Per i giudici della Corte di cassazione, che riprendono le motivazioni del Tribunale del Riesame di Latina, i congiunti del deputato con gli stivali di gomma Aboubakar Soumahoro sarebbero una «struttura delinquenziale a base familiare». E avrebbero distratto dalla coop di famiglia, la Karibu, che si occupava della gestione dei Centri d’accoglienza pontini per migranti richiedenti protezione internazionale, poco più di 1 milione di euro, 111.284 dei quali a opera di Liliane Murekatete, ovvero Lady Soumahoro. Le motivazioni dei giudici della Suprema corte riguardano la fase cautelare, ovvero il momento in cui la Murekatete era agli arresti domiciliari, ma sono state depositate di recente. La notizia, riportata in modo impreciso da alcuni giornali, si è diffusa solo l’altro giorno e accollava a lady Soumahoro l’intera azione distrattiva. In realtà, però, l’addebito per la Murekatete è di 111.284 euro, in quanto «beneficiaria di bonifici anche su conti accesi in Belgio» con causali del tipo «anticipo container cibo africano» o «rimborso viaggio e spese per il Ghana e acquisto di cibo africano». Spese che, secondo i giudici, «la stessa cooperativa dichiara non inerenti». «Una circostanza la cui infondatezza verrà chiarita in dibattimento», afferma l’avvocato Lorenzo Borrè, che difende lady Soumahoro. Non solo. C’è un ulteriore passaggio della sentenza, indicato come parte della motivazione dei giudici della Cassazione, che in realtà era legato a un’argomentazione su un motivo di impugnazione. Questo: «Le condotte distrattive sono state poste in essere mentre l’indagata era sottoposta a misura interdittiva per altro procedimento». In realtà la consumazione della presunta bancarotta fraudolenta si sarebbe consumata nella data in cui è stata emessa la sentenza di liquidazione delle coop, che è stata pronunciata nel periodo in cui erano in vigore le misure interdittive. Si tratta di una differenza sottile ma sostanziale. Quantità della distrazione a parte, ciò che è di particolare interesse è la motivazione. «La ricorrente propone il rilievo che la condotta risulterebbe essere solo omissiva e inconsapevole delle distrazioni», ma per i giudici della Cassazione, risulterebbe che «l’indagata abbia ricoperto incarichi di gestione, per quanto emerge dal contenuto di email, da dichiarazioni di persone informate sui fatti, da attività di relazioni pubbliche con esponenti delle istituzioni, dalla sostituzione della madre, come anche dall’accreditarsi come legale rappresentante della società, oltre a essere la stessa ricorrente beneficiaria di risorse societarie distratte». E quindi, in sostanza, le viene riconosciuto «un ruolo di concorso nella gestione della società fallita di tipo attivo». Che si è trasformato, secondo l’accusa, in gravi imputazioni: la frode in pubbliche forniture, «per aver distratto ed essersi appropriata delle somme erogate dalla Prefettura di Latina» non adempiendo «ai doveri di prestazione pattuiti»; la bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e le «operazioni dolose cagionanti lo stato di insolvenza» della coop; l’autoriciclaggio per il reimpiego del denaro provento della frode e di bancarotta fraudolenta per distrazione per il «trasferimento su conti correnti esteri in favore di persone fisiche e giuridiche diverse». Il tutto in concorso con sua madre, suocera di Soumahoro, Marie Terese Mukamitsindo, e con suo fratello Michel Rukundo.
Il Tribunale di Latina ha deciso di accorpare i due procedimenti in corso a carico dei parenti acquisiti del deputato Aboubakar Soumahoro, trasformandoli di fatto in una sorta di maxiprocesso sulla cooperazione e l’accoglienza dei migranti. Il giudice monocratico Simona Sergio, titolare del procedimento che vede Liliane Murekatete e Marie Therese Mukamitsindo, rispettivamente moglie e suocera di Soumahoro, imputate per reati fiscali, insieme al cognato del parlamentare Michel Rukundo e a Ghislaine Ada Ndongo (collaboratrice di una delle cooperative), chiamati a rispondere a vario titolo di evasione fiscale (per circa 2 milioni di euro), mancati versamenti e false fatture, ha infatti accolto la richiesta della Procura e riunito il processo è stato quindi riunito con l’altro troncone, il cui inizio era previsto per giugno, sempre a carico di Mukamitsindo e Murekatete, per frode nelle pubbliche forniture, bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e auto-riciclaggio: Anche in questo caso, a processo erano finiti altri due figli della Mukamitsindo, Michel Rukundo e Aline Mutesi. Secondo le accuse, le cooperative Karibu e Consorzio Aid, nonché la Jambo Africa (per il tramite della Karibu), riconducibili agli affini dell’ex sindacalista dei braccianti agricoli, avrebbero usufruito di consistenti fondi pubblici destinati a progetti per l’accoglienza dei migranti, offrendo in cambio un servizio decisamente scadente, a base anche di blatte e vermi nelle strutture. In questo filone, Murekatete e Mukamitsindo erano anche state arrestate (ai domiciliari) assieme a un altro parente. Secondogli accertamenti della Guardia di finanza, sarebbe stato portato alla luce un «sistema fraudolento» che tra il 2017 e il 2022 avrebbe dirottato verso acquisti personali (borse, vestiti e accessori di lusso, ma anche soggiorni in hotel da capogiro e sedute dall’estetista).
