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Scioperi a oltranza e lotta politica: dopo aver tubato con Conte e Draghi, il segretario della Cgil è più scatenato che mai.
Scioperi a oltranza e lotta politica: dopo aver tubato con Conte e Draghi, il segretario della Cgil è più scatenato che mai.
Dopo la notizia rimbalzata su tutti i media, relativa al drammatico peggioramento dei salari dei lavoratori italiani (-8,7%), notizia peraltro ampiamente prevista, ci saremmo aspettati una reazione degna di questo nome da parte delle organizzazioni sindacali italiane, e in particolare modo di quella più grande: la Cgil.
Ci saremmo aspettati non generiche prese di posizione o dichiarazioni a mezzo stampa, ma la messa in campo di una adeguata iniziativa per porre al centro la questione salariale e chiamare a confronto le stesse associazioni datoriali per verificare, anche con loro, come far fronte a questa pesante situazione e affrancare il sistema produttivo italiano di fronte alle sfide della competizione internazionale e alle conseguenze che le politiche dei dazi, avviate dalla nuova amministrazione americana, potranno determinare sul sistema economico-produttivo italiano.
Insomma, come rilanciare una politica sindacale capace di rimettere al centro il lavoro e la sua valorizzazione sotto il profilo economico e della dignità. E invece nulla, o quasi, di tutto questo. Anzi le uniche iniziative che balzano agli occhi sono la campagna referendaria e l’assemblea pubblica indetta per oggi dalla Cgil non già su queste problematiche sindacali ma sul tema dell’Europa, della pace e dintorni. Manifestazione alla quale il più grande sindacato italiano ha chiamato a raccolta una serie di associazioni, caratterizzandola come evento politico. Non a caso Cisl e Uil non saranno della partita, probabilmente trovando tale iniziativa poco coerente con le caratteristiche che dovrebbe avere un sindacato. Questa mossa di Maurizio Landini segue la sua partecipazione a quella organizzata da Repubblica a piazza del Popolo qualche sabato fa. Alcuni osservatori hanno cominciato ad interrogarsi sulle velleità politiche del segretario Cgil, in considerazione del fatto che è al suo secondo mandato e che le regole interne non ne prevedono un terzo.
Insomma, in diversi si stanno chiedendo se questo suo agitarsi non sia un preludio a preparare il campo per una proiezione politica futura. Vedremo. Forse qualcuno dovrebbe, nel caso, informarlo che illustri suoi predecessori che hanno deciso di andare in tale direzione non hanno avuto particolari fortune di leadership laddove sono approdati.
Ma, come si dice, ognuno è artefice del proprio destino. Tuttavia ci si può chiedere quale bilancio politico-sindacale porterebbe l’attuale segretario della Cgil. La situazione sindacale italiana non è nelle sue fasi migliori. L’unità sindacale sembra essere diventata una chimera. Abbiamo assistito in questi ultimi tempi a scioperi indetti solo da Cgil e Uil senza la Cisl. Non so se il recente cambio di guardia alla Cisl muterà le cose, ma è davvero paradossale che nessuno si ponga questo tema e non apra un dibattito sul futuro dell’unità sindacale in Italia. Larga parte dei lavoratori italiani sta aspettando, da diverso tempo, il rinnovo del contratto. Ciò rappresenta un problema serio per loro sia dal punto di vista normativo che salariale. Non vi è dubbio che pesano anche le resistenze datoriali, ma una riflessione sul futuro del sistema contrattuale italiano non sembra essere stata attivata con la necessaria profondità, eppure ci sarebbe molto da dire e da fare rispetto ai cambiamenti intervenuti e alle nuove sfide che una mancata gestione della globalizzazione sta proponendo. L’apertura recente di un dibattito sulla democrazia economica e la partecipazione dei lavoratori all’impresa, sul fac-simile del modello tedesco, è stata subito stroncata per paure recondite, segnalando in realtà un deficit culturale e di innovazione. Il