Di chi è la colpa del crollo del ponte Morandi? L'economista francese Jacques Attali ha la risposta: del governo gialloblù. Come hanno fatto i «maramaldi» populisti, per riprendere la definizione di Antonio Polito, a provocare lo sbriciolamento del viadotto genovese? Non sono mai stati al potere, non hanno gestito le privatizzazioni alla Romano Prodi, non si può dire siano amici dei Benetton. Però sono un sintomo della «mancanza di fiducia» degli italiani verso il futuro. E se la fortuna aiuta gli audaci, la sfiga si abbatte sui pessimisti.
Forse è una ricostruzione ingenerosa del post pubblicato ieri sul suo blog da Attali. Ma visto anche l'articolo di Bernard Henry-Lévi, apparso sulla Stampa domenica scorsa, ci sembra opportuno sottolineare che i brillanti commentatori transalpini stanno approfittando dei fatti di Genova per rigirare le frittata contro le forze antisistema. Così, se Henry-Lévi se l'era presa con l'opposizione dei grillini alla Gronda, la variante autostradale che avrebbe dovuto alleggerire il traffico sul ponte Morandi, Attali ha affermato a chiare lettere che c'è «un legame tra l'arrivo al potere di Salvini e il crollo del ponte di Genova». Secondo il banchiere francese, l'Italia ha commesso un errore fatale: ha sperperato la propria ricchezza per il bene delle generazioni presenti, senza pensare alle conseguenze sulle generazioni future. La solita narrativa dei mediterranei goderecci che, avrebbe detto l'ex presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, spendono tutto in alcol e donne e pretendono di presentare il conto agli stacanovisti del Nord Europa. Certo, gli euroinomani dimenticano che è nei decenni della «liretta» e del debito pubblico che si fece l'Italia: si costruirono ferrovie, autostrade, ponti (incluso quello di Riccardo Morandi), colossi industriali. Un patrimonio che iniziò a essere aggredito, tra le altre, dopo il divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia, che prima garantiva per il nostro debito pubblico. Da allora fummo costretti a piazzare le obbligazioni sui mercati finanziari. Alle condizioni dettate dai mercati finanziari, ai quali giustamente interessa che ciascuna operazione frutti il massimo profitto, non che i viadotti siano manutenuti.
Ma tralasciamo pure i dettagli storici e concentriamoci sull'aspetto più assurdo del discorso di Attali. Il punto, a suo avviso, è che gli italiani sono preoccupati per il loro futuro. Si sono convinti che «si stava meglio prima». Non hanno fiducia nel progresso, che Attali e i suoi seguaci naturalmente identificano con la globalizzazione, la finanziarizzazione dell'economia, l'euro, il mercato unico, la liquefazione delle nazioni, la soppressione dei confini. Ecco allora che questa rassegnazione si traduce «nel crollo del tasso di natalità e nell'aumento del populismo». Ossia, nel desiderio di bruciare i propri stock di ricchezza, di consumare le risorse per il godimento presente piuttosto che impiegarle per preservare il «patrimonio», di cui fanno parte le infrastrutture. Per farla breve, ce la siamo cercata. Una specie di suicidio: abbiamo premiato rappresentanti politici che ci promettevano solo benessere immediato. Altro che Benetton. Altro che Iri di Prodi. Gira e rigira, il male è il populismo.
Possibile che intellettuali di simile peso ci propinino diagnosi così banali? Attali è un uomo di potere, il padre putativo di Emmanuel Macron, il creatore di un personaggio che è stato impiegato dall'establishment europeo per un'operazione di ripulitura tanto superficiale quanto elettoralmente vincente. Attali è in questo senso l'idealtipo dei «competenti». Ma allora i «competenti» si stanno affidando a quella che il sociologo Robert Merton avrebbe definito una «profezia che si autoavvera». E che per il filosofo Karl Popper era una pura e semplice fallacia logica.
