In un mondo in cui i flussi di denaro viaggiano alla velocità di un clic, la Guardia di Finanza è oggi la prima linea di difesa, impegnata a intercettare frodi, truffe online, riciclaggio e movimentazioni sospette che utilizzano criptovalute e piattaforme fintech. Ma quanto è realmente grande questa economia sommersa digitale? E quali sono i nuovi strumenti investigativi che permettono di seguirne le tracce e quali sono le tuffe piu’ diffuse sul web? Ne parliamo con il Generale Antonio Mancazzo Comandante del Nucleo Speciale Tutela Privacy e Frodi Tecnologiche della Guardia di Finanza.
Nel riquadro: Ferdinando Ametrano, ad di CheckSig (IStock)
L’ad di CheckSig Ferdinando Ametrano: «Questa cripto è trasferibile ma non duplicabile, quindi è “scarsa”, e non dipende dalla solvibilità altrui. Svolge la stessa funzione di una risorsa sicura».
I beni rifugio come l’oro continuano a crescere, così come i debiti complessivi, sempre più alle stelle. Ne parliamo con Ferdinando Ametrano, amministratore delegato di CheckSig e docente universitario su Bitcoin e cripto.
Oro, argento, platino record. E il Bitcoin?
«I metalli preziosi toccano nuovi massimi quando i mercati avvertono tensione: inflazione persistente, eccesso di debito, politiche monetarie accomodanti. In questi momenti, anche Bitcoin tende a muoversi nella stessa direzione, perché è l’equivalente digitale dell’oro: un bene rifugio alternativo, ma con un carattere più giovane e spigliato. Infatti, anche Bitcoin resta vicino ai massimi storici appena toccati a ottobre».
Perché Bitcoin può essere considerato oro digitale?
«Bitcoin è un bene digitale trasferibile ma non duplicabile, dunque davvero scarso - qualcosa di mai visto prima in ambito digitale. Il paragone con la scarsità dell’oro in natura è quindi immediato».
Perché la scarsità è rilevante?
«Se pensiamo al ruolo che l’oro ha avuto nella storia della civiltà e della moneta, possiamo intuire quanto l’emergere del suo equivalente digitale sia dirompente nell’era digitale e possa influenzare il futuro stesso della moneta e della finanza».
Oro, argento e Bitcoin non hanno debiti sottostanti. Per questo si comprano a mani basse? Preoccupa la crescita del debito mondiale?
«Sì, questo è il punto. Oro e Bitcoin non sono il credito di nessuno: non dipendono dalla solvibilità di un emittente, non promettono rendimenti futuri, semplicemente sono. In un mondo dove i debiti degli Stati crescono più del Pil, detenere qualcosa che non può essere stampato o ridenominato è una forma di assicurazione».
Ma il debito degli Stati non è affidabile? Non basta che sia sostenibile?
«La crescita del debito che abbiamo osservato negli ultimi 75 anni è esponenziale, quindi non sostenibile per definizione. La storia insegna che di fronte a un debito fuori controllo gli Stati possono solo dichiarare default: sul debito, non rimborsandolo, oppure sulla moneta, svalutandola. Non è allarmismo ma consapevolezza: il sistema regge solo finché c’è fiducia. Chi compra oro o Bitcoin preferisce comprare una fetta di fiducia fuori dal sistema».
L’oro posso metterlo al sicuro, ma quanto è sicuro un deposito in Bitcoin?
«Bitcoin è un bene digitale al portatore: la sicurezza dipende da come lo custodisci. Se lo tieni in self-custody, sei la banca di te stesso e non devi fidarti di nessuno. Ma questo comporta anche rischi: perdite per imperizia tecnica, aggressioni a scopo di furto, problemi di passaggio generazionale e adempimenti fiscali. Oltre alla fatica di dover dimostrare, magari tra dieci anni, la provenienza legittima di quei fondi. Se invece ti affidi a una custodia professionale, la sicurezza è più alta, ma delegata. In entrambi i casi l’importante è evitare l’improvvisazione: niente borse di scambio esotiche o wallet improvvisati».