Durante le indagini il gip di Latina aveva disposto anche un sequestro per quasi 2 milioni di euro. Le attività investigative avevano infatti individuato disposizioni bancarie ritenute «prive di congrua giustificazione causale e comunque per finalità diverse» da quelle previste dal bandi, mentre le carte di credito delle cooperative sarebbero state usate anche per « finalità private (ristoranti, gioiellerie, centri estetici, abbigliamento, negozi di cosmetica)». La compagna di Soumahoro nel febbraio scorso ha però presentato una querela presso le Procura di Latina lamentando che le sue firme sui fogli di presenza ai consigli di amministrazione sarebbero state falsificate e che non ci sarebbe prova della sua partecipazione alle assemblee della cooperativa di famiglia, la Karibu. Il legale della donna, Lorenzo Borre aveva spiegato così alla Verità la posizione della sua assistita: «La mia cliente è stata rinviata a giudizio sul presupposto che facesse parte del Cda, ma non e stato dato seguito alle richieste di verifica della effettiva presenza della stessa che viene avvalorata solo da firme contestate dalla Murekatete». solo da firme contestate dalla Murekatete». Il legale aveva chiesto una perizia grafica che non sarebbe stata disposta. «La responsabilità della mia assistita si fonda sulla presunta partecipazione ai Cda che hanno approvato i bilanci relativi alle spese contestate» aveva evidenziato il difensore.
L’esempio più eclatante? «Una dipendente ha firmato con le proprie generalità in stampatello accanto al nome della Murekatete. Una firma che mostra in modo incontrovertibile l’assenza della mia cliente a quella assemblea». Sull’uso di fondi pubblici da parte delle coop riconducibili ai parenti di Soumahoro sta però indagando pure l’Olaf (l’Ufficio europeo per la lotta antifrode dell’Unione europea) e anche la Procura di Latina nei mesi scorsi ha avuto interlocuzioni con la magistratura belga per approfondire l’utilizzo dei finanziamenti a Bruxelles e dintorni. Città dove la Murekatete ha tre immobili di proprietà. Due si trovano a Ixelles, periferia di Bruxelles. Il primo, in una palazzina anonima di cemento e mattoni rossi in rue Hennin, composto da soggiorno, camera da letto, cucina completamente attrezzata, bagno e cantina, sarebbe stato scelto dalla Karibu, come presunta sede belga della coop. Per questo erano stati formalizzati due diversi contratti di locazione: uno da 1.000 euro al mese, firmato nell’agosto del 2014, e uno, siglato quattro anni più tardi, della durata di sei anni, per un canone di 1.300 euro mensili. Nelle carte delle inchieste di Latina compaiono anche le numerosissime spese voluttuarie effettuate con i soldi delle coop a Bruxelles. L’11 giugno prossimo, durante quella che doveva essere la prima udienza del secondo procedimento, sarà formalizzato definitivamente il provvedimento di riunificazione poi il 13 giugno inizierà il processo vero e proprio.
