(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare della Lega Roberto Vannacci durante un'intervista al Parlamento europeo di Bruxelles.
Lo ha dichiarato l'europarlamentare della Lega Roberto Vannacci durante un'intervista al Parlamento europeo di Bruxelles.
Altro che un’ora di ritardo cercando un aeroporto per atterrare che non fosse disturbato sulle frequenze del sistema Gps, altro che piloti in affanno in cerca delle carte di avvicinamento cartacee, che comunque bisogna sempre avere ma che possono anche essere dei semplici file pdf su tablet non certo affetti da episodi di guerra elettronica. Così se la stampa è andata in delirio e ha cominciato a replicare la notizia diffusa dal Financial Times, a fare luce sulla vicenda è stato direttamente il sito per il tracciamento degli aeromobili Fight Radar 24, che su X ha postato questo messaggio: «Stiamo ricevendo notizie dai media di interferenze GPS che hanno interessato l’aereo che trasportava Ursula von der Leyen a Plovdiv, in Bulgaria. Alcuni rapporti affermano che l’aereo è rimasto in attesa per 1 ora, ma questo è ciò che possiamo dedurre dai nostri dati. Il volo avrebbe dovuto durare 1 ora e 48 minuti. Ci sono voluti 1 ora e 57 minuti. Il transponder dell’aereo ha segnalato una buona qualità del segnale Gps dal decollo all’atterraggio». Ovvero, se c’è stato un lieve ritardo nella rotta del Falcon 900lx che trasportava il presidente Ue, esso non è stato dovuto certo a chissà quale attacco delle forze speciali di Vladimir Putin, come aveva anche dichiarato il Cremlino in una nota subito successiva alla notizia. Ma si sa, quando a sparare (anche castronerie) è un grande giornale, ce ne sono altri 20 che gli vanno dietro.
Vero è che nell’Est dell’Europa le frequenze del sistema di navigazione statunitense possono subire frequenti disturbi, ma non soltanto è un fatto noto, ma anche costantemente controllato e segnalato dalle autorità aeronautiche. Inoltre, velivoli moderni come il Falcon hanno a bordo apparati che possono ricevere e utilizzare segnali provenienti da più costellazioni, come l’europea Galileo, la russa Glonass e la cinese Beidu. C’è poi un’altra faccenda: disturbare un’area è relativamente semplice se si dispone di apparati idonei a farlo, ma «mirare» un singolo volo è veramente molto complicato, poiché lo si dovrebbe avvicinare con un altro equipaggiato con i cosiddetti «jammer» - disturbatori - o puntare con sistemi che non passano inosservati. Quanto poi ai piloti, nessun professionista di voli executive volerebbe senza una ridondanza quanto alle carte di navigazione, specialmente quelle di avvicinamento; nessun pilota pianifica un volo come quello senza considerare uno o più aeroporti alternativi per l’atterraggio. Quanto ai Gps di bordo, in caso di funzionamento irregolare (per jamming o per spoofing - inganno), il parametro di precisione viene segnalato all’equipaggio che lo riporta immediatamente ai centri radar di controllo, da dove si possono verificare posizione, quota, velocità e rotta.
Forse, però, 9 minuti di ritardo per Ursula sono troppi: la prossima volta dovrebbe provare con un volo low cost…
Il noleggio dell’Air Force Renzi, oggi abbandonato ad arrugginire nel piazzale dell’aeroporto di Fiumicino, è stata un’operazione finanziaria davvero spericolata. I soggetti protagonisti sono tre: il governo guidato dal fu Rottamatore, l’Alitalia Sai sull’orlo del fallimento e la compagnia emiratina Etihad che, a partire dal gennaio 2015, era ufficialmente subentrata come socio di minoranza in Alitalia acquistando il 49 per cento a 387,5 milioni di euro, a cui vanno aggiunti altri 172,5 milioni per l’acquisto di asset come la «loyalty» (la comunità Millemiglia) e gli slot aeroportuali di Londra.
In quei mesi il governo decide di acquistare o noleggiare un aereo di Stato degno di tal nome e si rivolge alla compagnia di bandiera anche se di fatto a guidarla in quel momento sono i partner industriali arabi.