tema dell’Europa che il sindacato dovrebbe davvero affrontare è come superare le contraddizioni e gli squilibri esistenti tra Paesi a causa di una mancata integrazione economico-sociale e quale ruolo la Confederazione europea dei sindacati dovrebbe assumere al riguardo. Ma questo non viene fatto con la risolutezza del caso. La cosa che colpisce di più è l’assenza dentro il sindacato di un dibattito vero nel quale siano visibili i punti di vista diversi, se ci sono. Oggi la più grande organizzazione sindacale italiana appare una organizzazione monocratica, nella quale sembra difficile e faticoso praticare una sana dialettica. Eppure dibattiti accesi tra visioni diverse hanno, nel passato, caratterizzato la vita di quell’organizzazione. Basti ricordare Luciano Lama, Bruno Trentin, Sergio Garavini, Fausto Bertinotti, Alfiero Grandi, Claudio Sabatini e financo ai tempi di Sergio Cofferati una visibile dialettica esisteva. Qui no. Sembrano tutti silenti in attesa che il segretario concluda il mandato e poi si vedrà. Ovviamente c’è da immaginare che lo stesso Maurizio Landini non ami molto l’idea di favorire una dialettica e preferisca, come si usa dire, buttarla in politica, ad esempio con la manifestazione di oggi e con la stessa campagna referendaria. Si potrà obiettare che se nessuno solleva problemi, perché porsi il tema. Vero, ma così facendo viene oggettivamente da dubitare che il più grande sindacato italiano possa avere rosee prospettive per il futuro.
Il Tesoro ha stanziato 3,2 miliardi per gli aumenti degli stipendi alla scuola. Maurizio Landini e la Uil dicono no al contratto come hanno fatto per enti locali e infermieri. Risultato: a ogni cedolino i lavoratori perdono 150 euro e si vedono stoppare anche i riconoscimenti futuri.
Anni fa un amico imprenditore mi fece la seguente domanda: ti sei mai chiesto perché in Italia, nonostante ci sia stato il più grande partito comunista d’Occidente, i cui eredi ancora oggi sono ovunque e controllano giornali, tv, sindacati e magistratura, i salari siano tra i più bassi d’Europa? Io su due piedi non trovai la risposta e lui, l’imprenditore, mi venne in soccorso: «Il motivo è semplice: nonostante la sinistra e confederazioni come la Cgil si riempiano la bocca con parole d’ordine come la difesa dei più deboli e i diritti dei lavoratori, in realtà non hanno mai fatto gli interessi di chi dicono di rappresentare. Parlano di salari, di posti di lavoro, di sviluppo e crescita, ma ciò che davvero vogliono è solo il potere, nulla di più».
Banalizzazioni di un discorso più complesso? Sarà, ma le parole del mio amico mi sono tornate in mente ieri, quando ho visto che la Cgil rifiuta di firmare un accordo per il rinnovo del contratto di lavoro per i dipendenti della scuola. L’intesa riguarda 850.000 insegnanti, cui si aggiungono altri 350.000 collaboratori scolastici, ovvero personale ausiliario come bidelli, tecnici e segretari. In totale, fanno un milione e 200.000 lavoratori che, se la Cgil e la Uil sottoscrivessero l’accordo, potrebbero ottenere un aumento medio di 150 euro lordi al mese ciascuno. Il Tesoro ha già iscritto nel bilancio dello Stato una posta per 3,2 miliardi, dunque gli aumenti scatterebbero subito, senza lasciar passare tempo. Ma il sindacato di Maurizio Landini e quello di Pierpaolo Bombardieri (che da tempo sembra la brutta copia della Cgil) si oppongono all’intesa, dicendo che 150 euro lordi sono troppo pochi e coprono solo una parte dell’inflazione. Certo, sarebbe meglio che gli insegnanti né ricevessero 300 e forse anche 500 o 1.000 euro, così da mettersi se non in pari con i colleghi d’Europa almeno di andare vicino ai loro stipendi. Ma non si può neppure pensare che in pochi mesi si possa recuperare il gap costruito in decenni. Dunque, mandare al diavolo un’intesa che riconosce subito 150 euro a più di un milione di lavoratori significa soltanto condannare l’intero mondo della scuola a mantenere stipendi bassi.
