«Dati sensibili quindi coperti». Con questa motivazione il Comune di Bologna guidato da Matteo Lepore del Pd impedisce alla Lega, in minoranza nella giunta di sinistra, di visionare i documenti relativi alla manifestazione per l’Europa unita (anche se poi la bandiera blu con le 12 stelle dorate è stata bruciata) organizzata domenica scorsa in piazza Nettuno alla quale hanno partecipato sindaci, attori, artisti. E così Matteo Di Benedetto, capogruppo della Lega in municipio ha presentato un esposto alla Prefettura e ne presenterà «un altro anche alla Corte dei conti, quando avrò raccolto tutta la documentazione sulla protesta organizzata da Lepore», spiega il leghista. L’allerta sui costi subito dopo il caso di Roma, dove il sindaco Roberto Gualtieri ha sborsato 300.000 euro di fondi pubblici per finanziare la manifestazione pro Europa organizzata dal giornalista Michele Serra. Lepore era stato vago: «Costi? Da parte dell’amministrazione comunale non ce ne saranno». Nella scorsa settimana, Fratelli d’Italia e Lega hanno chiesto più volte chi avrebbe pagato l’evento organizzato anche con il sindaco di Firenze Sara Funaro, hanno anche presentato un’interrogazione ma Lepore non si è mai presentato in aula fino a rassicurare: «La manifestazione costerà 20.000 euro e la cifra sarà interamente spesa per l’organizzazione e l’allestimento del palco in piazza. Non ci saranno gettoni di presenza e tutti quelli che verranno lo faranno a titolo gratuito. Non pagherà il Comune ma soggetti privati che si sono offerti di fare da sponsor». Una cifra molto più bassa di quella spesa dal collega Gualtieri nella Capitale e che non convince Di Benedetto, soprattutto perché i nomi dei privati sono top secret malgrado in qualità di consigliere comunale abbia pieno diritto di accedere a tutta la documentazione della pubblica amministrazione. «Vogliamo capire se tra questi privati ci sono fondazioni o associazioni che ricevono soldi dal Comune», ha chiarito Di Benedetto, «Ad alcune di queste fondazioni abbiamo fatto richiesta di accesso agli atti, come avevamo già fatto con gli uffici del sindaco ma siamo ancora in attesa». Senza tralasciare che per l’intera organizzazione per una manifestazione come «non di partito» hanno lavorato alcuni uffici comunali, di domenica, quindi facendo straordinari. Nei giorni scorsi Di Benedetto aveva sottolineato: «Questa appropriazione della cosa pubblica da parte di un partito è inaccettabile in un Paese autenticamente democratico. Lepore dovrebbe utilizzare le sue risorse e farlo come privato, invece piega la cosa pubblica a interessi di parte usando la struttura comunale per organizzare una manifestazione politica di sinistra». In sostanza il leghista vuole raccogliere tutta la documentazione relativa all’evento per poi presentare un ulteriore esposto anche alla Corte dei conti, ma per farlo, dice, «devo avere ogni documento esistente. Uno di questi, la determina numero n.198575/2025, è presente a sistema dal 1 aprile, eppure, da allora l’amministrazione mi impedisce di prenderne visione». Per questo, dopo ripetuti tentativi e richieste di spiegazioni, Di Benedetto ha presentato l’esposto al Prefetto a cui chiede che «si adoperi al fine di garantire l’imparzialità e la trasparenza dell’azione della pubblica amministrazione e interloquisca col sindaco perché consegni la documentazione richiesta. Non è più accettabile questo atteggiamento da parte di chi dovrebbe essere imparziale, trasparente e Sindaco di tutti».
