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2019-10-25
Sull'impeachment i repubblicani vanno al contrattacco
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Ansa
Già molti organi di stampa sostengono che questa rivelazione potrebbe trasformarsi in una pietra tombale per Trump: un ostacolo insormontabile, non solo per il sempre più probabile processo di impeachment ma anche in termini squisitamente elettorali. Per il momento, la questione resta sospesa tra accuse e contro accuse. Secondo il deputato repubblicano del Texas, John Ratcliffe, le affermazioni di Taylor non avrebbero fondamento, visto che gli ucraini non sarebbero stati a conoscenza del fatto che Washington stesse trattenendo gli aiuti economici (aiuti che furono poi sbloccati lo scorso settembre). Il New York Times ha invece replicato ieri che gli alti funzionari di Kiev sapessero che la Casa Bianca stesse esercitando delle pressioni per l'indagine su Biden, usando come leva proprio la questione degli aiuti.
Vedremo quello che emergerà nelle prossime settimane. Quel che tuttavia è per ora certo è che l'attuale indagine per impeachment condotta dai democratici stia presentando alti livelli di politicizzazione. Beninteso: l'impeachment in America è per definizione un processo politico, visto che a portarlo avanti è il potere legislativo. Quello a cui si assiste oggi è tuttavia uno scontro partigiano che rischia paradossalmente di rivelarsi un boomerang per i democratici. Complice anche il fatto che, secondo i sondaggi, grandissima parte dell'elettorato repubblicano risulterebbe contrario a un processo di messa in stato d'accusa contro Trump, l'elefantino ha – almeno per il momento – scelto di fare quadrato attorno al presidente. Certo: si registra qualche malumore e qualche aperta critica. Ma, in generale, deputati e senatori repubblicani si stanno al momento compattando contro la Speaker della Camera Nancy Pelosi.
Lunedì scorso, i repubblicani alla Camera hanno votato a favore di una risoluzione di censura contro il presidente della commissione Intelligence, Adam Schiff. Una risoluzione che, pur scontatamente bloccata dalla maggioranza democratica, ha tuttavia mostrato un elevato grado di unità in seno a una compagine storicamente divisa come l'elefantino. Anche al Senato si lavora per approntare delle contromosse. Durante un recente incontro a porte chiuse, il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha intimato ai suoi di serrare i ranghi: anche perché, va ricordato che, se è la Camera a istruire il processo di impeachment, risulta comunque il Senato ad occuparsi poi di emettere un eventuale sentenza di colpevolezza contro il presidente. In un tale contesto, è di pochi giorni fa la notizia, secondo cui il senatore del South Carolina, Lindsey Graham, avrebbe intenzione di introdurre una risoluzione di condanna contro l'indagine per impeachment avviata e condotta dai democratici alla Camera. «Ecco il punto della risoluzione», ha dichiarato Graham martedì scorso, «qualsiasi voto di impeachment basato su questo processo, per me, è illegittimo, è incostituzionale e dovrebbe essere respinto al Senato senza processo».
Secondo i repubblicani, la Pelosi avrebbe commesso una serie di scorrettezze. Prima tra tutte, quella di aver avviato l'indagine per impeachment senza un voto formale da parte della Camera, differentemente da quanto accadde nel 1998 (ai tempi di Bill Clinton) e nel 1974 (ai tempi di Richard Nixon). Un simile voto, ragionano i repubblicani, avrebbe costretto tutti i deputati democratici a dichiarare formalmente da che parte stare, mettendo in imbarazzo quelli maggiormente indecisi e manifestando così le non poche crepe che si celano in seno all'asinello. La Pelosi ha replicato che la votazione non fosse obbligatoria: argomento magari tecnicamente valido ma politicamente pesante come un macigno, visto che rafforza i sospetti di partigianeria che già aleggiano sull'indagine. Inoltre va rilevato come, ai tempi di Clinton e Nixon, fu lasciato ampio margine di manovra al partito di opposizione: margine stavolta assente, visto che è stato negato i repubblicani il diritto di convocare propri testimoni alle audizioni. Audizioni che, tra l'altro, vengono svolte rigorosamente a porte chiuse. Questi elementi sono alla base della linea d'attacco portata avanti dai repubblicani. In questo senso, il senatore della Florida, Marco Rubio, ha per esempio affermato che i democratici farebbero trapelare alla stampa solo dettagli favorevoli alla propria linea, manipolando così mediaticamente la realtà dei fatti.