L'argomentazione di Attali ruota intorno al tema della fiducia e inverte cause ed effetti del declino italiano, di cui il crollo del viadotto Morandi è l'ultima tragica manifestazione. L'«analfabeta funzionale», ragiona così: il sistema economico e politico è viziato da ingiustizie, queste ingiustizie provocano sciagure, dunque, pur non cessando di nutrire fiducia, la accordo alle forze politiche che ritengo possano cambiare le cose. La tesi del sempliciotto può essere sbagliata: se il governo del cambiamento non cambierà nulla, vorrà dire che la fiducia era immeritata. Ma proprio perché falsificabile, direbbe Popper, la teoria è plausibile. Attali invece ci rimbrotta: voi non avete fiducia nel progresso ed è per questo che il progresso non si realizza. Teoria che sarà vera per forza: se nutriamo fiducia nelle meraviglie del globalismo e le cose iniziano a girare per il verso giusto, allora essa si dimostra valida; ma se il progresso non arriva, si può sempre dire che siamo noi a non averci creduto abbastanza. Un po' come chi difende il comunismo «perché non è mai stato realizzato veramente». Che delusione. I laicissimi «esperti», che si trincerano sempre dietro la loro «competenza», hanno solo questo da offrirci: un atto di fede, e senza neanche Dio.
- La maggioranza alza la voce con i Benetton. Luigi Di Maio: «La revoca non comporta nessuna penalità perché sono inadempienti». Matteo Salvini: «Comincino a pagare subito».
- Sale la preoccupazione per i 7.500 dipendenti e per l'esposizione del gruppo agli istituti pari a 1,3 miliardi. In caso di default l'impatto sarebbe pesante come il crac bancario del 2015.
- Si possono disdire gli accordi dopo un lungo iter. Il rischio per lo Stato è dover pagare comunque la società.
Lo speciale contiene tre articoli.
La guerra tra il governo e il gruppo Benetton assume toni e metodi trumpiani. Urlo, alzo la pistola in aria, tiro qualche colpo, poi freno. Nella speranza di portare a casa risultati immediati e tangibili. Spesso a Donald Trump riesce. Per i gialloblù il discorso è un po' diverso: dopo aver promesso -per bocca di Giuseppe Conte e del vicepremier, Luigi Di Maio - la revoca immediata della concessione ad Autostrade per l'Italia (non si capiva se per la tratta dell'A10 o per l'intero tratto italiano di striscia autostradale) il Consiglio dei ministri si è limitato a mettere nero su bianco la decisione di muoversi verso probabili sanzioni per il crollo del ponte e per i 38 morti conseguenti.
Nel frattempo il titolo di Atlantia, la società posseduta in maggioranza dalla famiglia Benetton, e controllante di Autostrade ha aperto la sessione con una perdita virtuale del 50% per poi assestarsi verso un calo nell'ordine del 20%. I mercati hanno capito che la minaccia gialloblù non era poi così fondata, già prima dell'emissione della nota di Palazzo Chigi. A Borsa chiusa, il governo ha rilasciato una postilla al cdm spiegando che sarà istituita un'apposita commissione al fine di valutare eventuali mancanza da parte di Atlantia e solo a quel punto avviare un eventuale iter di revoca delle concessioni. Tutt'altra sostanza rispetto alle dichiarazioni pubbliche dei rappresentanti del governo. Certo, i vertici di Atlantia si sono occupati di gettare benzina sul fuoco. Il comunicato reso pubblico in apertura di Borsa ieri si preoccupava di far presente che in caso di revoca il governo avrebbe dovuto pagare una sorta di penale. Dal loro punto di vista il dettaglio avrebbe dovuto rassicurare gli investitori in fuga dal titolo e dai bond. Come dire, la capitalizzazione non crollerebbe, lo Stato coprirebbe i mancati introiti. La scelta comunicativa è pessima. «Atlantia riesce ancora, con una faccia di bronzo incredibile e con morti ancora da riconoscere, a parlare di soldi e di affari, chiedendo altri milioni agli italiani in caso di revoca della concessione da parte del governo dopo la strage di Genova», risponde Matteo Salvini. Il collega delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, aggiunge il carico da novanta e spiega di volersi addirittura costituire parte civile nel processo. Qualcuno poi (al di là dell'ex ministro Antonio Di Pietro) deve aver spiegato ai vertici del Mit, che costituirsi parte civile può essere un boomerang. A dover vigilare sulle concessioni è infatti lo stesso Mit, il quale, a differenza dei cittadini, ha a disposizione i contratti senza omissis. È vero che il tratto interessato dal crollo appartiene alla filiera Ten 10 e quindi sottostante a normative europee. Ciò significa che la vigilanza spetta al committente. L'Ue omette un dettaglio: Sul piano della responsabilità penale dovranno rispondere di omissione di atti di ufficio anche coloro che, nell'ambito della Pubblica amministrazione e in particolar modo del ministero competente, avrebbero dovuto eseguire i controlli e gli accertamenti previsti e soprattutto le messe in mora e le contestazioni che non sono invece state fatte.
