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2025-10-13
Greggio in cambio di cemento. Il patto «invisibile» Iran-Cina sfida il dominio del dollaro
Nascosto tra i meccanismi dell’economia globale e lontano dai radar della finanza internazionale, esiste un sistema segreto che permette all’Iran di incassare miliardi nonostante l’embargo americano. È un canale parallelo costruito con la precisione di un ingranaggio diplomatico, che consente alla Cina di ricevere petrolio iraniano in cambio di opere pubbliche e grandi infrastrutture. Un circuito fuori dalle regole che ha cementato il legame tra due potenze decise a indebolire l’influenza di Washington nel Medio Oriente. Secondo documenti d’intelligence e testimonianze raccolte da funzionari occidentali e dal Wall Street Journal, il meccanismo funziona come un baratto ad alta tecnologia: Teheran invia greggio a Pechino che a sua volta paga fornendo opere strategiche sul territorio iraniano – strade, aeroporti, oleodotti, impianti energetici – senza muovere un solo dollaro.
Dietro questo sistema si muovono due protagonisti: Sinosure, colosso assicurativo controllato dallo Stato cinese e principale garante del credito all’esportazione del Paese, e Chuxin, una misteriosa entità finanziaria non registrata in alcun elenco ufficiale e assente nei database bancari nazionali.
Il patto permette a Teheran di sopravvivere al blocco economico che, dal ritiro americano dall’accordo sul nucleare del 2015, ha tagliato fuori il Paese da quasi ogni circuito finanziario globale. Fonti occidentali stimano che nel 2024, attraverso questo canale, siano transitati fino a 8,4 miliardi di dollari di compensazioni per la vendita di petrolio, utilizzati per finanziare i cantieri affidati a imprese cinesi.
L’Energy Information Administration statunitense calcola che l’Iran abbia esportato lo scorso anno 43 miliardi di dollari di greggio, di cui il 90% destinato alla Cina. Dopo che Donald Trump nel 2018 cancellò la partecipazione americana al Joint Comprehensive Plan of Action e reintrodusse le sanzioni, Pechino è diventata il cliente principale del petrolio iraniano. Le sanzioni secondarie imposte alle società che commerciano con Teheran non hanno fermato il flusso: il greggio continua a raggiungere i porti cinesi, spesso mascherato attraverso scambi tra navi o miscelazioni con petrolio di altri Paesi per nasconderne l’origine. Dietro questo scambio commerciale si cela una strategia geopolitica. Pechino non agisce solo per convenienza energetica, ma per consolidare un’alleanza alternativa all’ordine imposto dagli Stati Uniti. Lo dimostra la visita del presidente Masoud Pezeshkian a Pechino, accolto con tutti gli onori dal leader cinese Xi Jinping durante un vertice con Russia e Corea del Nord: una fotografia simbolica dell’asse antioccidentale che si sta rafforzando. Le sanzioni multilaterali, ripristinate da Europa e Stati Uniti per punire le violazioni iraniane dell’accordo sul nucleare, vengono definite da Pechino e Mosca «misure arbitrarie».
Ufficialmente la Cina sostiene di non importare più petrolio iraniano, ma le rotte marittime raccontano un’altra storia. Navi cisterna che cambiano bandiera in mare aperto, scali intermedi nei porti del Sud-Est asiatico e triangolazioni commerciali sono diventati la norma di un commercio che si svolge nell’ombra ma su scala industriale. Il fulcro operativo del sistema è la Sinosure, acronimo di China Export & Credit Insurance Corporation. La società, che dichiara di aver garantito oltre 9 trilioni di dollari di transazioni commerciali e d’investimento in tutto il mondo, funge da garanzia per i contratti che collegano il petrolio iraniano ai progetti infrastrutturali. A completare la catena è Chuxin, una struttura finanziaria che riceve i depositi delle compagnie cinesi acquirenti – centinaia di milioni di dollari ogni mese – e li trasferisce direttamente alle aziende impegnate nei lavori in Iran. Tutto avviene fuori dal circuito in dollari e senza passaggi attraverso banche occidentali. Secondo diverse fonti sentite dal Wall Street Journal, il processo funziona così: una società iraniana registra la vendita di petrolio a un intermediario cinese collegato al commerciante statale Zhuhai Zhenrong, già oggetto di sanzioni Usa. L’acquirente versa l’equivalente del valore su un conto gestito da Chuxin, che poi utilizza quei fondi per pagare gli appaltatori cinesi incaricati delle opere. Le garanzie sui contratti vengono emesse da Sinosure che riduce il rischio politico e assicura l’operazione per conto dello Stato cinese. In sostanza, il denaro non lascia mai la Cina, ma rientra sotto forma di beni e infrastrutture. Un equilibrio perfetto che consente all’Iran di ottenere ciò che non può più acquistare – servizi, tecnologia e know-how – e a Pechino di ampliare la propria influenza economica nel Golfo Persico.