Inizia così una singolare triangolazione: Alitalia firma un contratto di leasing per un Airbus A340-500 con Etihad e il governo sigla un accordo di subleasing con Alitalia. Un gioco di specchi dietro al quale in realtà sembra che la trattativa sia effettuata direttamente tra l’Italia e gli Emirati.
A svelarlo sono i documenti allegati alla consulenza del commercialista Stefano Martinazzo, esperto di indagini sulla criminalità economica e aziendale, depositati presso la Procura di Civitavecchia. In particolare una lettera dimostra come Etihad si rivolgesse direttamente al governo per chiedere i soldi necessari per acquistare l’aereo di Stato e garantire il successivo noleggio, alla non modica cifra di 167 milioni da spalmare su otto anni, con canoni mensili da 591.000 dollari, alla non modica cifra finale di 167 milioni comprensiva di tutti i servizi accessori.
Dalla lettura della prima versione (la numero 802) del contratto per il sub-leasing emerge chiaramente come le nostre istituzioni fossero consapevoli di sottoscrivere un accordo per un aereo di cui Alitalia non aveva la disponibilità. Al sesto punto delle premesse si legge infatti: «Alitalia potrà disporre di un aeromobile quadrimotore turbofan a lungo raggio Airbus A340-500, ai sensi di un contratto di locazione che dovrà essere sottoscritto con la società Etihad ottenuto il consenso dei finanziatori». Ma all’epoca Alitalia e il suo socio di minoranza non hanno ancora firmato il loro contratto di leasing.
Negli allegati all’accordo del gennaio 2016, tra l’allora nostra compagnia di bandiera e il governo, c’è un riferimento esplicito a una società con sede nelle Isole Cayman, la Union three leasing limited, alla quale Etihad ha ceduto nel 2007 l’Airbus, per riprenderlo in leasing. Nell’allegato A al contratto tra Alitalia e lo Stato si legge infatti: «La proprietà dell’aeromobile rimarrà attribuita all’Union Three (soggetta al relativo mutuo) per tutta la durata del contratto di locazione».
Nei mesi successivi qualcosa, forse proprio legata alla proprietà dell’Airbus, si inceppa e inizia una nuova trattativa con tanto di riunioni tra Etihad, Alitalia e Claudio De Vincenti, all’epoca sottosegretario di Palazzo Chigi, incaricato da Renzi di seguire l’affare. Nel settembre 2015 è stato lui a scrivere un’accorata lettera al ministro della Difesa Roberta Pinotti, che merita di essere citata: «La nostra azione di Governo, molto orientata a perseguire la promozione del sistema Paese in ambito internazionale, si realizza anche attraverso visite e incontri a livello delle massime autorità istituzionali. In tali occasioni, che sovente comportano trasferimenti della durata di diverse ore, è oramai imprescindibile assicurare un continuo scambio di comunicazioni, dati e informazioni oltreché garantire il necessario livello di sicurezza e riservatezza. Tali requisiti non possono essere completamente soddisfatti, con la dovuta prontezza e nella misura richiesta, dalla attuale flotta aerea di Stato, composta da velivoli della classe A319 e F900, ormai obsoleti sotto gli aspetti indicati». Dunque è il momento di cambiare: «In tale contesto, è intendimento del Presidente del Consiglio garantire al Paese, al Presidente della Repubblica, alle più alte cariche dello Stato e al Governo tutto tale capacità, mediante la disponibilità di un servizio di volo basato su una piattaforma della classe Airbus A340-500, con capienza adeguata, dotato di idoneo allestimento protocollare e opportunamente configurata con sistemi di comunicazione che garantiscano il necessario grado di tutela e riservatezza». A questo punto De Vincenti giustifica il costo esorbitante dell’affare con queste parole: «Anche al fine di razionalizzare l’impiego delle risorse disponibili e considerata la rapida obsolescenza dei moderni aeromobili, dovuta all’incalzante progresso tecnologico, si ritiene che il criterio di economicità possa essere perseguito mediante le modalità del «leasing» del velivolo, piuttosto che attraverso la sua acquisizione, che avrebbe un costo di circa 200/300 milioni di euro». Non è chiaro su quali basi poggi la stima del costo messa nero su bianco da De Vincenti sulla sua carta