Ho atteso fino a sera prima di scrivere questo articolo, fiducioso che per l’ora di mandare in stampa La Verità, l’onorevole Aboubakar Soumahoro avrebbe aperto bocca. «Non è possibile», mi sono detto, «che non commenti la chiusura delle indagini che riguardano sua moglie e la suocera». Se non lui, ho pensato, parleranno in sua vece Nicola Fratoianni o Angelo Bonelli, dioscuri dell’Alleanza Verdi e Sinistra, cioè coloro che lo hanno portato in Parlamento, regalandogli una carriera a Montecitorio. E invece no, arrivata l’ora di cena mi sono arreso: sia il deputato con gli stivali sporchi che i suoi mentori hanno optato per il silenzio stampa. No comment, anche se dalla Procura di Latina sono arrivate notizie sconcertanti, come l’uso dei fondi destinati ai migranti per acquisti nelle boutique di lusso. Si parla di un giro di fatture false per oltre 2 milioni di euro, di altri soldi (500.000) incassati e spariti con misteriosi quanto ingiustificati bonifici, molti dei quali riconducibili a un entourage familiare. E Soumahoro, quello che lacrimava in diretta, chiedendo in favor di telecamere perché «mi fate questo», cioè perché giornali come La Verità si occupassero di lui e della moglie? Sparito. Sul suo profilo Facebook c’è una foto che lo ritrae con il pugno chiuso mentre ringrazia di essere stato eletto alla Camera, gli auguri a papa Francesco per una pronta guarigione e una lettera a Giorgia Meloni in vista della riunione del Consiglio europeo. Ma di commenti sulla storiaccia della cooperativa che prendeva soldi per aiutare i migranti e forse aiutava solo i parenti, zero. E dire che ieri, sulla prima pagina del nostro quotidiano, era ben visibile l’articolo che segnalava la chiusura delle indagini. In esso, oltre alla notizia della conclusione degli accertamenti da parte della Procura, si segnalava la possibilità di una richiesta di rinvio a giudizio. Intendiamoci, essere mandati a processo non equivale a una condanna. Tuttavia, se i pm ritengono che ci sia materia per un procedimento penale e chiedono a un giudice il dibattimento, significa che qualche elemento per sostenere l’accusa lo hanno trovato e intendono sottoporlo al giudizio del tribunale. Altro che chiedere «perché mi fate questo?», quasi a lasciar intendere che la vicenda sia frutto di una macchinazione allo scopo di colpirne l’attività politica. Sulle accuse, ovviamente deciderà il gip ma viste le premesse, l’eventualità di un processo è tutt’altro che esclusa, mentre cade l’idea del complotto e della strumentalizzazione.
Tutti quanti ricordano quando, di fronte alle fotografie che ritraevano la consorte, ufficialmente disoccupata, con abiti e accessori di lusso, in tv, Soumahoro si difese e difese la moglie sostenendo il diritto all’eleganza. Ovvio, tutti hanno l’ambizione di vestirsi bene e anche di fare la bella vita, italiani ed extracomunitari. Tuttavia, se si maneggiano soldi pubblici, cioè denaro dei contribuenti che ha come missione l’assistenza e l’accoglienza dei migranti, si ha l’obbligo di amministrarli bene, cioè nell’interesse delle persone per cui è stato stanziato. Invece, a quanto pare, quei fondi avevano un impiego diverso da quello per cui erano stati concessi. Al posto di vitto e alloggio decenti per i profughi, decine se non centinaia di migliaia di euro servivano per spese che con i migranti non avevano nulla a che fare. I pm parlano di opacità nella gestione dei finanziamenti, spesso utilizzati per scopi estranei all’oggetto sociale.
Soumahoro dice di non aver nulla da spartire con ciò che succedeva all’interno della cooperativa che accoglieva i profughi, perché di quello si occupava la suocera (anche se i pm aggiungono pure il nome della figlia di lei). «Non la frequentavo e non avevo alcun incarico operativo», ha spiegato. Certo, può essere che una volta chiusa la porta di casa dopo una dura giornata di lavoro per aiutare i migranti appena sbarcati in Italia, lui e la moglie non parlassero di lavoro. E può capitare che fra l’onorevole con gli stivali sporchi, che pure si occupava di profughi, e la suocera, la conversazione sulla questione migranti fosse bandita dal tavolo di casa. E però ora, dopo che l’indagine della Procura ha cristallizzato alcuni comportamenti penalmente rilevanti, forse una parola sarebbe opportuna.
Troppo facile autosospendersi dal partito, ma non dallo stipendio. Troppo semplice uscire dal partito senza uscire dal Parlamento, continuando dunque a fare quello che si faceva prima, senza neppure il bisogno di chiarire quello che è successo. Da quando esistono i gruppi di Camera e Senato, una sospensione non si nega a nessuno, perché nei fatti non solo non comporta alcuna sanzione, ma alla fine passa inosservata. Sarà per questo che Soumahoro tace? Di certo è la ragione per cui anche due tipi di solito loquaci come Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli in questi giorni sono improvvisamente diventati muti. Come le scimmiette, non vedono, non sentono e non parlano. E neppure hanno sensi di colpa di averci regalato un deputato con gli stivali sporchi di fango.