Secondo il centro di ricerca AidData, tra il 2000 e il 2023 la Cina ha promesso oltre 25 miliardi di dollari di investimenti in Iran, con Sinosure direttamente coinvolta in almeno 16 dei 54 progetti censiti. Dopo la firma dell’accordo di cooperazione strategica venticinquennale del 2021, la presenza cinese è esplosa: oleodotti, ferrovie, centrali elettriche, raffinerie e hub portuali finanziati da Pechino stanno trasformando il volto del Paese.
Nonostante le prove raccolte da agenzie di intelligence, nessuna grande banca o impresa pubblica cinese è mai stata inclusa nella lista nera del Tesoro americano. Le sanzioni finora hanno colpito soltanto intermediari minori negli Emirati Arabi e a Hong Kong, accusati di favorire i trasferimenti. Né Sinosure né Chuxin sono state designate come entità sanzionate. Il ministero degli Esteri cinese ha respinto ogni accusa, definendo «illegittime» le misure unilaterali di Washington e ribadendo che il diritto internazionale consente una «normale cooperazione economica» tra Stati sovrani. Tuttavia, secondo l’economista Brad Parks di AidData, la struttura dell’intesa somiglia a un precedente modello adottato da Pechino in Iraq: un contratto ventennale in cui Sinosure garantiva prestiti a imprese cinesi in cambio di forniture petrolifere. «Ogni costruttore e ogni creditore coinvolto in Iran rientra in quella stessa logica», osserva Parks.
Per l’Iran, soffocato da anni di embargo, questo scambio rappresenta una forma di respiro economico indispensabile. Il baratto con Pechino gli consente di mantenere i servizi essenziali e finanziare nuovi progetti industriali senza accesso diretto alle valute straniere. Per la Cina, invece, è un modo per rafforzare la sua influenza strategica lungo la Nuova Via della Seta e consolidare il controllo su una regione cruciale per le forniture energetiche globali.
Washington continua a monitorare il fenomeno con crescente preoccupazione. Secondo il Dipartimento del Tesoro il sistema «mina la credibilità delle sanzioni» e alimenta la rete finanziaria che sostiene le milizie e le attività militari iraniane. Ma al di là delle condanne ufficiali gli Stati Uniti faticano a bloccare un meccanismo che non passa attraverso le banche, ma attraverso cantieri, acciaio e cemento. Oggi, mentre le petroliere continuano a solcare le acque del Golfo e le gru cinesi dominano i cieli di Teheran, l’accordo segreto tra i due Paesi dimostra che l’egemonia americana sul sistema finanziario globale non è più un dogma. Ogni barile che lascia i porti iraniani porta con sé un pezzo di autostrada, una centrale elettrica o un ponte costruito da Pechino. È il nuovo linguaggio del potere: meno dollari, più infrastrutture.