intestata, ma quello che è certo è che il sottosegretario chiede «l’attuazione urgente e prioritaria del programma indicato, soprattutto in previsione di una serie di missioni assai importanti già previste nei prossimi mesi, in particolare da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri». Ma torniamo al contratto. Il 10 maggio, Andrew Fisher, a capo della pianificazione flotta di Etihad, scrive a De Vincenti per battere cassa. Il tono però, nonostante il ruolo del sottosegretario, è confidenziale: «Caro Claudio, grazie per aver ospitato ieri la riunione con Imod (il ministro della Difesa italiano, ndr) nei vostri uffici». Poi sollecita una pronta conclusione dell’affare, pena il fallimento della trattativa: «Abbiamo avuto l’opportunità di discutere la questione internamente. Abbiamo richiesto che i fondi di 25 milioni di dollari fossero trasferiti sul conto di Etihad (tramite Alitalia) entro e non oltre il 20 maggio. Dopo l’incontro di ieri abbiamo capito che il governo italiano ha confermato di voler procedere con la proposta recentemente presentata (senza opzione di cessione dell’acquisto). Tuttavia, i processi interni richiederebbero altri 10 giorni per essere completati. Ciò pone Etihad in una posizione difficile, soprattutto rispetto ai requisiti di volo in sospeso dovuti al programma di manutenzione e parcheggio. Comunque, come ulteriore gesto di buona volontà, abbiamo concordato di concedere questi ulteriori 10 giorni per il processo di pagamento, a condizione che abbiamo una Loi (lettera di intenti, ndr) prima del 20 maggio. Successivamente, se Etihad non avrà ricevuto il pagamento anticipato di 25 milioni di dollari entro il 31, dovremo rimpatriare l’aereo ad Abu Dhabi dove inizieranno i lavori di rebranding». Il 16 maggio, Matteo Mancinelli, direttore finanziario di Alitalia, scrive al generale ispettore capo Francesco Langella, e lancia un allarme: «Confermo che per Ey (Etihad, ndr) è altresì essenziale che il pagamento di 25 milioni di dollari sia versato ad Alitalia e da questa ad Ey entro e non oltre il 31 maggio». Esattamente 24 ore dopo, il 17 maggio, viene sottoscritta la nuova versione del contratto tra Alitalia-Sai e il ministero della Difesa. Gli importi complessivi e quello delle rate restano invariati, ma la richiesta dei 25 milioni da parte di Etihad viene accolta: «Entro la data di consegna Alitalia emetterà nei confronti del ministero della Difesa una fattura per un importo pari a 25 milioni di dollari e tale importo sarà prontamente pagato dal ministero al momento dell’approvazione del contratto principale da parte dei competenti «Organi di controllo» italiani». E dalla nuova versione dell’allegato A, scompare ogni cenno alla Union Three, con gli articoli che fanno riferimento agli obblighi nei confronti di chi possiede l’aereo che parlano genericamente di «proprietario», senza nessun nominativo. Anche perché il 22 giugno successivo Etihad acquisterà il velivolo, entrandone nel pieno possesso, con i soldi di Alitalia. In poche parole, come già detto, il nostro governo dà agli emiratini i soldi per comprare un aereo che successivamente noleggerà a un prezzo esorbitante (l’aereo nel contratto viene valutato 58 milioni di dollari). Un’operazione che, a dispetto di quanto affermato da De Vincenti, non ha esattamente i crismi dell’economicità.
E il vecchio contratto? È stato annullato «per sopravvenute esigenze connesse alla necessità di dover nuovamente negoziare su alcune clausole contrattuali, ritenute non più fattibili e, al contempo, avviare immediatamente la predisposizione di nuovo contratto». L’aereo viene così noleggiato. Ma alla fine, prima di essere abbandonato alle intemperie, effettua solo 29 voli di Stato e mai con Renzi a bordo (forse perché, date le dimensioni, non poteva atterrare a Firenze). Come risulta da un promemoria di un dirigente di Alitalia, l’aereo è stato usato tre volte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dieci dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, undici da due ministri degli Esteri, tre dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, due da un Sottosegretario del ministero allo Sviluppo economico.