Forse la Cgil, e la Uil che ormai segue a ruota, spera di spuntare aumenti ancora migliori? È possibile. Peccato che altri soldi nel bilancio dello Stato non ci siano. E soprattutto, peccato che alcuni precedenti non promettano nulla di buono. Il sindacato di Landini e quello di Bombardieri, hanno rifiutato anche gli aumenti per i dipendenti degli enti locali (400.000 persone) e per i lavoratori della sanità pubblica (altri 600.000), con il risultato che segretari, tecnici, infermieri e medici sono rimasti a bocca asciutta. Ma l’aspetto più grave - ovviamente per i lavoratori - è che il mancato rinnovo dei contratti 2022-2024 blocca anche l’intesa 2025-2027, lasciando tutti i lavoratori (della scuola, della sanità e dei comuni) al palo, con buste paga più sottili e senza neppure un minimo recupero dell’inflazione.
Ed è proprio il caro prezzi che spinge Landini e compagni a votare contro perché, spiegano il segretario della Cgil e il suo omologo della Uil, il governo offre solo una parte di ciò che si è mangiato il caro vita. Vero, e negli anni scorsi è sempre stato così, però il sindacato, quando c’erano altri governi, non ha fatto lo schizzinoso. Anzi, ha accettato persino aumenti ben più fiacchi. Piccolo dettaglio: se si firmasse subito il contratto della sanità per il biennio 2022-2024 e a seguire il 2025-2027, gli aumenti per i dipendenti del settore sarebbero di 350 euro lordi al mese. Non poco.
Dunque, si torna alla domanda del mio amico: perché in Italia abbiamo i salari più bassi? Non sarà davvero che il sindacato, invece di fare gli interessi dei lavoratori, fa politica? Va bene preoccuparsi del futuro di Landini e compagni, ma di quello di chi lavora chi se ne occupa?
Non bastava la settimana cortissima, la possibilità di lavorare fino al giovedì ma assicurando comunque le 36 ore di impiego che l’Aran (lo Stato che tratta con le parti sociali) ha concesso ai sindacati nel corso della negoziazione per il rinnovo del contratto di ministeri e agenzie fiscali (coinvolti poco meno di 200.000 lavoratori), l’ultima novità è che Cgil e Uil hanno chiesto di andare in ufficio solo nei primi quattro giorni della settimana però con un orario ridotto, prestando cioè servizio per sole 30 ore e a retribuzione invariata.
Ora, la settimana cortissima poteva essere derubricata nel novero dei desiderata dei lavoratori per coniugare l’occupazione con le esigenze familiari o comunque personali. Richieste che però riuscivano a conciliarsi con l’organizzazione e la produttività. Qui, il passo in avanti è evidente. La proposta recapitata all’Aran solo pochi giorni, fa nel corso della negoziazione per il rinnovo del contratto dei dipendenti comunali, va oltre e si mette in scia alle sconsiderate teorie «grilline» della prima ora sulla decrescita felice. Lavoriamo meno, in modo da produrre e quindi consumare meno arrivando a una più equa redistribuzione delle ricchezze. Come, nessuno ha mai saputo dirlo. O meglio, qualcuno ha pure provato a teorizzarlo schiantandosi però con i dati della realtà.
Utopie che mal si conciliano con la crisi industriale che sta vivendo l’Europa e che l’Italia fino a oggi è riuscita ad evitare. E che non si tengono per nulla rispetto alle immagini che solo due giorni fa arrivavano da Pomigliano e che parlavano di lavoratori dell’indotto Stellantis licenziati per il collasso di uno dei settori vitali per l’industria del Paese, l’automotive.
La Schlein c’era e verrebbe da chiedersi cosa ne pensa delle richieste arrivate dal pubblico impiego della Cgil, il suo sindacato di riferimento.
Non ci sfugge che spesso pubblico e privato rispondono a due logiche differenti, ma la teoria che sta dietro al pensiero di poter lavorare quasi il 20% delle ore in meno a settimana pretendendo lo stesso stipendio è la medesima.
