungono molti altri Paesi che potremo definire “ibridi”: hanno una forma di governo democratico, ma guidati da leader che si muovono con determinazione talvolta superando i confini della democrazia. Ad esempio la Turchia di Erdogan, l’Ungheria di Orbán e la Serbia con il presidente Vucic. Paesi in cui la Cina è molto presente economicamente e vanta una buona influenza. Le sanzioni vengo raggirate, ma gli equilibri energetici globali si adattano alla realtà del mercato. Del resto l’economia illegale è una parte dell’economia globale».