Cosa chiedere agli intermediari cripto per stare sicuri?
«La tecnologia offre già soluzioni di livello istituzionale, come quelle di CheckSig; quello che manca spesso è la cultura operativa dell’investitore. Bisogna pretendere da tutti gli intermediari garanzie assicurative, audit indipendenti, prove-di-riserva pubbliche e la funzione di sostituto d’imposta».
Non solo Bitcoin: anche Ether, Solana, Tether hanno capitalizzazioni importanti. Qual è la differenza?
«Bitcoin nasce per essere uno standard di riserva digitale. Ethereum e Solana, invece, sono piattaforme di calcolo distribuito su cui si costruiscono applicazioni decentralizzate. Tether e le altre stablecoin sono strumenti transazionali ancorati al dollaro: non scarsi ma utili per muovere valore. Sugli stablecoin si gioca la più grande partita geopolitica del momento: le valute tradizionali cercano di fronteggiare Bitcoin sul terreno della tecnologia».
In Europa si parla positivamente dell’Euro digitale, negli Stati Uniti di Bitcoin e stablecoin. Chi ha ragione?
«Ha ragione chi coniuga innovazione e libertà, come stanno facendo gli Stati Uniti. L’Europa è più prudente e regolatoria, l’America più sperimentale. L’Euro digitale potrà funzionare solo se garantirà privacy e interoperabilità con il mondo cripto; altrimenti rischia di restare un progetto burocratico, peraltro avversato dalle banche che dovrebbero sostenerne i costi rinunciando ai ricavi degli attuali sistemi di pagamento. Bitcoin, invece, è già qui: la vera sfida sarà usarlo come asset di riserva per nuove monete digitali».
Il 9% degli italiani possiede investimenti in cripto. Quanto sono consapevoli?
«Molti ci sono arrivati per curiosità ma oggi è cresciuta una fascia di utenti maturi: capisce la differenza tra Bitcoin e il resto, tra investimento e speculazione. C’è ancora molto lavoro da fare sul fronte educativo: pochi sanno cosa significa detenere un asset senza controparte o come gestire la sicurezza. Però è un segnale importante: l’Italia non è spettatrice, è entrata nel gioco».
Si parla spesso di rischio bolla sulle cripto. Esiste davvero?
«Il rischio bolla fa parte di ogni rivoluzione tecnologica, è successo anche per Internet. Ma non bisogna confondere la bolla con l’innovazione. Chi soffia sul rischio bolla, lo fa spesso in malafede: teme la disintermediazione o tenta di arginare quello che non ha saputo capire. La vera domanda è se dietro la volatilità ci sia una struttura solida. Nel caso di Bitcoin, la risposta è ormai evidente».
Potremo mai comprare casa in Bitcoin?
«In teoria sì, in pratica restano vincoli legali e fiscali: la compravendita in Bitcoin è possibile, ma va tradotta in euro al momento del rogito, per ragioni di certezza giuridica e antiriciclaggio. Ma la difficoltà insormontabile è che Bitcoin non è stabile nel potere d’acquisto. Chi nel 2010 ha pagato 10.000 Bitcoin per due pizze - oltre un miliardo di dollari ai corsi attuali - non ha fatto un grande affare. Bitcoin non è buona moneta bensì straordinario oro digitale.
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Grazie anche all’azione di Trump, il 2025 si sta rivelando un anno di consolidamento per il settore. Si tratta tuttavia di un mondo ancora soggetto a importanti alti e bassi, per cui occorre prudenza.
Il 2025 si sta rivelando un anno di consolidamento per il cripto-ecosistema: dopo i picchi del 2024, la capitalizzazione torna a correre a ondate, senza l’euforia di un tempo. La scorsa settimana il mercato globale ha superato di nuovo area 4.100 miliardi di dollari, un livello già toccato in estate, prima di ritracciare di poco: la soglia dei 4.0-4.1 trilioni è ormai un barometro di sentiment seguitissimo.