Scoperto un nuovo giacimento di gas
La scorsa settimana il ministro iraniano dell’Energia ha reso nota la scoperta di un vasto giacimento di idrocarburi nel sud del Paese, sottolineando che la nuova riserva potrebbe contribuire ad attenuare la crescente crisi energetica nazionale, aggravata dalle sanzioni internazionali e dal deterioramento delle strutture industriali. Mohsen Paknejad ha dichiarato che, durante recenti operazioni di esplorazione, i tecnici hanno individuato per la prima volta uno strato orizzontale contenente circa 200 milioni di barili di petrolio grezzo. Il giacimento, denominato Pazan, si trova nella provincia meridionale di Fars e si estende verso nord fino a lambire il territorio di Bushehr. Secondo il ministro, la nuova area «contiene anche circa 10 trilioni di piedi cubi di gas naturale e potrebbe avere un peso decisivo nel riequilibrare il sistema energetico iraniano negli anni a venire». Paknejad ha aggiunto che, «considerando un coefficiente di recupero del 70%, il volume di gas effettivamente estraibile ammonterebbe a circa 7 trilioni di piedi cubi», come riportato dai media ufficiali di Teheran.Nonostante le immense risorse naturali, il Paese continua a fare i conti con carenze strutturali: la domanda interna di elettricità e gas supera regolarmente la capacità produttiva, provocando blackout ricorrenti e rallentamenti industriali che pesano sull’economia. Le misure restrittive imposte dall’Occidente hanno impedito all’Iran di importare tecnologia e componenti per ammodernare i propri impianti, molti dei quali risalgono a decenni fa e non sono più in grado di garantire un’estrazione efficiente delle riserve note. Secondo un rapporto diffuso a luglio dall’Unione iraniana degli esportatori di petrolio, gas e prodotti petrolchimici, la situazione si è aggravata a partire da novembre 2024 proprio a causa dell’obsolescenza delle infrastrutture energetiche. La scoperta giunge in un momento di profonda recessione economica, segnata dal ripristino di nuove sanzioni. Alla fine di settembre, Francia, Germania e Regno Unito hanno deciso di riattivare parte delle misure dell’Onu, sostenendo che Teheran non avrebbe rispettato gli obblighi legati al proprio programma nucleare. Questa decisione ha ristabilito limiti severi alle esportazioni di idrocarburi e prodotti derivati, isolando ulteriormente il comparto energetico iraniano e scoraggiando gli investimenti esteri indispensabili per la modernizzazione del settore.Dati recenti della National Iranian Gas Company evidenziano che il consumo domestico di gas varia da 250 milioni di metri cubi giornalieri in estate a circa 650 milioni nei mesi invernali, generando un disavanzo di oltre 200 milioni di metri cubi al giorno. «L’Iran è oggi il terzo produttore mondiale di gas e il secondo Paese per riserve accertate. Tuttavia, secondo gli ultimi studi dei centri di ricerca energetica, il consumo nazionale è pari al doppio di quello dell’intera Unione Europea», ha spiegato a Iran International Reza Padidar, presidente della Commissione per lo sviluppo sostenibile, l’ambiente e gli standard della Camera di Commercio iraniana. Stando ai dati diffusi nel 2021 dalla Iranian Gas Engineering and Development Company, il fabbisogno energetico complessivo del Paese corrisponde a 2,2 miliardi di barili di greggio equivalenti: il gas copre il 72% del totale, il petrolio e i suoi derivati rappresentano il 26,5%, mentre carbone e altre fonti alternative incidono per meno dell’1,5%.
«Xi riscrive le regole del commercio. Per l’Occidente fermarlo è utopia»
Antonio Selvatici è un saggista e docente universitario
In che modo strutture come Sinosure e Chuxin riescono a operare al di fuori del sistema bancario internazionale senza incorrere formalmente in violazioni delle sanzioni statunitensi?
«Gli Stati Uniti stanno cercando attraverso sanzioni ed inserimento in black list di bloccare la vendita del petrolio di Teheran a Pechino. La lista è lunga, un assaggio: a maggio di quest’anno gli Stati Uniti hanno sanzionato la raffineria indipendente Hebei Xinhai Chemical Group. A luglio hanno sanzionato il terminal petrolifero cinese di Zhoushan Jinrun Petroleum Transfer Co. Ltd. Anche la Shandong Shouguang Luqinq Petrolchemical Co. nella provincia dello Shandong era stata individuata come acquirente di petrolio iraniano. È la caccia alle “teapots” (letteralmente “raffinerie teiere)”: soggetti indipendenti di modeste dimensioni che acquistano petrolio dall’Iran. Non solo “raffinerie teiere”. Per cercare di superare le sanzioni i metodi sono diversi tra cui il “blending”, la miscelazione con petrolio proveniente da altri siti, l’Sts (ship to ship) vale a dire trasferimenti da nave a nave da flotte ombra: vengono effettuati in mare, in zone tranquille (ad esempio nel Golfo dell’Oman). Modalità utilizzata anche dalle navi russe. Spesso le petroliere coinvolte sono registrate in Paesi con normative non severe (ad esempio Liberia e Gabon). Le navi coinvolte nei travasi eludono i sistemi di tracciamento marittimo (“spoofing”) nascondendo la propria identità, diventando fantasma. Stime recenti indicano che una quantità che varia dal 70 al 90% della produzione di petrolio iraniano viene acquistato dalla Cina. Ciò rende quasi impossibile bloccare il flusso».