Sono arrivati alla spicciolata in Tribunale, a Latina, Marie Therese Mukamitsindo, Michel Rukundo e Liliane Murekatete, in occasione dell’udienza di convalida delle misure interdittive firmate dal giudice per le indagini preliminari Giuseppe Molfese nell’ambito dell’inchiesta che, qualche giorno fa, ha colpito il «sistema Karibu», la coop dello scandalo migranti.
Tutti e tre devono rispondere di reati fiscali che hanno comportato l’applicazione di misure cautelari come il divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione e di esercitare imprese e uffici direttivi di persone giuridiche per la durata di 1 anno. Il gip ha inoltre disposto un sequestro preventivo da oltre 650.000 euro, di cui 639.455,28 euro nei confronti della sola Mukamitsindo.
Insieme a loro tre risultano indagati e saranno ascoltati nei prossimi giorni (almeno chi ancora si trova in Italia) anche l’altro figlio della donna ruwandese, Richard Mutangana, Ghislaine Ada Ndongo e Christine Ndyanabo Koburangyira, queste ultime legali rappresentanti delle società satelliti di Karibu.
Ma ieri gli occhi erano puntati tutti su lady Soumahoro, Liliane Murekatete. E non solo per le accuse che la Procura le contesta. La compagna del deputato di sinistra, infatti, indossava un lungo cappotto cammello allacciato stretto in vita, a cui ha abbinato una bombetta nera molto fashion, uno zainetto anch’esso nero e una paio di stivali di cuoio Burberry calzati sopra i pantaloni, assai diversi da quelli in plastica orgogliosamente esibiti da Aboubakar nel giorno d’insediamento della Camera dei deputati.
La donna era accompagnata dal suo avvocato, Lorenzo Borrè. E, nel tragitto, non ha mai aperto parola. Il legale ha fatto sapere ai cronisti che avrebbe rilasciato una dichiarazione solamente dopo l’interrogatorio di garanzia. «Dopo, dopo... ci vediamo dopo», è stata la promessa del penalista.
Prima di lei erano arrivati anche la madre Marie Therese Mukamitsindo e il fratello Michel Rukundo, a loro volta «scortati» dall’avvocato Fabio Pignataro di Roma.
Entrambi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e la loro permanenza davanti al gip è durata pochi minuti. Il tempo necessario per redigere il verbale. All’uscita, Marie Therese, con al fianco il figlio Michel, è apparsa visibilmente provata. È riuscita comunque a dribblare giornalisti e fotografi lasciando al difensore le dichiarazioni di rito: «Stiamo parlando di semplici reati fiscali e tributari», ha detto Pignataro. «Queste sono le contestazioni, non altre. Parliamo di reati fiscali. I miei assistiti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere perché non conosciamo i contenuti precisi delle carte in mano alla Procura. Solamente dopo aver letto le contestazioni potremo impostare al meglio la nostra difesa. Ripeto: vogliamo prima avere contezza del complesso degli atti di indagine».
Ovviamente l’uscita di Liliane è stata decisamente diversa: silenziosa e composta accanto al suo avvocato. È rimasta impassibile nonostante la pressione e l’insistenza di giornalisti e fotografi. Neanche una smorfia, un sorriso. Niente. Un volto scolpito nel marmo. Lorenzo Borrè, il suo avvocato, ha spiegato che la compagna dell’onorevole Soumahoro ha risposto alle contestazioni del magistrato negando gli addebiti. Inoltre ha dichiarato di aver depositato una copiosa memoria difensiva per scardinare le accuse contestate, a partire dall’evasione fiscale.
«Abbiamo depositato della documentazione», spiega Borrè, «che pone la questione sotto un’altra luce. Riteniamo di non dover aggiungere altro perché l’indagine è coperta dal segreto istruttorio. Aspettiamo inoltre di poter accedere all’intera documentazione relativa a questa indagine per dimostrare la totale estraneità alle accuse mosse alla mia assistita».
Una indagine che La Verità ha seguito passo passo e in alcuni casi anticipato raccontando i giri attorno alle cooperative Karibu, Jambo Africa e al consorzio Aid, tutte attività facenti capo a Marie Therese Mukamtsindo e alla sua famiglia.