Trump, dal canto suo, appare particolarmente agguerrito. In primo luogo, il presidente sta accusando l'asinello di politicizzare l'inchiesta. Del resto, il semplice fatto che molti degli attuali candidati alla nomination democratica del 2020 si siano detti favorevoli a un impeachment non fa che polarizzare ancora di più la dialettica politica. Il punto è che questo clima potrebbe alla fine rivelarsi paradossalmente favorevole proprio a Trump che riesce a risultare maggiormente efficace negli scontri diretti. Non bisogna infatti dimenticare che, nel 2016, il magnate newyorchese abbia non poco beneficiato dalla linea del «candidato solo contro tutti». Resta poi a covare sotto la cenere il problema di Joe Biden. Perché anche costui, da vicepresidente, minacciò nel 2016 l'allora presidente ucraino, Petro Poroshenko, di bloccare aiuti economici a Kiev, se non fosse stato prima silurato il procuratore generale ucraino, Viktor Shokin: quello stesso Shokin che – in quel periodo – stava indagando per corruzione la società ucraina di gas naturale Burisma Holdings, ai cui vertici sedeva il figlio di Biden, Hunter. Il fatto che poi Shokin fosse oggettivamente una figura controversa e che molti ne chiedessero la destituzione, non assolve l'allora vicepresidente, visto che suo figlio ottenne quell'alto incarico in Burisma nel maggio del 2014: nelle stesse settimane, cioè, in cui Biden veniva nominato da Barack Obama come punto di raccordo nelle relazioni (politiche ed economiche) tra Kiev e Washington. Se quindi Trump dovesse essere messo in stato d'accusa per abuso di potere in riferimento alla questione Zelensky, Biden non potrebbe dormire sonni esattamente tranquilli, visto che il suo comportamento nel marzo del 2016 fu similare. Non a caso, già qualche candidato alla nomination democratica ha iniziato a prendere le distanze dall'ex vicepresidente (come la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar).
Da chi Trump deve semmai maggiormente guardarsi sono i repubblicani ribelli che, pur non avendo la forza di intraprendere iniziative eclatanti, possono comunque tendergli qualche spiacevole trappola parlamentare. Non sarà del resto un caso che, nelle ultimissime settimane, il presidente sia tornato ai ferri corti con un suo atavico nemico, come il senatore dello Utah, Mitt Romney. È esattamente in questo senso, che mercoledì scorso Trump ha twittato: «I repubblicani Never Trump […] sono in un certo senso peggiori e più pericolosi per il nostro Paese dei democratici fannulloni […] Sono feccia umana!»
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Le dichiarazioni che l'ambasciatore statunitense in Ucraina, William Taylor, ha rilasciato durante una deposizione a porte chiuse alla Camera dei Rappresentanti rischiano di abbattersi come una tempesta su Donald Trump. Il diplomatico ha infatti sostenuto che il presidente avrebbe minacciato il suo omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, di bloccare aiuti economici a Kiev, qualora l'Ucraina non si fosse impegnata ad indagare sull'attuale candidato alla nomination democratica, Joe Biden. Già molti organi di stampa sostengono che questa rivelazione potrebbe trasformarsi in una pietra tombale per Trump: un ostacolo insormontabile, non solo per il sempre più probabile processo di impeachment ma anche in termini squisitamente elettorali. Per il momento, la questione resta sospesa tra accuse e contro accuse. Secondo il deputato repubblicano del Texas, John Ratcliffe, le affermazioni di Taylor non avrebbero fondamento, visto che gli ucraini non sarebbero stati a conoscenza del fatto che Washington stesse trattenendo gli aiuti economici (aiuti che furono poi sbloccati lo scorso settembre). Il New York Times ha invece replicato ieri che gli alti funzionari di Kiev sapessero che la Casa Bianca stesse esercitando delle pressioni per l'indagine su Biden, usando come leva proprio la questione degli aiuti.Vedremo quello che emergerà nelle prossime settimane. Quel che tuttavia è per ora certo è che l'attuale indagine per impeachment condotta dai democratici stia presentando alti livelli di politicizzazione. Beninteso: l'impeachment in America è per definizione