Quanto è strategico per Pechino il rapporto con Teheran nel quadro della sua espansione economica e politica in Medio Oriente e nella Belt and Road Initiative?
«Un aspetto importante riguarda la valuta di pagamento degli scambi utilizzata anche per il passaggio del petrolio: il renminbi (lettarlmente “moneta del popolo”), non il dollaro. Dai petroldollari al petrolrenminbi? Il tentativo di espansione globale della Cina passa anche nel cercare d’imporre negli scambi internazionali la propria moneta sostituendo lo storico globalizzato dollaro. Ciò rientra in un ottica di conquista di spazi, esigenza conseguente all’espansione produttiva della Cina. Quella della “fabbrica del mondo” è una visione passata ed attuale. Mi spiego. La Cina continua ad essere il bacino produttivo del globo, ma il suo incredibile sviluppo alimentato dalla domanda e dal trasferimento di tecnologia occidentale la sta portando ad un livello produttivo d’eccellenza. Bisogna ammettere come la politica industriale e infrastrutturale imposta da Pechino abbia dato i suoi frutti. La Belt and Road Initiative si sta ampliando coinvolgendo altri Paesi. È il ternativo di formare un blocco economico, di relazioni e scambi preferenziali».
Il modello «petrolio in cambio di infrastrutture» rappresenta un’opportunità per l’Iran o rischia di trasformarsi in una nuova forma di dipendenza economica dalla Cina?
«Gli interessi sono reciproci. Per fare una giusta valutazione economica bisognerebbe sapere a quale prezzo (anche mediante baratto), la Cina acquista il petrolio da Teheran. Se l’Occidente embarga l’Iran, questo si rivolge a mercati e “fornitori amici” ben disposti a raggirare le sanzioni. Sembra anche che in cambio di petrolio vengano forniti dalla Cina all’Iran armamenti (“missili, droni e sistema di difesa aerea”). Recentemente una fonte avrebbe elencato le società cinesi coinvolte nello scambio».
Perché gli Stati Uniti, pur conoscendo il ruolo di Sinosure e delle banche cinesi nel sostegno a Teheran, evitano di sanzionarle direttamente?
«Evitano o non riescono? La quantità di merce, di petrolio, di armamenti che quotidianamente vengono scambiate aggirando le sanzioni (ciò riguarda anche la Russia) sono enormi. Proviamo solo ad immaginare l’utilizzo del dual use (duplice uso, possibile utilizzo di tecnologie civili in quelle militari) o le triangolazioni: il transito di merci attraverso Stati neutrali, ma amici di quelli sanzionati. È utopistico immaginare di bloccare tutti i rivoli che alimentano il grande fiume dell’economia parallela. Anche perché alcuni raggiri sfruttano ambiguità legislative».
Questo canale di scambi paralleli tra Cina e Iran potrebbe ridimensionare in modo strutturale l’efficacia delle sanzioni occidentali e modificare gli equilibri del mercato energetico globale?
«Paesi con modelli di governace simili si attraggono: da anni è noto il triangolo Pechino-Mosca-Teheran. A cui si aggiungono molti altri Paesi che potremo definire “ibridi”: hanno una forma di governo democratico, ma guidati da leader che si muovono con determinazione talvolta superando i confini della democrazia. Ad esempio la Turchia di Erdogan, l’Ungheria di Orbán e la Serbia con il presidente Vucic. Paesi in cui la Cina è molto presente economicamente e vanta una buona influenza. Le sanzioni vengo raggirate, ma gli equilibri energetici globali si adattano alla realtà del mercato. Del resto l’economia illegale è una parte dell’economia globale».