Caro lei quando c’era lui! Quando c’era lui l’Italia appena ridestata dagli orrori della guerra trovava energia, pensava in grande e contendeva ai monopolisti il dominio del mercato del petrolio e del gas. Lui era Enrico Mattei, morto ammazzato il 27 ottobre 1962. Il suo aereo di rientro da Catania Fontanarossa fu fatto saltare con una carica di esplosivo piazzata dietro al cruscotto e attivata dall’apertura del carrello quando era sulla verticale di Bascapè in avvicinamento a Linate. Col presidente dell’Eni morirono Irnerio Bertuzzi il pilota e il giornalista americano William McHale. Il delitto Mattei è uno dei grandi misteri d’Italia, ma non se ne ricorda quasi nessuno perché è paradigmatico: ci sono di mezzo politici, mafiosi, servizi deviati e servizi segreti interazionali, complicità interne all’Eni. Il delitto Mattei segnò una regressione dell’Italia di cui ancora paghiamo pegno: dall’euforia della ricostruzione alla cappa della restaurazione e della sudditanza estera. La scia di sangue non si è fermata a questo partigiano divenuto a suo modo comandante della modernità italiana: hanno ammazzato Mauro De Mauro perché sapeva molto sulla fine di Mattei e forse anche Pier Paolo Pasolini è finito nel cono d’ombra. La verità a volte costa carissima.
Ma il presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel suo discorso d’insediamento ha risvegliato l’Italia dall’oblio: «Il 27 ottobre ricorrerà il sessantesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il mondo. Credo che l’Italia debba farsi promotrice di un “piano Mattei” per l’Africa, un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana. Ci piacerebbe così recuperare, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo». Sentenziò Niccolò Machiavelli: «Tutti li tempi tornano, li uomini son sempre li medesimi.»
Magari fosse vero pensando a Enrico Mattei che mentre comprava petrolio e gas, trivellava ovunque e aveva fatto dell’Italia la terza potenza nucleare del mondo. Si era legato a Felice Ippolito (finirà sotto inchiesta anche lui, ma almeno non lo hanno ammazzato) e in soli quattro anni aveva realizzato a Latina la prima centrale nucleare alimentata a uranio naturale che l’Eni aveva trovato in Italia. Aveva una potenza di 210 megawatt, l’avviarono il 27 dicembre del 1962. Mattei non c’era più da due mesi.
Stamani a Matelica, la città in provincia di Macerata dove ha vissuto e dove ne sono sepolti i resti e che è stata per almeno un decennio una capitale mondiale del petrolio senza averne una goccia, Enrico Mattei viene ricordato in convegno organizzato dalla Fondazione Mattei presieduta da Aroldo Curzi-Mattei, figlio di Rosangela Mattei, la combattiva nipote di Enrico che ha scritto libri, promosso inchieste, che cura il museo Mattei, è presidente dell’Associazione partigiani cristiani che fu fondata da Enrico e mai ha smesso di testimoniare la verità sulla fine del presidente dell’Eni. Al convegno di stamane partecipano il neo ministro Gilberto Pichetto Fratin e il suo omologo algerino Laid Rebigua. Se l’Italia riceve tanto gas dall’Algeria il merito è anche di Enrico Mattei: per gli algerini è un eroe nazionale. Fu lui a sostenerli nella guerra d’indipendenza contro i francesi e il 5 luglio scorso si sono festeggiati i sessanta anni dell’indipendenza d’Algeria. Rosy Mattei e suo figlio, che ha facilitato le trattative tra l’ex ministro Roberto Cingolani e il governo africano, sono stati gli ospiti d’onore. Questo era il metodo Mattei: fare partecipare agli utili del petrolio le popolazioni che detenevano i giacimenti e aiutarle nel loro progresso. Lo ha fatto in Africa, in Persia, in Russia (allora Urss). La sua lezione resta: l’Eni è impegnata in Africa a promuovere con Filiera Italia e Coldiretti progetti di sviluppo agricolo e gli italiani forti dell’eredità Mattei, non sono mai percepiti come conquistatori. «Questa è l’unica consolazione per l’uccisione dello zio», dice Rosangela Mattei a La Verità. «Me la ricordo quella mattina quando portarono la bara con una macchina nera che scappò subito via. Dentro non c’era nulla, fecero i funerali senza il corpo. Poi portarono i resti: c’erano tre gambe. Al processo portato avanti con coraggio dal pm Vincenzo Calia ho fatto nomi cognomi e circostanze e le ho descritte nel mio libro, ma il caso Mattei non è chiuso. Al museo abbiamo tutto: le lettere, i documenti del suo lavoro nel mondo a vantaggio dell’Italia per tesser alleanze con i Paesi produttori. Quello è l’esempio da seguire: nel Maghreb, ma anche in Iran, come in Libia e in Egitto si deve tornare a usare il metodo Mattei. Che era anche quello di costruire i gasdotti di notte, saltando tutte le autorizzazioni. C’era un Paese da mettere in moto e lui lo fece. Ripeteva: l’Italia sa fare le automobili deve fare anche la benzina. Quello spirito è ciò che serve e con quello spirito l’Eni nel nome di Enrico Mattei, in Algeria ha trovato le porte aperte. E però non mi stanco di far vedere la lettera con cui Aldo Moro tre mesi prima che lo zio fosse ucciso gli ordinava di lasciare la presidenza dell’Eni perché gli americani si erano stufati della concorrenza sul petrolio. Lui non lasciò e oggi ricordiamo la sua morte. Ma se l’Italia vuole il piano energetico c’è, è pronto. Lo aveva scritto Mattei settant’anni fa», conclude la nipote di Enrico.