un processo politico, visto che a portarlo avanti è il potere legislativo. Quello a cui si assiste oggi è tuttavia uno scontro partigiano che rischia paradossalmente di rivelarsi un boomerang per i democratici. Complice anche il fatto che, secondo i sondaggi, grandissima parte dell'elettorato repubblicano risulterebbe contrario a un processo di messa in stato d'accusa contro Trump, l'elefantino ha – almeno per il momento – scelto di fare quadrato attorno al presidente. Certo: si registra qualche malumore e qualche aperta critica. Ma, in generale, deputati e senatori repubblicani si stanno al momento compattando contro la Speaker della Camera Nancy Pelosi.Lunedì scorso, i repubblicani alla Camera hanno votato a favore di una risoluzione di censura contro il presidente della commissione Intelligence, Adam Schiff. Una risoluzione che, pur scontatamente bloccata dalla maggioranza democratica, ha tuttavia mostrato un elevato grado di unità in seno a una compagine storicamente divisa come l'elefantino. Anche al Senato si lavora per approntare delle contromosse. Durante un recente incontro a porte chiuse, il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha intimato ai suoi di serrare i ranghi: anche perché, va ricordato che, se è la Camera a istruire il processo di impeachment, risulta comunque il Senato ad occuparsi poi di emettere un eventuale sentenza di colpevolezza contro il presidente. In un tale contesto, è di pochi giorni fa la notizia, secondo cui il senatore del South Carolina, Lindsey Graham, avrebbe intenzione di introdurre una risoluzione di condanna contro l'indagine per impeachment avviata e condotta dai democratici alla Camera. «Ecco il punto della risoluzione», ha dichiarato Graham martedì scorso, «qualsiasi voto di impeachment basato su questo processo, per me, è illegittimo, è incostituzionale e dovrebbe essere respinto al Senato senza processo».Secondo i repubblicani, la Pelosi avrebbe commesso una serie di scorrettezze. Prima tra tutte, quella di aver avviato l'indagine per impeachment senza un voto formale da parte della Camera, differentemente da quanto accadde nel 1998 (ai tempi di Bill Clinton) e nel 1974 (ai tempi di Richard Nixon). Un simile voto, ragionano i repubblicani, avrebbe costretto tutti i deputati democratici a dichiarare formalmente da che parte stare, mettendo in imbarazzo quelli maggiormente indecisi e manifestando così le non poche crepe che si celano in seno all'asinello. La Pelosi ha replicato che la votazione non fosse obbligatoria: argomento magari tecnicamente valido ma politicamente pesante come un macigno, visto che rafforza i sospetti di partigianeria che già aleggiano sull'indagine. Inoltre va rilevato come, ai tempi di Clinton e Nixon, fu lasciato ampio margine di manovra al partito di opposizione: margine stavolta assente, visto che è stato negato i repubblicani il diritto di convocare propri testimoni alle audizioni. Audizioni che, tra l'altro, vengono svolte rigorosamente a porte chiuse. Questi elementi sono alla base della linea d'attacco portata avanti dai repubblicani. In questo senso, il senatore della Florida, Marco Rubio, ha per esempio affermato che i democratici farebbero trapelare alla stampa solo dettagli favorevoli alla propria linea, manipolando così mediaticamente la realtà dei fatti.Trump, dal canto suo, appare particolarmente agguerrito. In primo luogo, il presidente sta accusando l'asinello di politicizzare l'inchiesta. Del resto, il semplice fatto che molti degli attuali candidati alla nomination democratica del 2020 si siano detti favorevoli a un impeachment non fa che polarizzare ancora di più la dialettica politica. Il punto è che questo clima potrebbe alla fine rivelarsi paradossalmente favorevole proprio a Trump che riesce a risultare maggiormente efficace negli scontri diretti. Non bisogna infatti dimenticare che, nel 2016, il magnate newyorchese abbia non poco beneficiato dalla linea del «candidato solo contro tutti». Resta poi a covare sotto la cenere il problema di Joe Biden. Perché anche costui, da vicepresidente, minacciò nel 2016 l'allora presidente ucraino, Petro Poroshenko, di bloccare aiuti economici a Kiev, se non fosse