«Bitcoin rimane il re, ma gli sfidanti si fanno notare», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «L’analisi dei dati di mercato rivela una chiara diversificazione delle performance. Sebbene Bitcoin mantenga la sua centralità, altri asset digitali provano a guadagnare terreno sorretti dalle storie di applicazioni nuove e crescenti. E gli Etp che replicano l’andamento delle criptovalute offrono una visione chiara di questa tendenza pur se va detto che maggiore è l’adozione delle criptovalute maggiore sta diventando la correlazione con i mercati come quello azionario e in particolare il Nasdaq». Il quadro di breve lo conferma: quando l’azionario tech scricchiola, gli altcoin soffrono più di Btc; viceversa, nei rimbalzi alcuni token recuperano con più slancio. Sul fronte dell’accesso, la svolta è arrivata con l’approvazione (10 gennaio 2024) dei primi etf/etp spot su Bitcoin negli Stati Uniti e il lancio dell’iShares Bitcoin Trust (Ibit) di BlackRock. Da allora i flussi hanno «istituzionalizzato» l’asset class e contribuito alla profondità del mercato.
Accanto a ciò è esploso il fenomeno delle «Bitcoin Treasury Company»: società che emettono azioni o debito per accumulare Btc in bilancio, con MicroStrategy a fare scuola. Nel 2025 il modello ha ispirato altri operatori, inclusa l’area Trump Media & Technology Group, che ha avviato un «bitcoin treasury plan» dopo il via libera regolamentare.
La politica ha aggiunto un ulteriore «turbo». Con la rielezione di Donald Trump, la Casa Bianca ha promesso di fare degli Stati Uniti «la undisputed Bitcoin superpower e la crypto capital del mondo», mentre il Tesoro ha rivendicato una roadmap pro innovazione. Nel frattempo, le stablecoin si confermano ponte tra finanza tradizionale e digitale: Tether dichiara oltre 127 miliardi di dollari in Treasury in riserva, Circle espone riserve in T-bill e repo tramite un fondo 2a-7. Sul versante «azionario cripto», gli etf tematici su blockchain e mining hanno messo a segno performance di gran lunga superiori a +30% da inizio anno (Bkch, Blok, Wgmi), segno che il mercato premia approcci più ampi - o, secondo i critici, più speculativi - che combinano esposizione diretta e indiretta. Resta però il rischio di ciclicità elevata e correlazione crescente con gli indici tech.
Per l’investitore retail l’offerta si è semplificata. «Gli tp consentono di acquisire esposizione alle criptovalute senza la necessità di acquistarle direttamente, un po’ come se fossero dei titoli azionari», spiega Gaziano. L’avvertenza, però, è sempre la stessa: disciplina nelle dimensioni e nella gestione: le altcoin restano volatili e i drawdown rapidi.
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Juventus (Ansa). Nei riquadri, Paolo Ardonio e Giancarlo Devasini, inventori di Tether
La Tether di Paolo Ardoino e Giancarlo Devasini ha, però, un altro obiettivo: scalzare l’euro digitale.
