2018-08-21
L’idiozia di Attali: il crollo del ponte colpa dei populisti
Per l'economista francese «c'è un legame tra l'arrivo al potere di Salvini» e la tragedia di Genova: gli italiani non hanno fiducia nel progresso e hanno votato le forze antisistema. Gira e rigira, ce la siamo cercata. E i «competenti» hanno sempre ragione. Di chi è la colpa del crollo del ponte Morandi? L'economista francese Jacques Attali ha la risposta: del governo gialloblù. Come hanno fatto i «maramaldi» populisti, per riprendere la definizione di Antonio Polito, a provocare lo sbriciolamento del viadotto genovese? Non sono mai stati al potere, non hanno gestito le privatizzazioni alla Romano Prodi, non si può dire siano amici dei Benetton. Però sono un sintomo della «mancanza di fiducia» degli italiani verso il futuro. E se la fortuna aiuta gli audaci, la sfiga si abbatte sui pessimisti.Forse è una ricostruzione ingenerosa del post pubblicato ieri sul suo blog da Attali. Ma visto anche l'articolo di Bernard Henry-Lévi, apparso sulla Stampa domenica scorsa, ci sembra opportuno sottolineare che i brillanti commentatori transalpini stanno approfittando dei fatti di Genova per rigirare le frittata contro le forze antisistema. Così, se Henry-Lévi se l'era presa con l'opposizione dei grillini alla Gronda, la variante autostradale che avrebbe dovuto alleggerire il traffico sul ponte Morandi, Attali ha affermato a chiare lettere che c'è «un legame tra l'arrivo al potere di Salvini e il crollo del ponte di Genova». Secondo il banchiere francese, l'Italia ha commesso un errore fatale: ha sperperato la propria ricchezza per il bene delle generazioni presenti, senza pensare alle conseguenze sulle generazioni future. La solita narrativa dei mediterranei goderecci che, avrebbe detto l'ex presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, spendono tutto in alcol e donne e pretendono di presentare il conto agli stacanovisti del Nord Europa. Certo, gli euroinomani dimenticano che è nei decenni della «liretta» e del debito pubblico che si fece l'Italia: si costruirono ferrovie, autostrade, ponti (incluso quello di Riccardo Morandi), colossi industriali. Un patrimonio che iniziò a essere aggredito, tra le altre, dopo il divorzio tra il Tesoro e la Banca d'Italia, che prima garantiva per il nostro debito pubblico. Da allora fummo costretti a piazzare le obbligazioni sui mercati finanziari. Alle condizioni dettate dai mercati finanziari, ai quali giustamente interessa che ciascuna operazione frutti il massimo profitto, non che i viadotti siano manutenuti. Ma tralasciamo pure i dettagli storici e concentriamoci sull'aspetto più assurdo del discorso di Attali. Il punto, a suo avviso, è che gli italiani sono preoccupati per il loro futuro. Si sono convinti che «si stava meglio prima». Non hanno fiducia nel progresso, che Attali e i suoi seguaci naturalmente identificano con la globalizzazione, la finanziarizzazione dell'economia, l'euro, il mercato unico, la liquefazione delle nazioni, la soppressione dei confini. Ecco allora che questa rassegnazione si traduce «nel crollo del tasso di natalità e nell'aumento del populismo». Ossia, nel desiderio di bruciare i propri stock di ricchezza, di consumare le risorse per il godimento presente piuttosto che impiegarle per preservare il «patrimonio», di cui fanno parte le infrastrutture. Per farla breve, ce la siamo cercata. Una specie di suicidio: abbiamo premiato rappresentanti politici che ci promettevano solo benessere immediato. Altro che Benetton. Altro che Iri di Prodi. Gira e rigira, il male è il populismo.Possibile che intellettuali di simile peso ci propinino diagnosi così banali? Attali è un uomo di potere, il padre putativo di Emmanuel Macron, il creatore di un personaggio che è stato impiegato dall'establishment europeo per un'operazione di ripulitura tanto superficiale quanto elettoralmente vincente. Attali è in questo senso l'idealtipo dei «competenti». Ma allora i «competenti» si stanno affidando a quella che il sociologo Robert Merton avrebbe definito una «profezia che si autoavvera». E che per il filosofo Karl Popper era una pura e semplice fallacia logica. L'argomentazione di Attali ruota intorno al tema della fiducia e inverte cause ed effetti del declino italiano, di cui il crollo del viadotto Morandi è l'ultima tragica manifestazione. L'«analfabeta funzionale», ragiona così: il sistema economico e politico è viziato da ingiustizie, queste ingiustizie provocano sciagure, dunque, pur non cessando di nutrire fiducia, la accordo alle forze politiche che ritengo possano cambiare le cose. La tesi del sempliciotto può essere sbagliata: se il governo del cambiamento non cambierà nulla, vorrà dire che la fiducia era immeritata. Ma proprio perché falsificabile, direbbe Popper, la teoria è plausibile. Attali invece ci rimbrotta: voi non avete fiducia nel progresso ed è per questo che il progresso non si realizza. Teoria che sarà vera per forza: se nutriamo fiducia nelle meraviglie del globalismo e le cose iniziano a girare per il verso giusto, allora essa si dimostra valida; ma se il progresso non arriva, si può sempre dire che siamo noi a non averci creduto abbastanza. Un po' come chi difende il comunismo «perché non è mai stato realizzato veramente». Che delusione. I laicissimi «esperti», che si trincerano sempre dietro la loro «competenza», hanno solo questo da offrirci: un atto di fede, e senza neanche Dio.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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