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Una forma di «baratto» ad alta tecnologia permette a Teheran e Pechino di aggirare le sanzioni. Grazie a circuiti finanziari ombra, l’energia si paga con le infrastrutture.L’annuncio del ministro persiano dell’Energia: «Così riequilibreremo il sistema energetico». Oggi la domanda supera la produzione, provocando regolari blackout.L’analista Antonio Selvatici: «La quantità di merci e armi che aggirano i paletti americani è enorme. Il Dragone vuole imporre il renminbi negli scambi internazionali. La “Via della Seta” si sta ampliando, coinvolgendo nuovi Paesi».Lo speciale contiene tre articoli.Nascosto tra i meccanismi dell’economia globale e lontano dai radar della finanza internazionale, esiste un sistema segreto che permette all’Iran di incassare miliardi nonostante l’embargo americano. È un canale parallelo costruito con la precisione di un ingranaggio diplomatico, che consente alla Cina di ricevere petrolio iraniano in cambio di opere pubbliche e grandi infrastrutture. Un circuito fuori dalle regole che ha cementato il legame tra due potenze decise a indebolire l’influenza di Washington nel Medio Oriente. Secondo documenti d’intelligence e testimonianze raccolte da funzionari occidentali e dal Wall Street Journal, il meccanismo funziona come un baratto ad alta tecnologia: Teheran invia greggio a Pechino che a sua volta paga fornendo opere strategiche sul territorio iraniano – strade, aeroporti, oleodotti, impianti energetici – senza muovere un solo dollaro. Dietro questo sistema si muovono due protagonisti: Sinosure, colosso assicurativo controllato dallo Stato cinese e principale garante del credito all’esportazione del Paese, e Chuxin, una misteriosa entità finanziaria non registrata in alcun elenco ufficiale e assente nei database bancari nazionali. Il patto permette a Teheran di sopravvivere al blocco economico che, dal ritiro americano dall’accordo sul nucleare del 2015, ha tagliato fuori il Paese da quasi ogni circuito finanziario globale. Fonti occidentali stimano che nel 2024, attraverso questo canale, siano transitati fino a 8,4 miliardi di dollari di compensazioni per la vendita di petrolio, utilizzati per finanziare i cantieri affidati a imprese cinesi. L’Energy Information Administration statunitense calcola che l’Iran abbia esportato lo scorso anno 43 miliardi di dollari di greggio, di cui il 90% destinato alla Cina. Dopo che Donald Trump nel 2018 cancellò la partecipazione americana al Joint Comprehensive Plan of Action e reintrodusse le sanzioni, Pechino è diventata il cliente principale del petrolio iraniano. Le sanzioni secondarie imposte alle società che commerciano con Teheran non hanno fermato il flusso: il greggio continua a raggiungere i porti cinesi, spesso mascherato attraverso scambi tra navi o miscelazioni con petrolio di altri Paesi per nasconderne l’origine. Dietro questo scambio commerciale si cela una strategia geopolitica. Pechino non agisce solo per convenienza energetica, ma per consolidare un’alleanza alternativa all’ordine imposto dagli Stati Uniti. Lo dimostra la visita del presidente Masoud Pezeshkian a Pechino, accolto con tutti gli onori dal leader cinese Xi Jinping durante un vertice con Russia e Corea del Nord: una fotografia simbolica dell’asse antioccidentale che si sta rafforzando. Le sanzioni multilaterali, ripristinate da Europa e Stati Uniti per punire le violazioni iraniane dell’accordo sul nucleare, vengono definite da Pechino e Mosca «misure arbitrarie». Ufficialmente la Cina sostiene di non importare più petrolio iraniano, ma le rotte marittime raccontano un’altra storia. Navi cisterna che cambiano bandiera in mare aperto, scali intermedi nei porti del Sud-Est asiatico e triangolazioni commerciali sono diventati la norma di un commercio che si svolge nell’ombra ma su scala industriale. Il fulcro operativo del sistema è la Sinosure, acronimo di China Export & Credit Insurance Corporation. La società, che dichiara di aver garantito oltre 9 trilioni di dollari di transazioni commerciali e d’investimento in tutto il mondo, funge da garanzia per i contratti che collegano il petrolio iraniano ai progetti infrastrutturali. A completare la catena è Chuxin, una struttura finanziaria che riceve i depositi delle compagnie cinesi acquirenti – centinaia di milioni di dollari ogni mese – e li