Ieri mattina Grtgaz, gestore francese di gas, come si intuisce dal nome, ha annunciato la prima consegna energetica a favore della Germania. Alle 6 del mattino sono transitati 31 gigawatt per la città di Obergailbach fino a Medelsheim dove hanno raggiunto il punto di interconnessione energetica. L’operazione è frutto di un accordo politico tra Parigi e Berlino che bypassa mesi di chiacchiere a livello europeo e, per quanto riguarda il nostro Paese, calpesta il Trattato del Quirinale. Beffa nella beffa il rapporto esclusivo tra i due Paesi europei è possibile grazie alle scelte in campo energetico della Francia e grazie alla mossa univoca della Germania di stracciare qualunque possibile accordo europeo di collaborazione reciproca. Il riferimento è a i costanti boicottaggi politici e al piano di investimento da 200 miliardi mirato a livellare il prezzo delle bollette verso il basso. Un danno per le altre aziende europee che faticheranno a stare al passo con le imprese tedesche così sussidiate.
Il paradosso finale si è però consumato ieri mattina, quando Berlino alla luce del sole ha chiesto apertamente di fare un gruppo di acquisto paneuropeo per i missili e per la difesa dei cieli. Soprattutto i suoi. Ieri il governo tedesco ha proposto ai ministri della Difesa di 14 Paesi della Nato guidata da Jens Stoltenberg, che insieme con la Finlandia si sono riuniti a Bruxelles per firmare una lettera di intenti per lo sviluppo della European Sky Shield Initiative, un accordo per creare di fatto uno scudo aereo per la protezione dei cieli europei.
L’iniziativa punterebbe a creare la base di un sistema europeo di difesa aerea e missilistica attraverso l’acquisizione comune di armamenti da parte delle nazioni europee e, secondo le intenzioni, «questo atto dovrebbe rafforzare la difesa aerea e missilistica integrata della Nato», come si legge in una nota dell'Alleanza atlantica. In realtà, nasconde il fatto che dietro questa proposta tedesca c’è il ritardo dell’entrata in servizio del sistema Arrow 3 che, qualora scelto da Berlino, non sarebbe operativo almeno fino al 2025. I Paesi Nato che hanno firmato l’iniziativa sono: Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Germania, Ungheria, Lettonia, Lituania, Olanda, Norvegia, Slovacchia, Slovenia, Romania e Regno Unito. Il vicesegretario generale della Nato Mircea Geoana ha a sua volta dichiarato: «Questo impegno oggi è ancora più importante poiché assistiamo agli attacchi missilistici spietati e indiscriminati della Russia in Ucraina, che uccidono civili e distruggono infrastrutture critiche. In questo contesto, accolgo con favore la leadership tedesca nel lancio dell’iniziativa European Sky Shield; le nuove risorse, completamente interoperabili e perfettamente integrate nella difesa aerea e missilistica della Nato, miglioreranno significativamente la nostra capacità di difendere l’Alleanza da tutte le minacce aeree e missilistiche». Per taluni Stati si tratta di un’ottima occasione per dotarsi di armamenti moderni a costi ridotti, per altri di rinnovare i sistemi dispiegati oggi con altri in standard Nato. L’idea tedesca si propone di creare uno scudo antimissilistico europeo che aumenterebbe la protezione per gran parte del Vecchio continente grazie a una serie di barriere di difesa predisposte per intercettare vari tipi di missili a diverse altezze, coordinando i lanci dei sistemi di difesa aerea israeliani Arrow 3 con i Patriot di fabbricazione statunitense e con gli Iris-T tedeschi, ma attivabile mediante la catena di reazione rapida dell’Alleanza.