A scanso di equivoci, è praticamente impossibile che la controparte (l’Aran appunto) possa accettare una proposta del genere, anche perché vorrebbe dire trovare nuove risorse e perché significherebbe autorizzare un «dislivello retributivo» nella cosa pubblica tra due categorie di lavoratori che svolgono le stesse mansioni.
Ma allo stesso va detto che la trattativa per il rinnovo del contratto del personale del
comparto Funzioni locali (i dipendenti comunali) è su un binario morto. Il prossimo incontro è fissato per il 17 dicembre e non tira aria di buone notizie. Anzi. La divisione è sempre la stessa. Cgil e Uil che chiedono più risorse, fanno proposte strampalate e si mettono di traverso da un lato e la Cisl e il coordinamento sindacale autonomo che invece spingono per negoziare e riuscire a portare a termine un accordo.
Schieramenti che si sono già visti in tutte le partite del pubblico impiego, ma che nel caso delle funzioni locali vedono le sigle «moderate» in minoranza.
Insomma, senza Cgil e Uil non si può rinnovare il contratto. L’impasse è quindi assicurata. E purtroppo soprattutto nelle negoziazioni che vedono lo Stato trattare con le parti sociali è una prassi. In un solo caso l’accordo è andato a buon fine, ma non perché Landini & C. erano scesi dalle barricate. Semplicemente per una questione numerica. Nel tira e molla sul contratto dei lavoratori dei ministeri, infatti, la partita si è giocata sul filo dei numeri e l’intesa (che peraltro prevedeva la settimana cortissima, si garantisce un impiego di 36 ore ma fino al giovedì) è passata solo per il voto della Cisl e di altre sigle minori. Insomma, anche il quel caso Cgil e Uil avevano detto no ad aumenti medi da circa 160 euro lordi al mese perché pretendevano il completo recupero dell’inflazione del trienni: il 17%.
Così come non è un mistero che anche l’accordo per gli infermieri sia fermo. Sul piatto ci sono incrementi da 172 euro al mese che moltiplicati per le tredici mensilità fa una busta paga più ricca per 2.245 euro.
Peccato. Perché come confermano tutte le rilevazioni ufficiali, negli ultimi due anni l’occupazione ha accelerato e soprattutto nel 2024 sono stati rinnovati i contratti di circa 7 milioni di lavoratori del privato. Gli aumenti, in media da 220 euro lordi, hanno ridotto la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione che ha galoppato per un bel po’ e alla fine sono state rinnovati accordi bloccati da anni. Basti ricordare il contratto del commercio che riguarda quasi tre milioni di persone, fermo da quattro anni. Insomma, il gap salariale resta un tallone d’Achille del Paese, ma non certo da adesso. Adesso sembra si sia intrapresa la strada giusta, quella che parte dai rinnovi e arriva fino a rafforzare la contrattazione decentrata e alla riduzione delle tasse sul lavoro. Se ci fossero meno veti a prescindere e le tentazioni di decrescita felice venissero riposte dove meritano, la si potrebbe percorrere più velocemente.
In piazza ma mai in fabbrica. Potrebbe essere il biglietto da visita di Maurizio Landini e di quei sindacalisti che ne seguono orme e approccio politico. E non stiamo qui a dilungarci sulle scelte di fare una campagna politica come fosse l’altro pilastro dell’opposizione rispetto a Pd e al M5s. Ma ci riferiamo alle ricette che questo modello di sindacato porta avanti apparentemente a favore dei lavoratori e dei pensionati. Ieri il numero uno della Cgil, in mezzo ai tanti slogan anti governativi, ha gridato che è arrivato «il momento di rivoltare l’Italia» come un guanto. Salvo poi ribadire le ricette degli ultimi mesi e persino anni. Innanzitutto la cassa integrazione per i lavoratori, poi la geniale idea della ridistribuzione della ricchezza. Ieri con l’aggiunta della citazione diretta dei dividendi. Landini ha spiegato che in questi ultimi due anni le aziende (in scia alle banche) hanno portato a casa ricchi dividendi. Ciò è inaccettabile per Landini. Il quale vorrebbe che ne beneficino i lavoratori, ignorando volutamente il Codice civile e anche il ruolo che ricoprono gli azionisti di società di capitali ai fini dello sviluppo sociale.