Scalare la Juventus degli Agnelli Elkann con i soldi degli africani. Giancarlo Devasini e Paolo Ardoino, maghi delle criptovalute e inventori di Tether, sono destinati a entrare nella storia della finanza solidale. Anche se dalla porta della cucina. La loro stablecoin, una moneta digitale agganciata al dollaro Usa, vanta oltre 400 milioni di utenti e ha una capitalizzazione di mercato di 135 miliardi di euro. I detentori di Tether sono individui e Stati in via di sviluppo, come la Nigeria e i suoi 227 milioni di abitanti, che le banche tradizionali hanno dimenticato e ai quali questa coppia di italiani offre l’accesso al tempio del Capitale: il biglietto verde. A febbraio, sono spuntati con il 5% nella squadra di calcio più blasonata d’Italia e si sono messi, dicono loro, a disposizione della società che amano teneramente fin da bambini. La prima risposta di John Elkann è stata una porta in faccia: «Non vendiamo». Loro hanno continuato a rastrellare azioni in Borsa e due mesi dopo erano già saliti al 10. Lamentandosi: «Vogliamo cacciare il grano ma non ce lo permettono», ha spiegato il frontman Ardoino ai tifosi. Sarà una guerra di trincea, perché i maghi della cripto non demordono e stanno cercando anche sponde a Roma, nel governo. Che cosa vogliono ottenere? Il bersaglio grosso è spingere Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti a non appoggiare l’euro digitale. E al ministro dell’Economia, intanto, Tether chiede di rivedere le restrizioni sulle criptovalute.[...] Tether nasce nel 2012 grazie all’intuizione di Devasini, che crea un’infrastruttura tecnologica per lo scambio di valute digitali e una stablecoin, ovvero una moneta agganciata al valore del dollaro per limitare le fluttuazioni delle cripto più garibaldine. Da un paio d’anni la società ha sede nel Salvador e ha un’importante base operativa a Lugano, dove Tether è accettato in moltissimi negozi, e ha solidi rapporti con banche svizzere, oltre che con quelle del Far East. [...] Tether però si ostina a non presentare bilanci. Inoltre, non è più acquistabile sulle piattaforme europee perché non è in regola con la normativa Micar, che impone di conservare il 60% delle riserve presso banche Ue. Tether punta ai soggetti «non bancabili», intesi come singoli risparmiatori, investitori o intere nazioni in via di sviluppo, magari in default, o in grave crisi. Si tratta di circa tre miliardi di persone alle quali Devasini e soci offrono servizi rapidi ed efficienti, come le rimesse e i trasferimenti di denaro, e con il suo ancoraggio al dollaro diventa anche uno scudo rispetto a ciò che davvero terrorizza gli abitanti dei Paesi africani (dove ha il 70% di quota di mercato): l’inflazione galoppante. In più, questi soldi stanno fisicamente in un posto assai comodo: il telefonino. Utenti africani, sudamericani o dell’Estremo oriente consegnano dollari in cambio di un token coniato dall’azienda stessa, chiamato Usdt. Tether a sua volta detiene garanzie collaterali, sotto forma di buoni del Tesoro Usa, fondi comuni, bitcoin o prestiti garantiti. Su questa specie di riserva guadagna i normali rendimenti di mercato. [...] Chi ha studiato bene le stablecoin è Fabio Panetta. Il governatore della Banca d’Italia, padre putativo dell’euro digitale, mette in guardia da anni sui rischi [...]: «Se grandi piattaforme tecnologiche estere decidessero di promuoverne l’uso nei pagamenti tra i propri clienti, i mezzi di pagamento tradizionali utilizzati a livello nazionale come banconote e carte potrebbero essere spiazzati». [...]
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Paolo Savona (Ansa)
Per il governatore di Banca d'Italia non bastano i divieti. Poi dà l’allarme su costo dell’energia e dazi: a rischio un punto di crescita.
Dazi, criptovalute, costo dell’energia, importanza del Pnrr. Sono solo alcuni degli argomenti che il numero uno della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha citato all’interno delle sue considerazioni finali, in occasione della presentazione a Palazzo Koch della relazione annuale relativa al 2024.
In particolare, il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha messo in guardia dagli effetti negativi dell’inasprimento delle barriere doganali, sottolineando come «potrebbe sottrarre quasi un punto percentuale alla crescita mondiale nell’arco di un biennio». Negli Stati Uniti, ha aggiunto, «l’effetto stimato è circa il doppio». Nel suo intervento, Panetta ha aperto il discorso richiamando l’attenzione sulle tensioni commerciali e sui conflitti geopolitici in corso, che stanno minando la fiducia a livello globale. Ha ricordato che, nelle scorse settimane, il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al ribasso le stime di crescita mondiale per i prossimi due anni, portandole a meno del 3%, un livello inferiore alla media registrata nei decenni passati.
Secondo Panetta, l’aumento dei dazi «potrebbe comportare una minore domanda di lavoro e un aumento delle pressioni inflazionistiche, in una fase già caratterizzata da aspettative di inflazione in rialzo». Inoltre, ha aggiunto, «stanno incidendo negativamente sulla fiducia di famiglie e imprese, con possibili ripercussioni su consumi e investimenti». Panetta ha ricordato che i dazi attualmente applicati dagli Stati Uniti, sebbene inferiori a quelli annunciati all’inizio di aprile, rappresentano comunque il livello più alto dal secondo dopoguerra. Tali misure, ha sottolineato, «sembrano essere utilizzate come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici internazionali».
