2025-05-18
I sussidi alla cultura non sono libertà. Gli artisti si fanno servi della politica
Per Enrico Ruggeri, il problema dietro alle sovvenzioni statali è «chi controlla chi decide» dove vanno i soldi Il pericolo è che siano dati non ai più meritevoli ma solo agli «amici». Che finiscono per genuflettersi al potere.Fortuna che qualcuno si distingue. A lato del tristo coro di lagne che hanno organizzato i professionisti del cinematografo e i soliti artisti impegnati (impegnati a fare gli artisti impegnati) a difesa delle sovvenzioni pubbliche al cinema - cioè a sé stessi - si ode la voce bella di Enrico Ruggeri, scaldata dal buonsenso. «Come musicista», dice in un video su X, «sono convinto di fare cultura, ma questa è una mia convinzione personale che condivido con i miei fan. Il mercato dà delle risposte diverse: ci sono una serie di artisti, musicisti e cantanti che in questo momento producono e fatturano molto di più dell’azienda Ruggeri. Il tema», prosegue, «è chi decide cos’è cultura, chi decide quali sono le opere che meritano finanziamenti. Se a me dessero 10 milioni di euro per finanziare la musica, io li darei ai miei artisti preferiti che, forse, diventerebbero miei amici. Non sarei, quindi, uno che finanzia la cultura, ma uno che dà dei soldi agli amici. Il punto è solo questo: dare o non dare soldi agli amici, chi controlla i controllori».In poche parole, ecco spiegato il circolino delle sovvenzioni «culturali». Ed è emblematico che sia proprio Ruggeri a prendere la parola sul tema, con una posizione al solito coraggiosa e non ovina (nel senso di estranea al gregge). Ruggeri, a differenza di tantissimi altri, si può permettere di dire quello che vuole e che pensa perché ha saputo guadagnarsi e mantenere l’indipendenza che dovrebbe essere propria di ogni artista e invece, dalle nostre parti, è per lo più un miraggio.Ruggeri vive del suo successo, del sostegno dei suoi fan. Ha pagato, nel corso degli anni, il prezzo delle opinioni che ha espresso. Quando ha criticato la gestione della pandemia, ad esempio, il grande circo dell’intrattenimento lo ha oscurato per quel che poteva anche se, grazie al cielo, non c’è riuscito del tutto. Gli hanno tolto spazi e visibilità, ma lui ha resistito come già aveva fatto in altre occasioni. Ci vuole del coraggio per farlo e all’uomo certo non difetta. Ma ci vuole anche una base solida costruita negli anni: se i tuoi introiti dipendono, in ultima analisi, dalle tue capacità e dalla tua credibilità e non dalle prebende fornite dalla politica, gli spazi di libertà si dilatano, le uscite controcorrente possono danneggiarti ma non distruggerti.Ecco perché la questione dei finanziamenti alle arti e al cinema è, prima di tutto, una questione di libertà. Intendiamoci: anche sostenere autori emergenti e temperare le spietate leggi del mercato significa garantire a tutti maggiore libertà di espressione e di creazione. Ma, a un certo punto, è giusto che un artista cammini il più possibile sulle proprie gambe, soprattutto se il suo campo d’azione non è una nicchia che va protetta per evitarne l’estinzione. Il cinema e la musica sono mainstream, possono alimentarsi grazie all’apprezzamento del grande pubblico, anche quando sono particolarmente raffinati e elitari.In questo quadro, il foraggiamento costante elargito anche a chi potrebbe serenamente farne a meno (magari riequilibrando i compensi fra maestranze e divi) si tramuta in una dipendenza dannosa, intossicante. Gli artisti, pure talvolta senza rendersene conto, si rendono in questo modo vassalli. Rivendicano il diritto a non essere schiavi del mercato e dei volubili gusti del pubblico - cosa buona e santa - ma, per ottenerlo, si rendono servi della politica che ha nell’intrattenimento la più potente arma di propaganda. Non è un caso se tutti i regimi, autoritari e democratici, hanno sempre investito molto sul cinema e sulle arti «di massa». Talvolta lo hanno fatto per celebrare