2021-04-04
Sul bimbo adottato da una coppia gay la Cassazione ha scavalcato la legge
I giudici avrebbero dovuto negare il riconoscimento poiché non risultano dimostrati né lo stato di abbandono del minore né il suo «miglior interesse». Ma con la sentenza gli ermellini hanno forzato la mano alla politica.C'è un particolare che, pur essendo di non poco rilievo, è rimasto pressoché totalmente in ombra nei commenti relativi alla recentissima, nota sentenza della Cassazione con la quale è stata ammessa la trascrivibilità negli atti dello stato civile italiano del provvedimento di un'autorità giudiziaria americana che attribuiva lo «status» di genitori adottivi a due soggetti legati tra loro da vincolo omoerotico. Il particolare è costituito dal fatto che il bambino aveva dei genitori naturali i quali avevano prestato il loro consenso all'adozione da parte della coppia gay e che, all'esito di un'indagine effettuata dai locali servizi sociali, l'adozione era stata ritenuta rispondente al «miglior interesse» del minore. In sostanza, quindi, i genitori naturali avevano «ceduto» il figlio alla coppia gay; cessione le cui ragioni sono rimaste del tutto ignote, al pari di quelle per le quali, secondo i servizi sociali, essa sarebbe stata, come si è appena detto, nel «miglior interesse» del minore. Ora, non c'è dubbio che, secondo l'ordinamento italiano, l'adozione di un minore non può mai essere disposta sulla base di una volontaria cessione del minore stesso, da parte dei genitori naturali, a quelli adottivi. Stabilisce infatti l'art. 1, comma 1, della legge n. 183/1983 che «il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia», dalla quale può essere sottratto, secondo il comma 4 dello stesso articolo, solo «quando la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all'educazione» del minore stesso, per cui egli venga a trovarsi in quella che l'art. 8 della stessa legge definisce come «situazione di abbandono». La Cassazione ha tuttavia ritenuto che tale principio non fosse di ostacolo alla trascrivibilità del provvedimento dell'autorità giudiziaria americana considerando che lo stesso risultava basato, come si è visto, anche sull'esito delle indagini effettuate dai servizi sociali circa l'interesse che il minore avrebbe avuto a essere adottato. Ciò sarebbe in linea - si sostiene - con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 536 del 1989, secondo cui, nel caso di provvedimenti di adozione di minori pronunciati da giudici stranieri sulla base del consenso prestato dai genitori naturali, quando a esso si accompagni un «controllo giurisdizionale successivo», non sarebbe ravvisabile una «aprioristica contrarietà» di tali provvedimenti ai principi fondamentali del nostro ordinamento. In altri termini, e più semplicemente, la citata sentenza della Corte costituzionale, secondo la Cassazione, consentirebbe il riconoscimento di adozioni estere alla sola condizione che il consenso a esse prestato dai genitori naturali dell'adottato risultasse sottoposto a un non meglio precisato «controllo giurisdizionale» da parte dell'autorità giudiziaria estera davanti alla quale il procedimento si è svolto. Se però ci si prende la briga di leggere con attenzione la sentenza in questione ci si rende conto facilmente che le cose non stanno esattamente in questi termini. La Corte costituzionale, infatti, non ha per nulla attribuito decisiva rilevanza al solo consenso all'adozione da parte dei genitori naturali del minore, pur avallato poi dal successivo «controllo giurisdizionale» dell'autorità giudiziaria estera. Al contrario, essa ha messo chiaramente in luce che «pure l'adozione di minori stranieri, per essere efficace nel nostro ordinamento, non può fondarsi sulla mera prospettiva di miglioramenti materiali ed economici per il bambino» (in vista della quale i genitori naturali potrebbe essere appunto indotti a prestare il consenso), «ma presuppone quelle mancanze di cura e custodia, di essenziale sostegno materiale e di affetto che sole possono giustificare il ricorso alla famiglia