Tralasciando la posizione del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che pure aveva spiegato come «sulla segretezza degli atti» a decidere «era il ministero e non la magistratura», a Roma, sul reato di rivelazione del segreto d’ufficio, devono esserci delle linee interpretative diametralmente opposte tra i magistrati della Procura e i giudici del Tribunale. Già il gip Emanuela Attura, esponente della corrente di Areadg, sconfessando i pm, aveva imposto l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. D’altra parte, il ragionamento cerchiobottista della Procura nella richiesta di archiviazione che prospettava sì la violazione del segreto amministrativo ma senza «l’elemento soggettivo» del reato, ovvero il dolo, da applicare a un sottosegretario alla Giustizia, avvocato peraltro, e quindi giurisperito, era davvero difficile da accogliere. E l’aver chiesto ieri in aula l’assoluzione partendo dallo stesso ragionamento, ovvero che Delmastro non poteva sapere che le informazioni che aveva diffuso fossero segrete, deve aver indispettito pure i giudici del Tribunale. Nel collegio c’era Emilia Conforti, pure lei, come la Attura, di Areadg, già candidata al Csm e recentemente eletta nel comitato direttivo centrale dell’Anm. Era tra le toghe che hanno manifestato all’inaugurazione dell’anno giudiziario contro la riforma Nordio, immortalata sulla scala del Palazzo di giustizia mente mostrava un cartello con uno slogan che avrebbe dovuto ricordare dove era «nata la Costituzione».
E ora ha giudicato il sottosegretario di Nordio. Risultato: una condanna, riconosciute le attenuanti generiche, a 8 mesi di reclusione con sospensione della pena e l’interdizione di 1 anno dai pubblici uffici (respinte, invece, le richieste di risarcimento avanzate dalle parti civili, quattro parlamentari del Pd). «L’esistenza di questa forma di segreto è indiscutibile», ha argomentato il procuratore aggiunto Paolo Ielo, per poi chiedersi: «Foste stati voi nei panni dell’imputato avreste saputo che era segreto? No, io non lo avrei saputo…». Più o meno la stessa teoria che a Brescia (dove la Procura invece aveva chiesto la condanna) ha salvato il pm Paolo Storari da una condanna per aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria. Lì, in sostanza, l’ipotesi che una toga non sapesse che quei verbali coperti da segreto un consigliere del Csm non avrebbe potuto leggerli ha retto. Per Delmastro, invece, l’aver fornito a Giovanni Donzelli, che in Parlamento, dopo la visita di quattro parlamentari dem (Andrea Orlando, Debora Serracchiani, Walter Verini e Silvio Lai) all’anarchico Alfredo Cospito, denunciò le chiacchierate dell’arruffapopoli detenuto in 41 bis e all’epoca in sciopero della fame con un boss della camorra, un killer della ’ndrangheta e uno degli uomini che avrebbero dovuto azionare l’esplosivo della strage di Capaci, uno stralcio di una relazione della polizia penitenziaria, il dolo eventuale non conta.
Le informazioni arrivavano dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che fa capo proprio al sottosegretario alla Giustizia. Di quella relazione, quindi, Delmastro poteva disporre. L’aveva spiegato anche Sebastiano Ardita, magistrato antimafia e già direttore del Dap per nove anni: «Ho sentito parlare di documenti riservati. Ma non è affatto così. Si tratta di atti che il ministero può e deve utilizzare. E rendere pubblici se intende». Ardita aveva anche aggiunto che «il sottosegretario alla Giustizia ne dispone legittimamente. E non vedo perché non possa comunicarne il contenuto a un membro del Parlamento». Infine aveva ricordato l’esistenza di alcuni precedenti: «In passato i ministri della Giustizia innumerevoli volte hanno fatto utilizzo di queste note. E ne hanno fatto anche oggetto di comunicazioni pubbliche». Un’argomentazione sull’atto anziché sul presunto «tonto» Delmastro, insomma, con molta probabilità sarebbe stata più efficace. Ma il pm Rosalia Affinito, che ha affiancato Ielo, ha ribadito che il segreto amministrativo esisteva «per legge».