stato prima silurato il procuratore generale ucraino, Viktor Shokin: quello stesso Shokin che – in quel periodo – stava indagando per corruzione la società ucraina di gas naturale Burisma Holdings, ai cui vertici sedeva il figlio di Biden, Hunter. Il fatto che poi Shokin fosse oggettivamente una figura controversa e che molti ne chiedessero la destituzione, non assolve l'allora vicepresidente, visto che suo figlio ottenne quell'alto incarico in Burisma nel maggio del 2014: nelle stesse settimane, cioè, in cui Biden veniva nominato da Barack Obama come punto di raccordo nelle relazioni (politiche ed economiche) tra Kiev e Washington. Se quindi Trump dovesse essere messo in stato d'accusa per abuso di potere in riferimento alla questione Zelensky, Biden non potrebbe dormire sonni esattamente tranquilli, visto che il suo comportamento nel marzo del 2016 fu similare. Non a caso, già qualche candidato alla nomination democratica ha iniziato a prendere le distanze dall'ex vicepresidente (come la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar).Da chi Trump deve semmai maggiormente guardarsi sono i repubblicani ribelli che, pur non avendo la forza di intraprendere iniziative eclatanti, possono comunque tendergli qualche spiacevole trappola parlamentare. Non sarà del resto un caso che, nelle ultimissime settimane, il presidente sia tornato ai ferri corti con un suo atavico nemico, come il senatore dello Utah, Mitt Romney. È esattamente in questo senso, che mercoledì scorso Trump ha twittato: «I repubblicani Never Trump […] sono in un certo senso peggiori e più pericolosi per il nostro Paese dei democratici fannulloni […] Sono feccia umana!»
Beppe Sala (Ansa)
«Il Comune di Milano ha premiato la Cgil con l’Ambrogino, la più importante benemerenza civica. Quello che vorremmo capire è perché lo stesso riconoscimento non sia stato assegnato anche alla Cisl. O alla Uil. Insomma, a tutto il movimento sindacale confederale», afferma Abimelech. Il segretario della Cisl richiama il peso organizzativo del sindacato sul territorio e il ruolo svolto nei luoghi di lavoro e nei servizi ai cittadini: «È una risposta che dobbiamo ai nostri 185.000 iscritti, ai delegati e alle delegate che si impegnano quotidianamente nelle aziende e negli uffici pubblici, alle tantissime persone che si rivolgono ai nostri sportelli diffusi in tutta l’area metropolitana per chiedere di essere tutelate e assistite».
Nel merito delle motivazioni che hanno accompagnato il riconoscimento alla Cgil, Abimelech solleva una serie di interrogativi sul mancato coinvolgimento delle altre sigle confederali. «Abbiamo letto le motivazioni del premio alla Cgil e allora ci chiediamo: la Cisl non è un presidio democratico e di sostegno a lavoratori e lavoratrici? Non è interlocutrice cruciale per istituzioni e imprese, impegnata nel tutelare qualità del lavoro, salute pubblica e futuro del territorio?», dichiara.
Il segretario generale elenca le attività svolte dal sindacato sul piano dei servizi e della rappresentanza: «Non offre servizi essenziali, dai Caf al Patronato, agli sportelli legali? Non promuove modelli di sviluppo equi, sostenibili e inclusivi? Non è vitale il suo ruolo nel dibattito sulle dinamiche della politica economica e industriale?».
Nella dichiarazione trova spazio anche il recente trasferimento della sede della sigla milanese. «In queste settimane la Cisl ha lasciato la sua “casa” storica di via Tadino 23, inaugurata nel 1961 dall’arcivescovo Giovanni Battisti Montini, il futuro Papa Paolo VI, per trasferirsi in una più grande e funzionale in via Valassina 22», ricorda Abimelech, sottolineando le ragioni dell’operazione: «Lo ha fatto proprio per migliorare il suo ruolo di servizio e tutela per i cittadini e gli iscritti».
La presa di posizione si chiude con un interrogativo rivolto direttamente all’amministrazione comunale: «Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati di serie A e di serie B? Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati amici e nemici?». Al sindaco Sala non resta che conferire con Abimelech e metterlo a parte delle risposte ai suoi interrogativi.
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