Per tutti questi motivi, dopo aver inscenato il modello «prima spara, poi chiedi», è intervenuto Salvini facendo presente che se Autostrade si dimostrerà disponibile a ricostruire il ponte le cose possono cambiare. Ovviamente Autostrade ha risposto di sì. D'altronde se la prima minaccia è la decapitazione, e la seconda richiesta è il pagamento di una multa. Quest'ultima è quasi un sollievo. A quel punto ha fatto eco il governatore della Regione Liguria, Giovanni Toti: «un nuovo ponte entro il 2019».
Se il metodo del governo è quello trumpiano, sarà bene che le diverse componenti della maggioranza si riequilibrino e comprendano gli effetti delle proprie dichiarazioni. Che senso ha avuto nel caos gettare lì una frase sensazionale come quella espressa da Di Maio («nazionalizzare le autostrade») senza sapere che nel business ci sono altri colossi e verrebbero tutti azzoppati? Non siamo l'Urss e poi la storia ci insegna che la gestione pubblica è anche peggio di quella privata, nonostante oggi sia difficile immaginarlo. Ieri mattina è persino girato il rumor che Atlantia stesse meditando di fare un esposto alla Consob contro il governo per manipolazione del mercato. Se l'avessero fatto si sarebbero scavati una tomba mediatica... ma nella sostanza avrebbero avuto molti appigli. È stato Salvini a smentire Di Maio e a imporre una marcia indietro sulle nazionalizzazioni. È un gioco continuo di equilibri, ma attenti perché è pericoloso. Sparare senza prendere la mira può avere due effetti collaterali. Il modello Trump funziona se si ottiene sempre qualcosa in cambio, magari una fetta di quella che è stata la prima richiesta. Ma se non si ottiene nulla è controproducente. Così ieri sera Di Maio ha alzato di nuovo i toni. Ha detto: «Noi siamo per la revoca a tutti i costi, lo dobbiamo ai morti». E il collega Salvini si è riallineato: «Siamo sia per la revoca che per la ricostruzione del ponte». La guerra è aperta.
Atlantia ha perso in Borsa il 22%. Ballano bond per più di 7 miliardi
Non possono bastare le parole del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che assicura che le case sotto il ponte del Polcevera verranno ricostruite, altrove entro fine anno. Neppure quelle del sottosegretario alle Infrastrutture, Edoardo Rixi, che promette pronta risposta all'emergenza abitativa.
C'è un popolo di sfollati, accampati in strada con quel poco che avevano addosso nel momento in cui i vigili del fuoco li hanno costretti ad abbandonare gli appartamenti in fretta e furia: «Qui rischiate la vita, dovete andarvene subito», ripetevano bussando di porta in porta. La gente è fuggita lasciando medicine indispensabili, abbandonando cani e gatti senza cibo né acqua. I grandi caseggiati di via Porro, via Fillak e via Della Pietra andranno demoliti, su 11 di essi incombe in instabile equilibrio uno dei due monconi del viadotto che si è sbriciolato, con il suo carico di auto e vite, il giorno prima di ferragosto.
Sono 331 le famiglie che non hanno più un tetto, il governo ha contato 664 persone che per ora hanno trovato riparo nel centro civico di Sampierdarena o da parenti e amici. Ma saranno molti di più, si stanno valutando anche le condizioni di sicurezza di altri palazzi e poi parecchi inquilini sono ancora in ferie, devono tornare in città e troveranno le porte sbarrate. Si stima che gli sfollati possano salire al migliaio. Molti di loro sono in attesa davanti al nastro bianco e rosso che cinge la zona off limits in via Fillak, vigili urbani e poliziotti cercano come possono di mantenere la calma, di lenire la disperazione di chi attende il suo turno per recuperare vestiti puliti, farmaci per il diabete o la tartaruga. Attendono che i pompieri li accompagnino, ma è una faccenda lunga. Sono in infradito e pantaloncini, in canottiera, con sacchetti della spesa come valigia, seduti sul marciapiede sotto il sole cocente. Si parla, si commenta, si indica quel che resta del ponte in lontananza. C'è una poesia dedicata alla tragedia che circola sui social, una ragazza bionda che ha l'aria di non aver chiuso occhio ma è bella lo stesso la legge sullo smartphone: Derûa un pónte, derûa unn-a stradda, derûan i nervi… Tûtto derûa, fêua che noiâtri: génte dûa, inospitále, morciónna e con a tèsta cömme un mazabécco. Dice che crolla un ponte, crolla una strada, crollano i nervi, tutto crolla, tranne noi: gente dura, inospitale, musoni e testardi.
