Ai domiciliari un imprenditore edile di Messina accusato di concorso esterno. Secondo gli inquirenti, aveva un accordo con la cosca barcellonese per rilevare i crediti 110. In cambio di protezione, avrebbe pure dato dei soldi al clan e affidato subappalti a ditte colluse.
Ai domiciliari un imprenditore edile di Messina accusato di concorso esterno. Secondo gli inquirenti, aveva un accordo con la cosca barcellonese per rilevare i crediti 110. In cambio di protezione, avrebbe pure dato dei soldi al clan e affidato subappalti a ditte colluse.Il colpo era ben congegnato: soldi pubblici, facciate da rifare, palazzi da efficientare e un meccanismo perfetto per monetizzare i crediti fiscali infilando i tentacoli nelle maglie troppo larghe del Superbonus di matrice grillina. Dietro la facciata del rilancio del comparto edilizio, a Barcellona Pozzo di Gotto e in mezza provincia messinese, secondo gli inquirenti si muoveva invece la mala. Una vecchia conoscenza: la famiglia barcellonese. L’inchiesta è dei carabinieri del nucleo investigativo di Messina ed è stata coordinata dal procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia Vito Di Giorgio e dai pm Fabrizio Monaco, Francesco Massara e Antonella Fradà. Dopo i primi arresti del dicembre scorso (Salvatore Foti, figlio del boss Mariano, e l’imprenditore Tindaro Pantè per «associazione di tipo mafioso» e «trasferimento fraudolento dei beni aggravato dalle finalità mafiose»), adesso tocca a Tindaro Ilaqua, 46 anni, costruttore di Santa Lucia del Mela che opera nel settore delle energie rinnovabili. Ieri i carabinieri gli hanno notificato un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. Secondo la Procura antimafia sarebbe un imprenditore pulito solo all’apparenza. Dietro le sue imprese, sostiene l’accusa, si sarebbe mosso un sistema torbido di favori e contanti, sul quale il clan avrebbe messo il marchio. Il Tribunale del riesame prima, e la Cassazione poi, hanno ribaltato la decisione iniziale del gip che non aveva accolto la richiesta di arresto. La nuova ordinanza, invece, accoglie in pieno l’impostazione dell’accusa: concorso esterno in associazione mafiosa. Ilaqua, secondo le indagini, non sarebbe un imprenditore qualsiasi. Ma sarebbe stato il terminale «economico» di un patto siglato con il clan. Un accordo stretto, secondo chi indaga, riconducibile a Mariano Foti, boss storico raffigurato ancora oggi come un elemento carismatico della cosca. L’idea sarebbe stata quella di fornire alla famiglia barcellonese una società capace di incassare crediti fiscali, presentabile agli occhi dello Stato e dei clienti, ma pienamente disponibile a eseguire gli ordini del clan. dice l’accusa. In cambio di protezione e segnalazioni immobiliari, le famose «dritte» sui palazzi sui quali era possibile intervenire con i lavori di efficientamento. Ilaqua avrebbe girato poi al clan tangenti in forma di «provvigioni» e subappalti. I soldi sarebbero partiti dalla sua ditta per arrivare agli uomini del boss, a volte mascherati come «pagamenti per prestazioni d’opera». Le ditte da coinvolgere sarebbero state segnalate da Foti e Pantè.L’inchiesta si innesta nel più ampio filone che due anni fa aveva portato a 86 arresti per la ricostruzione del triumvirato mafioso dopo la scarcerazione di Carmelo Vito Foti, Mariano Foti e Ottavio Imbesi (deceduto nel 2021). I due presunti boss superstiti volevano rilanciare, stando alle accuse, la cupola barcellonese. La cosca, secondo gli inquirenti, negli ultimi tempi sarebbe stata completamente riorganizzata, gli antichi dissapori tra i vertici messi da parte in nome di business comuni come la richiesta di pizzo alle imprese e agli esercizi commerciali da riscuotere, come da tradizione, durante le festività di Pasqua, Natale e Ferragosto. Le vittime del racket, sottoposte a minacce e intimidazioni, vivevano in un clima di terrore. E con il cartello riorganizzato, secondo l’accusa, avrebbero puntato dritti ai finanziamenti pubblici. I bonus edilizi garantivano liquidità veloce, giustificata e, almeno sulla carta, legale. Un meccanismo che avrebbe permesso al clan di non minacciare più con la lupara. Sarebbe bastati il controllo del territorio, la forza del nome e una fitta rete di complicità tra imprenditori, tecnici, intermediari e colletti bianchi. Oltre a Ilaqua sono sei i nomi iscritti nel registro degli indagati. Per l’accusa sarebbero tutti collegati, a vario titolo, al grande affare: quello che faceva confluire nelle casse mafiose i soldi dell’Agenzia delle entrate, senza che nessuno, almeno inizialmente, se ne accorgesse. Una rete di prestanome, intestazioni fittizie, immobili segnalati ad hoc, ditte gradite per gli appalti e movimenti di denaro mascherati da compensi tecnici. Il copione, del resto, è sempre lo stesso. Quello di migliaia di truffe in tutta Italia. A cambiare, questa volta, sarebbe il contenitore: si chiama mafia. L’inchiesta, però, non è ancora chiusa. C’è un filone che lambisce la politica: la cosca avrebbe sostenuto un candidato, non eletto, alle elezioni comunali a Barcellona Pozzo di Gotto. E poi si continua a scavare nei bilanci, nei movimenti bancari, tra le visure camerali. I finanzieri e i carabinieri stanno risalendo la catena dei subappalti, alla ricerca di altri beneficiari. Perché dietro ogni cessione di credito, ogni bonifico mascherato, ogni incarico potrebbe nascondersi una provvigione, un nome, una firma riconducibile al clan. E intanto, nel silenzio ovattato dei cantieri spuntati ovunque, il cemento si impasta con il malaffare.
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