«Sono disorientato e addolorato», ha commentato a caldo Nordio, confidando «in una radicale riforma della decisione in sede di impugnazione». E mentre a Delmastro non resta che sperare «in un giudice a Berlino», come ha affermato con i giornalisti subito dopo la lettura del dispositivo, annunciando di non avere intenzione di dimettersi, le opposizioni hanno subito chiesto la sua testa. Il leader di Alleanza verdi sinistra Angelo Bonelli, autore dell’esposto, l’ha buttata in politica: «Come può Meloni mantenere Delmastro come viceministro?». Elly Schlein: «La condanna dimostra l’inadeguatezza di questa classe dirigente. Meloni lo faccia dimettere». Non poteva mancare Giuseppe Conte: «La principale colpevole di questo andazzo è Meloni che chiedeva le dimissioni di tutti dall’opposizione e ha perso la coerenza a Colle Oppio. Poltrone piene di colla per i suoi amichetti». La risposta di Giorgia Meloni non si è fatta attendere: «Sono sconcertata per la sentenza di condanna. Mi chiedo se il giudizio sia realmente basato sul merito della questione. Il sottosegretario Delmastro rimane al suo posto». Fine dei giochi. Il primo ad aver recepito il concetto deve essere stato Nicola Fratoianni di Avs, che in subordine ha chiesto le dimissioni «del direttore di Rai News», reo di aver «assolto» Delmastro prima della sentenza, scambiando la richiesta dei pm per la decisione dei giudici. Perché alla fine, pur senza argomentazioni, ciò che davvero conta per le opposizioni è che qualcuno si dimetta.
Se si vuole toccare con mano il groviglio amoroso tra Pd-magistrati e grandi opere pubbliche basta andare al tribunale di Roma, dove è in corso il processo contro il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, per l’affaire Cospito. All’udienza di ieri, a far domande ai testimoni, come legale di quattro deputati del Pd ammessi come parti civili c’era David Ermini. Sì, proprio lui, l’ex renziano e deputato dem, indimenticato vicepresidente di un Csm travolto dal caso Palamara, ex consigliere di Emily Schlein per la giustizia e fresco di incarico come presidente della holding di Aldo Spinelli, il reuccio dei porti liguri e toscani che è tra i protagonisti dell’inchiesta che ha travolto Giovanni Toti. E a proposito di Liguria, come non bastasse, tra i quattro piddini che si sono costituiti in giudizio contro Delmastro c’è pure Andrea Orlando, candidato del campo largo a prendere il posto di Toti. All’incontenibile Ermini manca solo di difendere qualche Ong importa-migranti contro il governo e al prossimo giro finisce dritto alla Corte costituzionale.
Ieri si è tenuta una nuova udienza del processo contro Delmastro, accusato di aver spifferato all’amico Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia, una serie di informazioni sul 42 bis applicato all’anarchico Alfredo Cospito. Donzelli, poi, nel corso di un intervento a Montecitorio, avrebbe utilizzato queste notizie, che i pm ritengono fossero coperte da segreto d’ufficio. Ieri, sentito come testimone, Donzelli non ha avuto dubbi: sia prima che dopo l’intervento in Aula, «Delmastro mi ha confermato che non erano notizie segrete e che aveva chiesto conferma in proposito al magistrato Sebastiano Ardita», toga stimatissima e che per giunta è considerato un po’ il papà del carcere duro per i boss. Ma a parte questo, c’è un fronte insidioso con il Pd, perché Donzelli svelò che quattro suoi esponenti, Walter Verini, Debora Serracchiani, Andrea Orlando ed Enrico Lai, avevano incontrato Cospito dietro le sbarre. Gli interessati fecero notare che rientra tra le normali prerogative dei parlamentari andare a visitare i carcerati, oltre al fatto che Cospito aveva problemi di salute e c’erano anche delle ragioni umanitarie. Del resto, chi ricorda la stagione degli anni di piombo sa che ogni partito ha sempre mandato i propri deputati a trovare i terroristi di destra o di sinistra. Ma nel pieno delle polemiche, con il Pd che faceva di tutto per far dimettere Delmastro, da Fdi arrivarono parole forti e si parlò di «inchino del Pd ai mafiosi». A rendere la storia decisamente surreale è che Verini e Serracchiani hanno scelto come loro avvocato proprio Ermini, che ieri si è presentato in aula a far domande a Delmastro. Nulla di illegale, ma ai tempi del vecchio Pci, quando l’avvocato del partito era Guido Calvi, non avrebbero mai consentito un pasticcio simile.