Ieri ci sarebbero stati più punti si cui soffermarsi, se Landini avesse deciso di non percorrere il populismo sindacalista. Ieri ad esempio sono stati diffusi i dati dell’export, dell’inflazione e della produzione industriale. Il primo parametro non è entusiasmante come nei mesi precedenti, il secondo è in crescita anche se in linea con le attese (e questo non è una notizia positiva per le famiglie). Il terzo, quello sulla produzione industriale è in peggioramento e lo è seguendo un trend negativo. A fronte, la componente relativa ai conti pubblici è in miglioramento, così come i parametri generali dell’economia.
In un report diffuso sempre ieri da Jefferies, società di investment banking, si descrive perfettamente come la crescita dell’Italia post Covid sia ben al di sopra della media Ue e si rimarcano solo due punti di debolezza. Uno, l’invecchiamento del Paese. Due, un possibile colpo di coda del Superbonus targato Conte, contro il quale il numero uno della Cgil non è certo mai andato in piazza a manifestare. Ciò che ai nostri sindacati sembra mancare più di tutto è la consapevolezza del cambio di passo dell’economia mondiale e delle logiche del lavoro. Ancor di più la volontà di partecipare a piani e visioni strategiche. I sindacati americani come Uaw hanno dimostrato perfettamente di sapersi muovere a braccetto con Sergio Marchionne, dopo aver inciuciato con Barack Obama per salvaguardare l’investimento che avevano fatto nel colosso di Detroit. Gli è andata bene. Ora con Stellantis è un altro mondo. Ma in ogni caso la Cgil non ha nemmeno provato a farsi infilare nel consiglio di amministrazione della nuova società frutto della fusione tra Fca e i francesi di Psa. Non solo, sull’intera strategia dell’elettrico i sindacati italiani come quelli europei hanno sbagliato tutto.
Non hanno compreso nemmeno di striscio il significato della transizione verde e i pericoli che avrebbe innescato per l’industria del Vecchio Continente. Non hanno capito che le migliaia di posti di lavoro perduti non si trasformeranno mai in altri impieghi. O meglio, un fetta si convertirà, ma mai nella sua interezza. Perché per definizione la transizione green prevede un perimetro produttivo di veicoli decisamente più ristretto. Senza contare - e qui sta la gravità del cieco atteggiamento dei sindacati - che la transizione implica anche una perdita di sovranità tecnologica. E senza tecnologia proprietaria i posti di lavoro saranno sempre da elemosinare.
Personalmente, c’è anche un ulteriore tema che colpisce. Forse più di quelli elencati fino a qui. Cioè la formazione. È incredibile che il sindacato abbia del tutto abdicato a impegnarsi nel settore della formazione. Abbia deciso di non supportare mai l’evoluzione digitale dei dipendenti. La capacità di aggiornarsi per essere più competitivi e quindi guadagnare di più.
Basti pensare che meno di un mese fa la Cgil di Grottaglie ha deciso di non accettare un bonus di 1.500 euro per coloro che segnalano a Leonardo personale idoneo e disponibile a un immediato inserimento. L’alternativa è andare avanti con la cassa integrazione. Insomma, è la risposta plastica all’incapacità di adeguarsi ed essere costruttivi. Un sindacato non può pensare sempre a essere distruttivo, perché alla fine a pagare sono i dipendenti. A meno che questi ultimi siano solo una scusa per poter andare in piazza a denunciare il pericolo fascismo temendo che la migliore delle Costituzioni sia a rischio.
L’unica politica di cui i sindacati dovrebbero occuparsi è quella industriale. Potrebbero farlo sia sulla transizione green, sul futuro dell’acciaio e, perché no, sull’uso dei dazi verso la Cina o dagli Usa. Forse pretendiamo troppo. Più comodo così. Peccato veramente: il dialogo sui dossier veri farebbe proprio comodo a quella democrazia che la Cgil ogni giorno sostiene di difendere.