trasferisce direttamente alle aziende impegnate nei lavori in Iran. Tutto avviene fuori dal circuito in dollari e senza passaggi attraverso banche occidentali. Secondo diverse fonti sentite dal Wall Street Journal, il processo funziona così: una società iraniana registra la vendita di petrolio a un intermediario cinese collegato al commerciante statale Zhuhai Zhenrong, già oggetto di sanzioni Usa. L’acquirente versa l’equivalente del valore su un conto gestito da Chuxin, che poi utilizza quei fondi per pagare gli appaltatori cinesi incaricati delle opere. Le garanzie sui contratti vengono emesse da Sinosure che riduce il rischio politico e assicura l’operazione per conto dello Stato cinese. In sostanza, il denaro non lascia mai la Cina, ma rientra sotto forma di beni e infrastrutture. Un equilibrio perfetto che consente all’Iran di ottenere ciò che non può più acquistare – servizi, tecnologia e know-how – e a Pechino di ampliare la propria influenza economica nel Golfo Persico. Secondo il centro di ricerca AidData, tra il 2000 e il 2023 la Cina ha promesso oltre 25 miliardi di dollari di investimenti in Iran, con Sinosure direttamente coinvolta in almeno 16 dei 54 progetti censiti. Dopo la firma dell’accordo di cooperazione strategica venticinquennale del 2021, la presenza cinese è esplosa: oleodotti, ferrovie, centrali elettriche, raffinerie e hub portuali finanziati da Pechino stanno trasformando il volto del Paese. Nonostante le prove raccolte da agenzie di intelligence, nessuna grande banca o impresa pubblica cinese è mai stata inclusa nella lista nera del Tesoro americano. Le sanzioni finora hanno colpito soltanto intermediari minori negli Emirati Arabi e a Hong Kong, accusati di favorire i trasferimenti. Né Sinosure né Chuxin sono state designate come entità sanzionate. Il ministero degli Esteri cinese ha respinto ogni accusa, definendo «illegittime» le misure unilaterali di Washington e ribadendo che il diritto internazionale consente una «normale cooperazione economica» tra Stati sovrani. Tuttavia, secondo l’economista Brad Parks di AidData, la struttura dell’intesa somiglia a un precedente modello adottato da Pechino in Iraq: un contratto ventennale in cui Sinosure garantiva prestiti a imprese cinesi in cambio di forniture petrolifere. «Ogni costruttore e ogni creditore coinvolto in Iran rientra in quella stessa logica», osserva Parks. Per l’Iran, soffocato da anni di embargo, questo scambio rappresenta una forma di respiro economico indispensabile. Il baratto con Pechino gli consente di mantenere i servizi essenziali e finanziare nuovi progetti industriali senza accesso diretto alle valute straniere. Per la Cina, invece, è un modo per rafforzare la sua influenza strategica lungo la Nuova Via della Seta e consolidare il controllo su una regione cruciale per le forniture energetiche globali. Washington continua a monitorare il fenomeno con crescente preoccupazione. Secondo il Dipartimento del Tesoro il sistema «mina la credibilità delle sanzioni» e alimenta la rete finanziaria che sostiene le milizie e le attività militari iraniane. Ma al di là delle condanne ufficiali gli Stati Uniti faticano a bloccare un meccanismo che non passa attraverso le banche, ma attraverso cantieri, acciaio e cemento. Oggi, mentre le petroliere continuano a solcare le acque del Golfo e le gru cinesi dominano i cieli di Teheran, l’accordo segreto tra i due Paesi dimostra che l’egemonia americana sul sistema finanziario globale non è più un dogma. Ogni barile che lascia i porti iraniani porta con sé un pezzo di autostrada, una centrale elettrica o un ponte costruito da Pechino. È il nuovo linguaggio del potere: meno dollari, più infrastrutture.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/greggio-in-cambio-di-cemento-2674179047.