E ogni giorno emergono fatti a dir poco stravaganti e testimonianze rimaste sepolte per anni. Una di queste, ad esempio, riguarda la presunta vicenda legata ai mobili del clan malavitoso dei Casamonica che sarebbero stati conservati nei centri di accoglienza per migranti gestiti dalla coop Karibu, adibiti a mo' di deposito.
L’allora senatrice di Sinistra italiana, Elena Fattori, secondo quanto riportato da La Repubblica, avrebbe segnalato all’allora sottosegretario agli Interni Luigi Gaetti (quota 5 stelle con il governo Conte I), la presenza di mobilio sospetto all’interno di un garage. La senatrice (che abbiamo inutilmente cercato di contattare) avrebbe visitato il Cas Rehema e dopo essere venuta a conoscenza di questa notizia (de relato) ne avrebbe lasciato traccia in una relazione il giorno 11 marzo 2019.
Relazione che, a quanto pare, non ha incuriosito nessuno spingendolo a indagare o ad approfondire la storia. L’ex senatrice Fattori avrebbe anche scritto che in quel centro gestito dalla Karibu «non avrebbe ospitato neppure i suoi cani».
Un episodio che, se confermato, metterebbe ancora più dubbi sull’operato del ministero dell’Interno che avrebbe continuato ad erogare decine di milioni di euro ad una cooperativa tecnicamente fallita e con oltre un milione di debiti nei confronti dell’erario.
Sempre secondo il quotidiano romano, gli investigatori non sarebbero peraltro mai stati informati di quel documento. La scoperta sarebbe partita con la richiesta, formalizzata alla senatrice da una dipendente del Cas di Aprilia, di controllare personalmente il centro. «Quando all’improvviso si alzò il pavimento e ci fu bisogno dell’intervento dei vigili del fuoco», ha scritto la Fattori nel rapporto citato da Repubblica, «la suddetta dipendente conobbe gli affittuari della struttura. In questa circostanza è venuta a conoscenza della presenza di alcuni mobili stipati nel garage, perché messa in allerta dallo stesso avvocato. Alla domanda se conoscesse di chi fossero le fu detto che erano della famiglia Casamonica. La responsabile, che in quel momento era in ufficio con loro, disse che ne era a conoscenza».
Nessuno, a cominciare proprio dalla Fattori, ha mai verificato personalmente l’autenticità di questa segnalazione e questo non può escludere a priori che tutto il racconto potesse essere il frutto di una forzatura da parte di quella dipendente per sollevare un caso sul Cas. Ma una cosa è certa: i controlli non ci sono mai stati. Così come è certo che dei 62 milioni di euro erogati alle cooperative della suocera di Soumahoro si sono perse le tracce.
Sono ben evidenti, invece, stando alle carte dell’indagine, le storie di lavoratori sfruttati, immigrati trattati come bestie e stipendi non pagati per decine e decine di migliaia di euro. Un buco nero finanziario che ha appesantito i conti della Karibu ma che non ha impedito a lady Soumahoro di sfoggiare un elegantissimo cappotto di cammello con tanto di stivali Burberry per presentarsi davanti al giudice. «Ognuno ha il diritto alla moda. All’eleganza» disse compagno in una trasmissione televisiva. Lei, Liliane, non ci rinuncia davvero.
Sono passati quasi dieci anni e siamo sempre allo stesso punto. Quella che è nota a livello internazionale come crisi dei migranti ha avuto inizio intorno al 2013, ed è esplosa definitivamente due anni dopo. È più o meno in quel periodo che è iniziata l’attività di pattugliamento del Mediterraneo da parte di tante Ong, ed è allora che l’Europa intera si è accorta dei disastri causati dalla migrazione di massa. Diverse centinaia di migliaia di sbarchi e varie migliaia di morti dopo, nel 2022 siamo allo stesso punto di prima. Il numero degli arrivi è leggermente calato rispetto ai giorni più neri dell’emergenza, ma rimane comunque elevato. I morti ci sono ancora. E le Ong? Beh, continuano a fare attivismo politico come hanno sempre fatto.
Sembra di trovarsi all’interno di una bolla spazio-temporale: tutto è rimasto cristallizzato, assistiamo alle solite polemiche, ai soliti scontri. Ancora in questi giorni il governo – tramite un decreto apposito – sta cercando di porre un freno all’azione dei taxisti del mare, operazione non facile anche perché i diretti interessati sono intenzionati a vender caro il barcone, opponendosi tignosamente a ogni azione dell’esecutivo.