Per mesi, il centrosinistra e i giornali che lo appoggiano hanno cercato di far credere che se a Genova e in Liguria gli armatori e i gestori delle banchine fanno quello che vogliono è perché erano amici del solo Toti, mentre il sistema è decisamente trasversale ai partiti. E mentre alcuni ministri e il centrodestra denunciavano un accanimento delle toghe contro Toti, per mesi agli arresti prima di dimettersi e patteggiare come Spinelli, il Pd rispondeva che era tutto normale e che bisognava rispettare il lavoro della Procura. Poi arriva l’ex senatore Ermini, ex vicepresidente del Csm, ex renziano, ex consigliere della Schlein, legato all’ex guardasigilli Orlando, da oltre 10 anni gran ciambellano dei rapporti tra centrosinistra e toghe di area, e nel giro di poche settimane fa bingo: presidenza della holding di Spinelli, l’accusatore di Toti, e difesa degli ex compagni di partito in un processo che potrebbe costare a Delmastro il posto in Via Arenula. Ma non potevano rivolgersi all’avvocato Antonino Ingroia, così, per cambiare?
L’eterno ritorno dei compagni che sbagliano. Quattro marzo 2023. Torino diventa un campo di battaglia. Il corteo per il terrorista Alfredo Cospito, detenuto al 41 bis, è il passato che non vuole passare.
Negozi distrutti, auto danneggiate, vetrine in frantumi, cartelli divelti, cassonetti incendiati. Una sfida contro lo Stato, che ha osato il carcere duro. E la minaccia di vendicare il torto subito. Adesso sono indagati 75 anarchici. E altri 19 hanno ricevuto misure cautelari, tra cui diversi arresti domiciliari. Mascherati con sciarpe, passamontagna, caschi e maschere, sfilano più di un anno fa in centro a Torino scandendo slogan in odio a governo e carceri. I protagonisti dell’inchiesta sono la frangia più violenta di quel corteo di 400 antagonisti. Che non mettono solo a ferro e fuoco la città. Contro gli agenti lanciano petardi, bombe carta, sassi e bottiglie.
I reati contestati ora agli anarchici sono devastazione, violenza e lesioni aggravate a pubblico ufficiale. E risponderanno anche degli ingenti danni: 630.000 euro. «Plurimi danneggiamenti protrattisi per oltre due ore» scrive il gip del tribunale di Torino, nella corposa ordinanza di custodia cautelare che ricostruisce quel pomeriggio di un giorno da cani.
«L’azione violenta ha interessato beni sia pubblici che privati, colpiti in modo indiscriminato e fine a se stesso». Sfigurando una zona centrale della città. Costringendo i residenti a rifugiarsi dentro i palazzi e i titolari dei negozi a chiudere le saracinesche. «Il corteo anarchico ha dunque provocato un significativo pericolo per l’ordine pubblico» aggiunge il giudice. Che insiste sull’«assetto paramilitare del corteo». Le «barricate create ad arte» con «cassonetti incendiati, reti metalliche, scudi rinforzati e arredi urbani» hanno «impedito l’intervento della forza pubblica». Una dettagliata pianificazione criminale confermata anche da una precisa ripartizione di ruoli tra capi e capetti, che comunicavano pure con le ricetrasmittenti. Il gip parla, infatti, di «inequivocabile preordinata organizzazione delle azioni violente». L’avanzamento come una falange, i manifestanti mascherati, il continuo lancio di fumogeni, la coda del corteo che crea «barriere protettive». Serie di eventi «del tutto incompatibile con azioni sporadiche e casuali dei singoli partecipanti».