Il ministro della Difesa tedesco Christine Lambrecht, in occasione di una riunione ministeriale della Nato a Bruxelles, ha dichiarato: «Si tratta di essere interoperabili e in grado di fissare i prezzi di acquisto, ma anche di sostenersi a vicenda; quindi, è una situazione vantaggiosa per tutti i Paesi che ne fanno parte». La Lambrecht ha anche sottolineato l’aumento dei rischi per la sicurezza in Europa a seguito dell’invasione dell’Ucraina e delle minacce fatte dal presidente russo Vladimir Putin: «Dobbiamo muoverci velocemente ora. È importante che le lacune della nostra difesa siano colmate perché stiamo vivendo tempi pericolosi e impegnativi».
La domanda di fondo è chi pagherà? E l’altra domanda è a chi più conviene spalmare i costi su tutti i Paesi Ue? La risposta in entrambe i casi è quella stessa Germania che non vuole mai prendere in considerazione la condivisione del debito o del rischio energetico. Da un lato l’idea di dotarsi di missili validi da Roma a Berlino, da Madrid fino a Varsavia, ha i suoi validi fondamenti. Ad esempio, la buona notizia è che con Mbda quei missili li costruiamo anche noi. Ma il problema resta sempre la reciprocità. All’accordo potrebbero presto aderire anche altri Paesi seppur attualmente la realizzazione dello scudo aereo debba superare le limitazioni e le tempistiche della produzione e i ritardi delle consegne che stanno affliggendo il settore privato. «Siamo aperti a tutti e sappiamo che molti Paesi sono interessati», ha concluso la Lambrecht, aggiungendo che la Germania ha già avviato negoziati con produttori di sistemi antimissile. In verità l’idea dello scudo antimissilistico è stata annunciata per la prima volta dal cancelliere tedesco Olaf Scholz in un discorso a Praga nell’agosto scorso, quando ha affermato che il Paese avrebbe investito in modo significativo nella sua difesa aerea poiché il continente aveva «molto da recuperare». Per continente Scholz intende però il suo Paese.
Il primo a muoversi è stato il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, che la scorsa settimana ha criticato i Paesi «anche amici» che «ottengono al momento cifre astronomiche» fornendo il proprio gas all’Unione europea. «Questo pone dei problemi che vanno affrontati», aveva aggiunto il ministro, sollecitando la Commissione Ue a occuparsi del problema. Il riferimento, per nulla velato, era a Norvegia e Stati Uniti, che hanno aumentato le loro forniture verso il Vecchio continente ai prezzi altissimi del mercato di oggi. A ruota, nelle rivendicazioni è seguito il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire, che parlando martedì all’Assemblea nazionale ha detto: «Non possiamo accettare che il nostro partner americano ci venda il suo Lng a un prezzo quattro volte superiore a quello al quale vende ai propri clienti industriali». E poi, ha proseguito, «un indebolimento economico dell’Europa non è nell’interesse degli Usa e per questo dobbiamo trovare rapporti economici più equilibrati». Un doppio rimprovero coordinato, diretto a Joe Biden perché contenga la bramosia dei metanieri a stelle e strisce.
Berlino e Parigi, come noto, sono alle prese con gravi difficoltà sul fronte energetico. In Germania non arriva più il gas russo ormai da mesi e si va verso un inverno di razionamenti duri, mentre il governo ha stanziato altri 200 miliardi per pagare le bollette dei tedeschi. In Francia, dove il parco delle centrali nucleari è ancora per metà fuori servizio per problemi di manutenzione, è stato imposto un prezzo calmierato dell’energia ma il Paese è in subbuglio per la perdita del potere d’acquisto della popolazione, con diversi scioperi in corso.
