
Otto mesi per rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Cospito nonostante il pm avesse chiesto l’assoluzione. Il sottosegretario: «Non mi dimetto, spero in un giudice a Berlino». Meloni lo difende. Un magistrato del collegio giudicante protestava contro Nordio.Tralasciando la posizione del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che pure aveva spiegato come «sulla segretezza degli atti» a decidere «era il ministero e non la magistratura», a Roma, sul reato di rivelazione del segreto d’ufficio, devono esserci delle linee interpretative diametralmente opposte tra i magistrati della Procura e i giudici del Tribunale. Già il gip Emanuela Attura, esponente della corrente di Areadg, sconfessando i pm, aveva imposto l’imputazione coatta per il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. D’altra parte, il ragionamento cerchiobottista della Procura nella richiesta di archiviazione che prospettava sì la violazione del segreto amministrativo ma senza «l’elemento soggettivo» del reato, ovvero il dolo, da applicare a un sottosegretario alla Giustizia, avvocato peraltro, e quindi giurisperito, era davvero difficile da accogliere. E l’aver chiesto ieri in aula l’assoluzione partendo dallo stesso ragionamento, ovvero che Delmastro non poteva sapere che le informazioni che aveva diffuso fossero segrete, deve aver indispettito pure i giudici del Tribunale. Nel collegio c’era Emilia Conforti, pure lei, come la Attura, di Areadg, già candidata al Csm e recentemente eletta nel comitato direttivo centrale dell’Anm. Era tra le toghe che hanno manifestato all’inaugurazione dell’anno giudiziario contro la riforma Nordio, immortalata sulla scala del Palazzo di giustizia mente mostrava un cartello con uno slogan che avrebbe dovuto ricordare dove era «nata la Costituzione». E ora ha giudicato il sottosegretario di Nordio. Risultato: una condanna, riconosciute le attenuanti generiche, a 8 mesi di reclusione con sospensione della pena e l’interdizione di 1 anno dai pubblici uffici (respinte, invece, le richieste di risarcimento avanzate dalle parti civili, quattro parlamentari del Pd). «L’esistenza di questa forma di segreto è indiscutibile», ha argomentato il procuratore aggiunto Paolo Ielo, per poi chiedersi: «Foste stati voi nei panni dell’imputato avreste saputo che era segreto? No, io non lo avrei saputo…». Più o meno la stessa teoria che a Brescia (dove la Procura invece aveva chiesto la condanna) ha salvato il pm Paolo Storari da una condanna per aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali di Piero Amara sulla loggia Ungheria. Lì, in sostanza, l’ipotesi che una toga non sapesse che quei verbali coperti da segreto un consigliere del Csm non avrebbe potuto leggerli ha retto. Per Delmastro, invece, l’aver fornito a Giovanni Donzelli, che in Parlamento, dopo la visita di quattro parlamentari dem (Andrea Orlando, Debora Serracchiani, Walter Verini e Silvio Lai) all’anarchico Alfredo Cospito, denunciò le chiacchierate dell’arruffapopoli detenuto in 41 bis e all’epoca in sciopero della fame con un boss della camorra, un killer della ’ndrangheta e uno degli uomini che avrebbero dovuto azionare l’esplosivo della strage di Capaci, uno stralcio di una relazione della polizia penitenziaria, il dolo eventuale non conta. Le informazioni arrivavano dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che fa capo proprio al sottosegretario alla Giustizia. Di quella relazione, quindi, Delmastro poteva disporre. L’aveva spiegato anche Sebastiano Ardita, magistrato antimafia e già direttore del Dap per nove anni: «Ho sentito parlare di documenti riservati. Ma non è affatto così. Si tratta di atti che il ministero può e deve utilizzare. E rendere pubblici se intende». Ardita aveva anche aggiunto che «il sottosegretario alla Giustizia ne dispone legittimamente. E non vedo perché non possa comunicarne il contenuto a un membro del Parlamento». Infine aveva ricordato l’esistenza di alcuni precedenti: «In passato i ministri della Giustizia innumerevoli volte hanno fatto utilizzo di queste note. E ne hanno fatto anche oggetto di comunicazioni pubbliche». Un’argomentazione sull’atto anziché sul presunto «tonto» Delmastro, insomma, con molta probabilità sarebbe stata più efficace. Ma il pm Rosalia Affinito, che ha affiancato Ielo, ha ribadito che il segreto amministrativo esisteva «per legge». «Sono disorientato e addolorato», ha commentato a caldo Nordio, confidando «in una radicale riforma della decisione in sede di impugnazione». E mentre a Delmastro non resta che sperare «in un giudice a Berlino», come ha affermato con i giornalisti subito dopo la lettura del dispositivo, annunciando di non avere intenzione di dimettersi, le opposizioni hanno subito chiesto la sua testa. Il leader di Alleanza verdi sinistra Angelo Bonelli, autore dell’esposto, l’ha buttata in politica: «Come può Meloni mantenere Delmastro come viceministro?». Elly Schlein: «La condanna dimostra l’inadeguatezza di questa classe dirigente. Meloni lo faccia dimettere». Non poteva mancare Giuseppe Conte: «La principale colpevole di questo andazzo è Meloni che chiedeva le dimissioni di tutti dall’opposizione e ha perso la coerenza a Colle Oppio. Poltrone piene di colla per i suoi amichetti». La risposta di Giorgia Meloni non si è fatta attendere: «Sono sconcertata per la sentenza di condanna. Mi chiedo se il giudizio sia realmente basato sul merito della questione. Il sottosegretario Delmastro rimane al suo posto». Fine dei giochi. Il primo ad aver recepito il concetto deve essere stato Nicola Fratoianni di Avs, che in subordine ha chiesto le dimissioni «del direttore di Rai News», reo di aver «assolto» Delmastro prima della sentenza, scambiando la richiesta dei pm per la decisione dei giudici. Perché alla fine, pur senza argomentazioni, ciò che davvero conta per le opposizioni è che qualcuno si dimetta.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 14 novembre con Carlo Cambi
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