Torniamo allora a quello scellerato 4 marzo 2023. Tutto fila liscio fino alle 18.30. Ma quando parte la manifestazione, gli anarchici si nascondono dietro un grande telo bianco. Sono i fumogeni ad annunciare quella che il gip definisce la «mutazione del corteo». Indossano maschere, caschi ed elmetti. Comincia l’assalto. Cassonetti, tavoli e reti vengono piazzate sul percorso per impedire l’intervento degli agenti. Dove passano i barbari rossi, non cresce più l’erba, già scarsina in città. Tutto distrutto. L’ordinanza compendia i risultati dello sfacelo: porte, vetrine, tre istituti banche, un’agenzia immobiliare, cinque esercizi commerciali, una società, un supermercato, la galleria d’arte, ventuno macchine. Oltre che le devastazioni di beni pubblici, ovviamente: dai parchimetri alla segnaletica. Sampietrini, bombe carta, fumogeni, bottiglie e petardi colpiscono gli agenti che tentano di fermare quella furia bestiale. Alcuni vengono feriti: il più grave avrà una prognosi di cento giorni. E può andar peggio. Come spiega l’ordinanza, c’è allora un «rischio elevato di conseguenze per l’incolumità delle persone: sia in ragione della conformazione dei luoghi, sia tenuto conto della significativa presenza, il sabato pomeriggio, di numerosi cittadini».
In testa al corteo c’è una leggenda dell’anarco-insurrezionalismo italico: Pasquale Valitutti, finito ai domiciliari. Testimone controverso nella notte fra il 14 e il 15 dicembre 1969 quando morì Giuseppe Pinelli, «Lello» era in questura a Milano, tra i fermati per la strage di piazza Fontana, assieme anche a Pietro Valpreda. Nei cortei, compreso quello per cui adesso è stato arrestato, Valitutti procede con la sua sedia a rotelle elettrica, il berretto di lana sul capo e le lenti spesse. Settantasei anni. E mezzo secolo di indomita lotta. L’ordinanza riferisce il suo grido di guerra per il compagno Alfredo: «Gli anarchici storicamente non dimenticano i loro nemici. Non lo hanno mai fatto. Quando si creeranno le condizioni storiche, questa gente pagherà». E poi, a convalidare le minacce: «Quando cambieranno i tempi, nel corso della storia, loro pagheranno per ciò che hanno fatto».
E quel corteo «paramilitare» è l’avvisaglia. Un messaggio allo Stato. Anzi, al governo di centrodestra. Il giudice passa in rassegna le scritte minacciose, tra cui quelle contro il ministro della Giustizia: «Nordio boia» oppure «Nordio appeso». Peccato che la firma per mandare Cospito al 41 bis l’abbia messa chi l’ha preceduto in via Arenula: Marta Cartabia. Ma, come spiega Valitutti, Nordio «si è allineato a Meloni». Lotta dura e senza paura. Soprattutto adesso, quando di rosso a Palazzo Chigi non è rimasto nemmeno un fioco riverbero.
Alfredo Cospito dovrà restare detenuto in regime di 41 bis. La Cassazione ha dichiarato inammissibile l’istanza presentata dal legale dell’anarco-insurrezionalista contro la decisione e del tribunale di Sorveglianza di Roma che il 23 ottobre scorso aveva confermato il carcere duro per l’uomo, attualmente detenuto nel penitenziario di massima sicurezza di Bancali, in provincia di Sassari. Nel corso dell’udienza di martedì il procuratore generale della Cassazione si era espresso con un parere negativo al ricorso presentato dal difensore di Cospito, Flavio Rossi Albertini, che ieri ha reso nota la decisione della Suprema Corte. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha commentato così il provvedimento della Cassazione: «Abbiamo sempre difeso le istituzioni democratiche dalle violenze del terrorismo, senza alcuna indulgenza e senza farci intimorire. Con la decisione di oggi la Cassazione conferma che vi erano e vi sono attualmente tutti i presupposti giuridici per il mantenimento del carcere duro a carico di Cospito. Una decisione che conferma indirettamente la fondatezza e la legittimità delle posizioni del governo: nessun cedimento, nessun arretramento, nessun tentennamento nel contrasto frontale al terrorismo anarchico, soprattutto se si connota per la sua attuale carica rivoluzionaria violenta e eversiva». Per il responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli «Pd e benpensanti di sinistra hanno fatto credere a lungo all’opinione pubblica che Cospito fosse vittima di un sopruso. La Cassazione ha detto che avevamo ragione noi a difendere l’utilizzo dello strumento del carcere duro per arginare il pericolo rappresentato da anarchici, terroristi e mafiosi». Secondo Rossi Albertini, invece, alla luce della conferma del regime speciale per il suo assistito, e in base alle dichiarazioni degli esponenti della maggioranza di governo, «sorge il fondato sospetto che la vicenda Cospito sia stata profondamente influenzata dalla politica».