Panetta ha anche puntato l’accento sui rischi legati alle criptovalute, strumenti di cui riconosce che «sarebbe illusorio pensare che l’evoluzione del settore possa essere governata solo con divieti o vincoli normativi». E da questo punto di vista è difficile non vedere una punzecchiatura al presidente della Consob, Paolo Savona, che continua a invocare una regolamentazione ferrea per le cripto e anzi chiede che non vengano legittimate. Nel corso delle sue considerazioni finali, ha sottolineato la necessità di affrontare le sfide poste da questo settore in rapida trasformazione «attraverso la cooperazione internazionale», ambito nel quale l’Europa può giocare un «ruolo guida», anche grazie allo sviluppo del progetto dell’euro digitale. «Serve una risposta all’altezza della trasformazione tecnologica in atto, capace di soddisfare la domanda di strumenti digitali di pagamento sicuri, efficienti e accessibili, preservando il ruolo della moneta di banca centrale. Il progetto dell’euro digitale nasce esattamente da questa esigenza», ha detto Panetta. Certo, i pericoli legati alle cripto, «devono essere attentamente presidiati», in particolare quelli «reputazionali legati all’offerta di cripto da parte delle banche». Secondo Panetta, infatti, «vi è il pericolo» che i risparmiatori «li confondano con prodotti bancari tradizionali, con ripercussioni negative sulla fiducia nel sistema creditizio in caso di perdite».
Un altro rischio per l’Italia, secondo il numero uno di Bankitalia, è rappresentato dai costi legati all’energia. «In Italia, più che altrove in Europa, è urgente intervenire sul costo dell’energia, seguendo le direttrici già tracciate: ampliando il ricorso a fonti pulite, incentivando i contratti a lungo termine e rafforzando infrastrutture e reti di trasmissione. Servono investimenti adeguati e una netta semplificazione delle procedure autorizzative per i nuovi impianti».
Panetta, ha anche ricordato che l’Italia ha finora ricevuto 122 miliardi di euro nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, utilizzandone la metà. «Il pagamento delle prossime rate», ha precisato, «dipenderà dal raggiungimento di obiettivi relativi alla realizzazione di opere pubbliche; a tale riguardo, i dati attualmente disponibili suggeriscono l’esistenza di ritardi». Se però tutto andrà secondo i piani, «gli interventi previsti per il biennio 2025-26 potrebbero innalzare il Pil dello 0,5%».
Panetta ha anche ribadito l’importanza di «introdurre un titolo pubblico europeo, con un duplice obiettivo: finanziare la componente pubblica degli investimenti e fornire un riferimento comune, solido e credibile all’intero sistema finanziario». Secondo le stime della Banca d’Italia, un mercato dei capitali pienamente integrato, centrato su un titolo comune europeo, permetterebbe di ridurre i costi di finanziamento per le imprese, stimolando investimenti aggiuntivi pari a 150 miliardi di euro l’anno e contribuendo, a regime, a un aumento del prodotto dell’1,5%. Panetta ha aggiunto che «l’effetto sul Pil potrebbe risultare fino a tre volte maggiore se i nuovi investimenti fossero destinati a progetti ad alto contenuto tecnologico».
Panetta quindi ha ribadito che in Italia «il problema centrale rimane la produttività, nella manifattura come nel resto dell’economia. Gli incrementi finora conseguiti sono incoraggianti, ma non bastano a sostenere lo sviluppo del Paese. Il basso livello dei salari riflette questa debolezza». Condivide l’analisi di Panetta, l’ad di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina: «Ritengo che abbia dato una visione del paese positiva, condividiamo in pieno l’analisi sulla possibilità di crescita e sul fatto che il Paese non è in nessun modo in declino ma anzi ha un potenziale di crescita».
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