Mercoledì, il Consiglio europeo e la Commissione hanno fatto proprie le istanze tedesche, includendo il tema delle rinegoziazioni con i fornitori amici tra le linee di azione che la Commissione dovrà attuare nei prossimi mesi. Nella riunione di Praga è stato deciso anche di dare impulso agli acquisti congiunti, mettendo a fattor comune la posizione di acquisto europea, con la speranza di farla pesare nelle trattative sul prezzo. Tutte cose che servono alla Germania come l’ossigeno.
In effetti, da quando è iniziata la crisi energetica, sia gli Stati Uniti che la Norvegia hanno aumentato le proprie esportazioni verso l’Europa. Nel 2021 la Norvegia ha esportato verso l’Unione europea 81.56 miliardi di metri cubi via gasdotto, nel 2022 siamo già a 89 (+9%). Sono però soprattutto gli Stati Uniti ad aver incrementato le proprie forniture di Lng all’Europa. Già nel 2021 i volumi erano passati a 29 miliardi di metri cubi dai 22 miliardi del 2020 (+30%), ma è nel 2022 che le consegne sono esplose, arrivando a 50,2 miliardi nei primi nove mesi dell’anno (+73% rispetto all’intero 2021). Un exploit che non ha precedenti nei rapporti tra gli Usa e l’Europa. A che prezzi ha comprato l’Europa tutto questo gas? Ai prezzi di mercato, ovviamente, alti perché molto vicini a quelli registrati al Ttf. Se il gas americano all’Henry hub viene trattato all’ingrosso a circa 22,5 euro/Mwh, quello al Ttf è intorno ai 158 euro/Mwh e il Lng destinato all’Asia viaggia attorno a un prezzo di 120 euro/Mwh (prezzi di ieri).
Il fatto che l’Europa sia disposta a pagare più dell’Asia per avere il gas via nave sta privando altri Paesi delle forniture americane, ad esempio Pakistan e India. L’export Usa è già aumentato del 15% in un anno e la gran parte della capacità produttiva è impegnata con contratti a lungo termine. In più, l’incidente occorso a uno dei maggiori siti di esportazione di Freeport lng ha ulteriormente limitato la capacità statunitense, e sarà così almeno sino a marzo prossimo.
Le lamentele franco-tedesche sui prezzi praticati dalle compagnie americane del gas liquido sono però assai tardive e ipocrite. Quando dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia gli Stati Uniti imposero all’Europa di abbandonare le forniture di gas russo, Bruxelles si accontentò di un generico impegno da parte degli Usa a fornire 15 miliardi di metri cubi di gas nel 2022 e di un ancor più generico impegno a portare questo quantitativo a 50 entro il 2030. Nessun accordo però è stato preso sui prezzi, a quanto risulta. Non contenti di non aver concordato nulla con gli Usa (quantitativi a lungo termine, prezzi, salvaguardie), gli improvvisati tecnoburocrati di Bruxelles lo scorso maggio hanno approvato il Repowereu, che esplicitamente spingeva a rinunciare immediatamente a due terzi delle forniture russe. A quel punto, cosa poteva frenare il prezzo del Lng, in un mercato già molto stretto, dove l’offerta è limitata? L’Unione europea si è gettata a corpo morto in un gioco più grande di lei, senza alcuna preparazione, senza avere negoziato a fondo i termini di un supporto americano a lungo termine, senza aver predisposto prima una rete di fornitori alternativi, senza aver organizzato le infrastrutture in grado di accogliere navi metaniere e senza aver negoziato prima aumenti di volume con i fornitori attuali (Algeria, Norvegia, Azerbaijan). Una clamorosa incapacità cui ora si pensa di porre rimedio con mesi di inutili trattative su fantasiosi corridoi di prezzo, nuovi benchmark e razionamenti da tempo di guerra. Dietro i richiami francesi e tedeschi all’alleato americano c’è un appello a un maggiore supporto sui prezzi, è vero. Ma vi è anche l’involontaria e drammatica presa d’atto della situazione estrema in cui si trova tutta l’Europa, condotta in un vicolo cieco da una classe dirigente misera e inetta.