C'è anche Sabina a pazientare che i pompieri la scortino in casa: deve prendere almeno le scarpe, poi tornerà dalla suocera che la ospita. Ha assistito alla catastrofe dalla finestra della cucina: «Pioveva a dirotto, ho guardato fuori e ho visto il ponte cadere giù», racconta, «ho preso tutto quello che potevo e sono scappata via. Penso che ce la siamo scampata per un pelo. Da tre anni non dormiamo la notte per i rumori indescrivibili».
C'è anche Silvio davanti al blocco dei vigili, abita in via Porro: «In pratica, una casa prima dell'area del crollo. Adesso abbiamo paura che ce le buttino giù. La botta del ponte caduto mi ha fatto saltare dal letto, un amico mi ha ospitato. Quando succede qualcosa, in questa città c'è solidarietà. Siamo abbonati alle tragedie. Pur essendo barista e non ingegnere, mi viene da dire che questa era prevedibile».
Quella della demolizione, più che una paura è ormai una certezza, come conferma il sindaco Marco Bucci: «Quelle case non si possono salvare». Quante siano ancora non è chiaro, perché le verifiche sono in corso, ma si può ipotizzare che ci sia da trovare alloggio per almeno 1.000 persone.
La macchina si è già mossa: verranno prese in carico dagli operatori e sistemate in collocazioni provvisorie in attesa di soluzioni di lungo periodo. Comune e Arte, l'ente per le case popolari della Regione, stanno predisponendo un elenco di 50 appartamenti che saranno disponibili da lunedì prossimo, con priorità per i nuclei con anziani, minori e disabili. Sarà presto stilato, assicurano le istituzioni, un ulteriore elenco di 300 abitazioni di proprietà pubblica su cui realizzare interventi di manutenzione da finanziare attraverso una richiesta al governo. Tra la folla di via Fillak, non sono però in molti a fare affidamento sulle rassicurazioni che vengono dalla politica, che troppe volte ha pianto i morti delle alluvioni che hanno travolto questa città senza che seguissero soluzioni. Troppe volte i genovesi si sono sentiti presi in giro. Forse anche per questo sono intervenute due squadre di psicologi a tamponare il trauma dell'abbandono di casa.
«Ma questa volta, non può e non deve avvenire», dice Maria mentre si dirige, tra due vigili del fuoco, verso l'appartamento del suocero in via Della Pietra: «Ha necessità di medicine difficili da reperire, soprattutto in questo periodo festivo. Sono sono rimaste nel mobiletto del bagno, ci servono». Si continua a scavare tra le macerie sparse nel letto secco del Polcevera, con un timore in più: fra poco arriveranno le piogge e a Genova i torrenti sono un nemico infingardo. Il conto dei corpi recuperati è salito a 38, tra le vittime anche un bambino di 8 anni e due adolescenti di 12 e 13. Ma c'è ancora una grossa porzione del luogo del disastro da ispezionare, «bonificare» come dicono gli esperti. Secondo Il procuratore capo Francesco Cozzi «ci potrebbero essere ancora 10-20 persone disperse». Domani sarà il momento del dolore e delle lacrime troppo a lungo trattenute, alle 11 nel padiglione Jean Nouvel della Fiera si svolgeranno i funerali di Stato delle vittime: turisti, operai, camionisti, immigrati, famiglie intere che partivano per un ferragosto spensierato e sono stati inghiottiti dall'improvviso frantumarsi della campata centrale del ponte. La messa sarà celebrata dal cardinale Angelo Bagnasco: a lui il compito della consolazione e della speranza. Toccherà invece al capo dello Stato, Sergio Mattarella, far sentire l'abbraccio dell'Italia alla città dove tutto derûa. Tutto tranne i genovesi.







