2023-10-25
Sul fronte ormai dimenticato con i pacchi per i civili. «I russi? Noi aiutiamo tutti»
Ad Avdiivka, in Donbass, c’è una battaglia cruciale: Mosca attacca approfittando dell’Occidente distratto da Israele. I volontari attraversano una città spettrale.da Avdiivka (Donetsk)Avdiivka è la città sotto assedio a cui, oggi, nessuno pensa. Per peso e strategicità qualche mese fa sarebbe stata raccontata come un’epopea tragica, esattamente come accadde per Bachkmut, ma oggi è l’emblema della perdita di centralità di Kiev nel racconto mediatico. È in corso un combattimento epocale in questa parte dimenticata di Ucraina, una battaglia che si protrae da 9 anni ma che da alcuni giorni si è alzata di intensità nei combattimenti, con un attacco furioso da parte dei russi e perdite enormi da un lato e dall’altro. Il conflitto israelo-palestinese ha conquistato il gradino più alto sul podio delle news, i russi intelligentemente attaccano al riparo dall’attenzione mediatica e dai giudizi occidentali. Siamo riusciti a entrare con un gruppo di volontari che portano aiuti umanitari ai civili che ancora vivono dentro la città e questo è il nostro racconto.Con un anonimo furgoncino bianco ci dirigiamo verso una zona industriale di una cittadina distante una cinquantina di chilometri da Avdiivka, siamo a bordo del mezzo di Vlad e Lona (nomi di fantasia) e ci chiedono di non fotografare e riprendere niente che possa rendere questo luogo individuabile. Dopo poco arriviamo dentro a un capannone, una struttura immensa e segreta, dove al suo interno sono stipati migliaia di scatole del World Food Program e di altri enti benefici con confezioni di pasta, scatolette, latte, zucchero, sale, tè e altri generi alimentari, ma anche pellet per le stufe, acqua... Riempito il furgoncino e prima di riprendere la strada verso Avdiivka facciamo tappa alla casa dell’organizzazione per prendere scatole e scatole di medicinali, ci eravamo stati già il giorno prima per pianificare la missione e durante la cena, parlando del loro lavoro sul campo, gli avevamo chiesto se fossero al corrente che molte di queste persone che sono all’interno delle città assediate potessero essere filorusse e aspettare gli invasori. La risposta ci ha lasciato a bocca aperta per quanta umanità racchiude: «Possono essere anche russi, noi aiutiamo le persone, tutte, se sono disagiate e hanno bisogno». Infatti delle 900 persone che sono rimaste ad Avdiivka la maggior parte sono persone con disabilità mentale o fisica, poveri e vecchi. Persone come Vald e Lona non si incontrano tutti i giorni, sono tra i volontari più coraggiosi e spesso vanno in posti cosi pericolosi da essere conosciuti all’interno della comunità dei vari gruppi di volontari che operano su tutti i fronti, lui è stato ferito da un colpo di mortaio pochi mesi fa, mentre facevano una consegna. Una scheggia alla schiena, in un punto dove non poteva arrivare a medicarsi da solo, cosi Lona gli ha salvato la vita fermando l’emorragia e guidando fino al punto medico più vicino. Ora sono migliori amici, se vogliamo entrate ad Avdiivka dobbiamo farlo con loro e una volta caricate le medicine si parte. Alcune parti della strada sono sterrate, l’ultimo posto di blocco è molto fortificato, si vede dalle facce tese dei soldati che il fronte si avvicina. A destra c’è la strada principale quella che prima in poco tempo arrivava in città, passando dal lato Nord, ma ora tra questa grande arteria e la città ci sono i russi, dunque si deve andare dritto allungando di molto il tragitto per entrare dal lato Ovest più coperto. Dopo poco si intravede il fumo dei bombardamenti, avvicinandoci a una delle zone industriali ci sembra quasi incredibile come le ciminiere siano ancora in piedi perché i palazzi intorno sono tutti distrutti. Più ci si avvicina all’ingresso della città, più si vede la differenza con l’ultima volta che siamo stati in questo posto maledetto, circa 6 mesi fa, infatti riuscimmo a entrare e ci trovammo davanti una situazione difficilissima ma niente in confronto a ora: quasi ogni palazzo è stato colpito, il terreno della città è cosparso dei vetri delle finestre rotte, qua e là nei cortili e nei giardini ci sono