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="scoperto-un-nuovo-giacimento-di-gas" data-post-id="2674179047" data-published-at="1760362279" data-use-pagination="False"> Scoperto un nuovo giacimento di gas La scorsa settimana il ministro iraniano dell’Energia ha reso nota la scoperta di un vasto giacimento di idrocarburi nel sud del Paese, sottolineando che la nuova riserva potrebbe contribuire ad attenuare la crescente crisi energetica nazionale, aggravata dalle sanzioni internazionali e dal deterioramento delle strutture industriali. Mohsen Paknejad ha dichiarato che, durante recenti operazioni di esplorazione, i tecnici hanno individuato per la prima volta uno strato orizzontale contenente circa 200 milioni di barili di petrolio grezzo. Il giacimento, denominato Pazan, si trova nella provincia meridionale di Fars e si estende verso nord fino a lambire il territorio di Bushehr. Secondo il ministro, la nuova area «contiene anche circa 10 trilioni di piedi cubi di gas naturale e potrebbe avere un peso decisivo nel riequilibrare il sistema energetico iraniano negli anni a venire». Paknejad ha aggiunto che, «considerando un coefficiente di recupero del 70%, il volume di gas effettivamente estraibile ammonterebbe a circa 7 trilioni di piedi cubi», come riportato dai media ufficiali di Teheran.Nonostante le immense risorse naturali, il Paese continua a fare i conti con carenze strutturali: la domanda interna di elettricità e gas supera regolarmente la capacità produttiva, provocando blackout ricorrenti e rallentamenti industriali che pesano sull’economia. Le misure restrittive imposte dall’Occidente hanno impedito all’Iran di importare tecnologia e componenti per ammodernare i propri impianti, molti dei quali risalgono a decenni fa e non sono più in grado di garantire un’estrazione efficiente delle riserve note. Secondo un rapporto diffuso a luglio dall’Unione iraniana degli esportatori di petrolio, gas e prodotti petrolchimici, la situazione si è aggravata a partire da novembre 2024 proprio a causa dell’obsolescenza delle infrastrutture energetiche. La scoperta giunge in un momento di profonda recessione economica, segnata dal ripristino di nuove sanzioni. Alla fine di settembre, Francia, Germania e Regno Unito hanno deciso di riattivare parte delle misure dell’Onu, sostenendo che Teheran non avrebbe rispettato gli obblighi legati al proprio programma nucleare. Questa decisione ha ristabilito limiti severi alle esportazioni di idrocarburi e prodotti derivati, isolando ulteriormente il comparto energetico iraniano e scoraggiando gli investimenti esteri indispensabili per la modernizzazione del settore.Dati recenti della National Iranian Gas Company evidenziano che il consumo domestico di gas varia da 250 milioni di metri cubi giornalieri in estate a circa 650 milioni nei mesi invernali, generando un disavanzo di oltre 200 milioni di metri cubi al giorno. «L’Iran è oggi il terzo produttore mondiale di gas e il secondo Paese per riserve accertate. Tuttavia, secondo gli ultimi studi dei centri di ricerca energetica, il consumo nazionale è pari al doppio di quello dell’intera Unione Europea», ha spiegato a Iran International Reza Padidar, presidente della Commissione per lo sviluppo sostenibile, l’ambiente e gli standard della Camera di Commercio iraniana. Stando ai dati diffusi nel 2021 dalla Iranian Gas Engineering and Development Company, il fabbisogno energetico complessivo del Paese corrisponde a 2,2 miliardi di barili di greggio equivalenti: il gas copre il 72% del totale, il petrolio e i suoi derivati rappresentano il 26,5%, mentre carbone e altre fonti alternative incidono per meno dell’1,5%. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/greggio-in-cambio-di-cemento-2674179047.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="xi-riscrive-le-regole-del-commercio-per-loccidente-fermarlo-e-utopia" data-post-id="2674179047" data-published-at="1760362279" data-use-pagination="False"> «Xi riscrive le regole del commercio. Per l’Occidente fermarlo è utopia» Antonio Selvatici è un saggista e docente universitarioIn che modo strutture come Sinosure e Chuxin riescono a operare al di fuori del sistema bancario internazionale senza incorrere formalmente in violazioni delle sanzioni statunitensi?«Gli Stati Uniti stanno cercando attraverso sanzioni ed inserimento in black list di bloccare la vendita del petrolio di Teheran a Pechino. La lista è lunga, un assaggio: a maggio di quest’anno gli Stati Uniti hanno sanzionato la raffineria indipendente Hebei Xinhai Chemical Group. A luglio hanno sanzionato il terminal petrolifero cinese di Zhoushan Jinrun Petroleum Transfer Co. Ltd. Anche la Shandong Shouguang Luqinq Petrolchemical Co. nella provincia dello Shandong era stata individuata come acquirente di petrolio iraniano. È la caccia alle “teapots” (letteralmente “raffinerie teiere)”: soggetti indipendenti di modeste dimensioni che acquistano petrolio