Tale disperante situazione dipende, in larga parte, dal fatto che il problema migratorio è di non facile soluzione, chiamando in causa complesse dinamiche politiche, geopolitiche e sociali. Ma se ci troviamo sostanzialmente allo stesso punto in cui ci trovavamo quasi dieci anni fa, e se ora il governo si trova – con difficoltà – a sbrogliare una matassa incandescente, lo dobbiamo anche alle istituzioni e alle persone che, a vario titolo, hanno gestito la pratica nel corso del decennio. Persone che hanno imposto una ideologia monolitica e hanno difeso interessi certo non coincidenti con quelli delle popolazioni europee e degli stessi migranti.
Che il modello di gestione progressista della migrazione fosse deleterio e mortifero lo sappiamo da tempo, tuttavia nelle ultime settimane sono stati svelati alcuni retroscena che rendono l’intera faccenda ancora più odiosa e intollerabile. Il caso Sumahoro prima e il cosiddetto Qatargate poi ci hanno mostrato con lacerante chiarezza che genere di maneggi la sinistra europea abbia compiuto riguardo ai migranti.
Prendiamo per esempio Dimitris Avramopoulos. Tra il 2014 e il 2019, cioè nel periodo in cui il traffico umano nel Mediterraneo ha segnato il picco, costui era commissario europeo per la migrazione. Abbiamo perso il conto di quante volte lo abbiamo sentito dire che l’Italia andava aiutata a gestire il problema degli sbarchi: ogni volta i suoi interventi si concludevano con un nulla di fatto. Per tutta la durata del suo mandato, Avramopoulos non ha fatto altro che cementare lo status quo. Ora siamo venuti a sapere di che bel giretto facesse parte questo signore: era membro onorario del board della Ong Fight Impunity di Antonio Panzeri, da cui pare abbia incassato circa 60.000 euro tra il primo febbraio 2021 e il primo febbraio di quest’anno. Attività legittima, sul piano formale. Ma parecchio discutibile sul piano politico (e forse, si vedrà, anche su quello giudiziario). Può darsi che l’ex commissario non abbia commesso alcun reato, ma di sicuro abbiamo capito a che mondo facesse riferimento, a quale ideologia e a quali meccanismi di potere.
Con Fight Impunity risulta che abbia collaborato anche un’altra figura interessante. Si tratta di Giacomo Bartolo, che con la Ong ha avuto per un periodo un contratto da 1.900 euro mensili (non è una somma da buttar via, di questi tempi). Il suo nome è ignoto ai più, ma famosissima è la storia di suo padre ovvero Pietro Bartolo il «medico di Lampedusa» celebrato da film, sceneggiati, libri e documentari.
Quando il Pd ha deciso di trasformare Lampedusa nel simbolo dell’accoglienza, consegnandola così a un destino infausto, Bartolo è divenuto un’icona, il modello su cui plasmare la mentalità italiana. Ne ha ricavato un posto ben retribuito al Parlamento europeo, grazie al quale ha potuto continuare a pontificare serenamente sulla necessità di farsi carico di tutti i migranti. Non risulta che abbia offerto un contributo determinante per la risoluzione della grana migratoria, però ha interpretato molto bene il ruolo di figurina progressista. Non è indagato nell’ambito del Qatargate, ma di certo aveva ottimi rapporti con Panzeri e con la sua longa manus Francesco Giorgi. Quando la mozione a favore del Qatar voluta da Panzeri fu bocciata, Bartolo pare l’abbia riproposta sotto forma di emendamento.
Capite bene che qui non c’è soltanto una questione morale grande come una casa. Qui ci sono anche delle clamorose questioni politiche. Il gruppo di potere progressista di cui sono emersi gli altarini ha ispirato o addirittura guidato le scelte della Ue in ambito migratorio negli ultimi anni. È per merito di questa gente che ci troviamo nelle attuali condizioni, ancora alle prese con i capricci delle Ong.
La vicenda di Sumahoro, della sua poco (ma elegantemente) vestita compagna e di sua suocera completano il radioso quadretto dell’orrore. Non c’è un anello della catena, non c’è un tifoso dell’accoglienza che sia al riparo da ombre e sospetti. Se dal 2015 a oggi non è cambiato nulla, è per colpa di questo sistema e dei suoi ingranaggi marci. Lo sapevamo anche prima, come no. Ora però dobbiamo sopportare una bella dose di schifo in più.