enormi crateri delle bombe cadute negli ultimi giorni e nelle ultime ore. Entriamo facendo lo slalom nelle strade invase dai detriti, si inizia a sentire il suono delle esplosioni tutto intorno, tra un bombardamento e l’altro si sentono i corvi che volano intorno ai cumuli di spazzatura, decine di cani randagi vagano tra le macerie. Arriviamo davanti ad un condominio e Vlad suona il clacson per avvertire la popolazione, davanti a noi c’è un parco con i giochi per bambini, le altalene e le macchine per fare gli esercizi come in palestra, sono ormai invase dalla vegetazione che in questi anni di assedio si sta riprendendo il suo spazio tra i palazzi, nelle strade, dentro le case abbandonate. Nel giro di pochi minuti da tutti i palazzi e dalle strade intorno le persone arrivano come formiche, a volte urlando verso le finestre per avvertire anche gli altri che è arrivato il cibo. Intorno al furgone aspettano il proprio sacchetto che Vlad distribuisce elargendo grandi sorrisi, chi ha bisogno di medicine aspetta di parlare con Lona che distribuisce i farmaci. Appena ricevuti i sacchetti si dileguano scomparendo dalla nostra vista ma camminando in questo quartiere fatto di palazzoni di epoca sovietica. Si vede chiaramente dove queste persone abitano grazie alle tracce lasciate dal calpestio costante che crea dei sentieri nella vegetazione. Questa era una città di 35.000 abitanti, molti erano lavoratori nel grande complesso industriale dove oggi ci sono feroci combattimenti, dai primi mesi del 2014 è sotto assedio, prima dai separatisti russi e poi dall’esercito russo, e la situazione è estremamente pesante, come ci racconta un soldato di cui non sveleremo l’identità: «Dopo che è iniziato il conflitto in Israele i russi hanno sferrato un attacco massiccio usando centinaia di mezzi e migliaia di uomini, da giorni stiamo difendendo la città strenuamente e non ho mai visto una quantità tale di perdite russe perché eravamo pronti ad un attacco e preparati alla riposta. Il primo giorno sul lato Nord verso le miniere un convoglio di tank ha provato a sfondare la nostra linea ma non ci è riuscito, hanno perso tantissimi carri armati e uomini. Dopo una disfatta così pensavano che non avrebbero mai più riprovato ma sono tornati con un’altra colonna il giorno dopo e non è andata diversamente dal primo, non sappiamo come riescano a mandare cosi tanti uomini e carri anche dopo tali perdite ma è certo così non potremmo difenderci a lungo». Ci dicono che la situazione in generale è così su tutto il fronte intorno alla città, mentre Putin parla di «difesa attiva dei territori russi» qui a Avdiivka si testimonia tutt’altro, una offensiva in piena regola che se avrà successo potrebbe cambiare le sorti di tutto questa parte di fronte in Donbass. Così continuiamo a perlustrare la zona con le esplosioni che per direzione e quantità non capiamo più se siano in entrata o in uscita. Svoltiamo un angolo ed un signore attira la nostra attenzione, ci fa vedere il proiettile di un carro armato ucraino lasciato lì vicino a un palazzo accanto ai contenitori vuoti degli altri ordigni sparati, ci rendiamo conto che la battaglia è attiva anche in città e che quel colpo è stato dimenticato nella fretta di andar via. Non ce ne rendiamo conto subito e non li vediamo ma i soldati sono in tutta la città, nei sotterranei, nei punti di avvistamento, ne intravediamo qualcuno che guarda da una finestra al nostro passaggio, uno da lontano che ci guarda coperto sotto un albero, ma non hanno voglia di parlare, sono stremati e passano il tempo qui per riposare tra i turni sul fronte pochi palazzi più in là. Si sta facendo tardi, intorno al furgone ci sono ormai solo un paio di persone. Vlad inizia a innervosirsi, troppe esplosioni, il sole che cala, lui è uno di quelli che va ascoltato quando il suo istinto dice di andare, vuol dire che bisogna muoverci, la situazione sta cambiando. Così ci mettono nel retro del furgone e partono all’imbrunire dalla città. Fari spenti fino a dove si vede con la poca luce del tramonto, perché altrimenti si diventa calamite per i droni.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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