Nell’autunno del 2022, per protestare contro il regime speciale di detenzione a cui era sottoposto, l’anarchico si era reso protagonista di un lungo sciopero della fame, che aveva suscitato la solidarietà non solo del mondo anarchico, ma anche della galassia dei centri sociali, che avevano organizzato numerose manifestazioni di solidarietà, spesso culminate con scontri tra i partecipanti e le forze dell’ordine. Le maggiori tensioni si erano registrate durante quella svolta il 4 febbraio 2023 a Roma, quando circa 800 manifestanti (secondo i conti della Questura), avevano dato il via al loro corteo non autorizzato in piazza Vittorio con l’intenzione, almeno quella annunciata, di raggiungere la zona di Roma Est per poi andare verso il Pigneto. Ad aprire la manifestazione c’era Pasquale «Lello» Valitutti, l’uomo che sostiene di essere stato l’ultimo a vedere l’anarchico Giuseppe Pinelli prima del tragico volo dal quarto piano della Questura di Milano il 15 dicembre 1969, con la sua sedia a rotelle. All’altezza di Porta Maggiore il serpentone di anarchici e centri sociali era già un fiume umano. Una decina di partecipanti, vestiti di nero e con il volto coperto, avevano cominciato a lanciare bottiglie e fumogeni contro il cordone delle forze dell’ordine e i blindati messi a protezione di una concessionaria della Fiat. Tra fumogeni rossi e cori contro le istituzioni la folla era andata avanti, mentre i negozi abbassavano le saracinesche per evitare danni. Dopo l’esplosione di una bomba carta sotto al ponte della tangenziale erano iniziate le tensioni più forti con le forze dell’ordine. Davanti alla sede di Atac: i manifestanti avevano danneggiato una macchina della vigilanza privata, incendiato una cabina elettrica e mandato in frantumi i vetri di una fermata dell’autobus. Numerosi i petardi esplosi e i lanci di bottiglie, indirizzate sia alla polizia che ai giornalisti. A quel punto le forze dell’ordine avevano stoppato le azioni violente con delle cariche di alleggerimento. Cospito, 56 anni, è già stato condannato in via definitiva a 9 anni e 5 mesi per la gambizzazione di Roberto Adinolfi, dirigente di Ansaldo nucleare, avvenuta a Genova nel 2012. Durante il processo l’anarco-insurrezionalista aveva rivendicato l’attentato: «In un’Europa costellata di centrali nucleari, uno dei maggiori responsabili del disastro nucleare che verrà è caduto ai miei piedi». Attualmente l’anarchico è sotto processo per l’attentato esplosivo del 2006 alla scuola allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo. Secondo l’accusa, Cospito e la sua presunta complice Anna Beniamino piazzarono nei cassonetti della spazzatura all’esterno della struttura due diversi ordigni.
Il primo, a basso potenziale, doveva servire da richiamo per i militari, mentre il secondo, temporizzato e ad alto potenziale, secondo gli inquirenti, sarebbe stato piazzato per uccidere i carabinieri attirati fuori dalla caserma dalla prima esplosione, avvenuta in piena notte. Il 26 giugno 2023 Cospito è stato condannato in appello a 23 anni di reclusione, 3 in più di quelli della sentenza di primo grado. L’anarco-insurrezionalista si trova ristretto in regime di 41 bis da maggio del 2022, dopo che, dai controlli svolti dalla polizia penitenziaria sulla sua corrispondenza erano emersi i «numerosi messaggi che, durante lo stato di detenzione, ha inviato a destinatari all’esterno del sistema carcerario […] documenti destinati ai propri compagni anarchici, invitati esplicitamente a continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti ritenuti più efficaci».