sé stessi ma per lo più il denaro veniva investito proprio per ottenere prodotti che contribuissero a costruire l’immaginario e a imporre l’ideologia dominante.E non è che, negli ultimi tempi, la situazione sia mutata granché. Provate a osservare come si comportano artisti e intellettuali italiani ogni volta che si discute pubblicamente su un tema sensibile o scivoloso. Senza paura di essere smentiti possiamo affermare che ogni volta essi si schierano come un sol uomo dalla parte «giusta», cioè dalla parte del potere, ovvero quella da cui arrivano i soldi. Che si tratti di Covid, cambiamento climatico, immigrazione o temi etici, potete stare certi che i creativi italici si posizioneranno ordinatamente sul confine tracciato dall’autorità che fornisce loro almeno parte dello stipendio. A essere onesti va detto che anche i mecenati e gli impresari e produttori diciamo privati, soprattutto negli ultimi anni di «capitalismo woke», si sono spesso e volentieri allineati, per mancanza di autonomia intellettuale e di fegato, prevalentemente. Ma lo hanno fatto anche perché nel mondo della cultura, almeno in Italia, si affermano tendenze che sono stabilite dalla politica che direttamente o indirettamente dona favori e denari.Come si può pensare di organizzare una mostra o di produrre un film fuori dal coro quando a mettere i soldi sono commissioni territoriali o ministeriali o a concedere gli spazi sono amministrazioni comunali e regionali? Mica si può offendere o turbare il committente e questa verità vale a destra e a sinistra ma, soprattutto, a sinistra per via della annosa e profonda penetrazione nei gangli della burocrazia e della macchina del potere. Chiaro, rinunciare alle mance è difficile e spaventoso, ma farlo significa garantirsi l’affrancamento dal padrone, dal sultano. Condizione necessaria all’artista che voglia esprimere completamente e senza limiti la propria identità. Ciò non significa che il pubblico non debba finanziare eventi, mostre e spettacoli: deve farlo se essi sono di conclamato interesse pubblico, solo se sono al servizio totale della cittadinanza. Ma non è questo il caso del creativo che da un lato rivendica autonomia e pretende di non essere disturbato quando mette all’opera il suo genio. Il pubblico deve intervenire a beneficio di tutti, non dei singoli o dei gruppi che, per diritto divino, devono essere mantenuti. Come l’artista ha diritto a esprimersi in libertà, chi paga ha diritto a ottenere ciò che chiede.In Italia troppo spesso il potere non ha nemmeno bisogno di domandare, perché gli artisti lo anticipano: sono più realisti del re, si collocano da soli nel cono di luce che garantisce loro il plauso del mondo e una adeguata rendita. E si guardano bene dall’indispettire questo o quel politicante, provvedono da soli a collocarsi nel giusto ordine, a intrupparsi nel giusto esercito. Un fulgido esempio è fornito proprio da coloro che, oggi, rivendicano la necessità del sostegno pubblico negli anni del Covid: bussano a soldi per i mancati introiti ma, al tempo, furono compatti nell’approvare le inutili restrizioni che danneggiarono loro e, soprattutto, le maestranze. Obbedirono e sostennero la propaganda per poi correre a battere cassa pretendendo il premio per il servizio offerto (memorabile, sul punto, fu una lamentazione in video di J-Ax, poi rapidamente rimossa dai social). Chi, al contrario, non si adegua e non si piega, viene messo in ombra e sopravvive solo se è stato capace di crearsi una solida base di sostenitori.Poi, per carità, non ci scandalizziamo: gli artisti e i giullari di corte esistono dacché esiste il mondo. In altri tempi, tuttavia, avevano la dignità e il buon gusto di non atteggiarsi a campioni di coraggio e intraprendenza subito dopo aver finito di ballare a comando per compiacere il sovrano.
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)
Nel riquadro: Ferdinando Ametrano, ad di CheckSig (IStock)
Francesca Albanese (Ansa)