dall’Iran. Non solo “raffinerie teiere”. Per cercare di superare le sanzioni i metodi sono diversi tra cui il “blending”, la miscelazione con petrolio proveniente da altri siti, l’Sts (ship to ship) vale a dire trasferimenti da nave a nave da flotte ombra: vengono effettuati in mare, in zone tranquille (ad esempio nel Golfo dell’Oman). Modalità utilizzata anche dalle navi russe. Spesso le petroliere coinvolte sono registrate in Paesi con normative non severe (ad esempio Liberia e Gabon). Le navi coinvolte nei travasi eludono i sistemi di tracciamento marittimo (“spoofing”) nascondendo la propria identità, diventando fantasma. Stime recenti indicano che una quantità che varia dal 70 al 90% della produzione di petrolio iraniano viene acquistato dalla Cina. Ciò rende quasi impossibile bloccare il flusso».Quanto è strategico per Pechino il rapporto con Teheran nel quadro della sua espansione economica e politica in Medio Oriente e nella Belt and Road Initiative?«Un aspetto importante riguarda la valuta di pagamento degli scambi utilizzata anche per il passaggio del petrolio: il renminbi (lettarlmente “moneta del popolo”), non il dollaro. Dai petroldollari al petrolrenminbi? Il tentativo di espansione globale della Cina passa anche nel cercare d’imporre negli scambi internazionali la propria moneta sostituendo lo storico globalizzato dollaro. Ciò rientra in un ottica di conquista di spazi, esigenza conseguente all’espansione produttiva della Cina. Quella della “fabbrica del mondo” è una visione passata ed attuale. Mi spiego. La Cina continua ad essere il bacino produttivo del globo, ma il suo incredibile sviluppo alimentato dalla domanda e dal trasferimento di tecnologia occidentale la sta portando ad un livello produttivo d’eccellenza. Bisogna ammettere come la politica industriale e infrastrutturale imposta da Pechino abbia dato i suoi frutti. La Belt and Road Initiative si sta ampliando coinvolgendo altri Paesi. È il ternativo di formare un blocco economico, di relazioni e scambi preferenziali».Il modello «petrolio in cambio di infrastrutture» rappresenta un’opportunità per l’Iran o rischia di trasformarsi in una nuova forma di dipendenza economica dalla Cina?«Gli interessi sono reciproci. Per fare una giusta valutazione economica bisognerebbe sapere a quale prezzo (anche mediante baratto), la Cina acquista il petrolio da Teheran. Se l’Occidente embarga l’Iran, questo si rivolge a mercati e “fornitori amici” ben disposti a raggirare le sanzioni. Sembra anche che in cambio di petrolio vengano forniti dalla Cina all’Iran armamenti (“missili, droni e sistema di difesa aerea”). Recentemente una fonte avrebbe elencato le società cinesi coinvolte nello scambio».Perché gli Stati Uniti, pur conoscendo il ruolo di Sinosure e delle banche cinesi nel sostegno a Teheran, evitano di sanzionarle direttamente?«Evitano o non riescono? La quantità di merce, di petrolio, di armamenti che quotidianamente vengono scambiate aggirando le sanzioni (ciò riguarda anche la Russia) sono enormi. Proviamo solo ad immaginare l’utilizzo del dual use (duplice uso, possibile utilizzo di tecnologie civili in quelle militari) o le triangolazioni: il transito di merci attraverso Stati neutrali, ma amici di quelli sanzionati. È utopistico immaginare di bloccare tutti i rivoli che alimentano il grande fiume dell’economia parallela. Anche perché alcuni raggiri sfruttano ambiguità legislative».Questo canale di scambi paralleli tra Cina e Iran potrebbe ridimensionare in modo strutturale l’efficacia delle sanzioni occidentali e modificare gli equilibri del mercato energetico globale?«Paesi con modelli di governace simili si attraggono: da anni è noto il triangolo Pechino-Mosca-Teheran. A cui si aggiungono molti altri Paesi che potremo definire “ibridi”: hanno una forma di governo democratico, ma guidati da leader che si muovono con determinazione talvolta superando i confini della democrazia. Ad esempio la Turchia di Erdogan, l’Ungheria di Orbán e la Serbia con il presidente Vucic. Paesi in cui la Cina è molto presente economicamente e vanta una buona influenza. Le sanzioni vengo raggirate, ma gli equilibri energetici globali si adattano alla realtà del mercato. Del resto l’economia illegale è una parte dell’economia globale».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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