sostitutiva». Occorre, in altri termini, che, anche in presenza del consenso dei genitori naturali e della successiva verifica giudiziale da parte del giudice estero, risulti comunque accertata la obiettiva sussistenza di quella che, secondo l'ordinamento italiano, è la condizione imprescindibile per potersi dar luogo all'adozione, e cioè, come si è già detto, la «situazione di abbandono» del minore derivante dalla riscontrata incapacità della famiglia di origine a provvedere alla sua assistenza morale e materiale. E di tale accertamento, quando non risulti che a esso abbia provveduto l'autorità giudiziaria estera, deve farsi carico - sempre secondo la Corte costituzionale che richiama, in proposito, anche precedenti sentenze della Cassazione - il giudice italiano chiamato a decidere sul riconoscimento o meno del provvedimento del giudice estero. Si legge, infatti, ancora, nella sentenza della Corte costituzionale, che il giudice italiano «dovrà al riguardo compiere un'opera di interpretazione del provvedimento straniero e della situazione quale appare dal provvedimento stesso nonché dalla documentazione che sta a base di esso». E qualora ciò non basti a dimostrare la effettiva sussistenza dello stato di abbandono, lo stesso giudice dovrà «svolgere ulteriori indagini avvalendosi o dell'autorità consolare (cfr. art. 33, secondo comma, dpr 5 gennaio 1967, n. 200) ovvero degli enti autorizzati di cui all'art. 38 legge n. 184 del 1983 (cfr. art. 13 Dm 28 giugno 1985, in Gm n. 229 del 1985)». Grava, inoltre, ancora, sul giudice italiano, sempre secondo la stessa sentenza, il compito di verificare che sussista anche «l'interesse del minore in stato di effettivo abbandono ad acquisire una famiglia idonea, sotto il controllo dell'autorità competente ad assistere l'infanzia abbandonata». Nulla di tutto ciò risulta avvenuto nel caso ultimamente deciso dalla Cassazione. Questa, infatti, come si è visto, si è invece accontentata della pura e semplice attestazione, nel provvedimento dell'autorità giudiziaria americana (per come riportato nella sua stessa sentenza) dell'avvenuto consenso dei genitori naturali e del successivo recepimento, da parte della stessa autorità giudiziaria, per ragioni rimaste del tutto sconosciute, delle conclusioni cui erano giunti i servizi sociali circa la pretesa rispondenza dell'adozione al «miglior interesse» del minore; condizione, quest'ultima, a proposito della quale la Corte si è limitata a una generico richiamo all'asserita «mancanza di riscontri scientifici sulla inidoneità genitoriale di una coppia formata da genitori dello stesso sesso». Al che andrebbe, in verità, obiettato che, a fronte della legittima presunzione, fondata sulla legge di natura, che l'idoneità genitoriale sia normalmente propria delle coppie eterosessuali, dovrebbero essere invece i fautori della pretesa riconoscibilità di detta idoneità anche alle coppie omosessuali a offrire la dimostrazione scientifica, in positivo, della fondatezza di un tale assunto. Ciò alla luce della regola, già affermata nel diritto romano e tuttora vigente, secondo cui grava su chi sostiene una determinata tesi l'onere di dare la prova della sua validità. Indipendentemente, peraltro, da quest'ultima, marginale osservazione, sembra doversi necessariamente concludere che, proprio sulla base della richiamata sentenza della Corte costituzionale, il riconoscimento dell'adozione, nel caso in questione, avrebbe dovuto essere negato anche se quella adottante fosse stata una normale coppia eterosessuale, non risultando dimostrati (come sarebbe stato invece necessario, pur in presenza del consenso prestato dai genitori naturali), né lo stato di abbandono del minore né lo specifico interesse del medesimo all'adozione. Il fatto che, ciononostante, il riconoscimento abbia avuto luogo lascia quindi adito, purtroppo, a un cattivo pensiero: quello, cioè, che la Cassazione, nel decidere come ha deciso, abbia ceduto alla tentazione di non lasciarsi in alcun modo sfuggire la ghiotta occasione che le si offriva di compiere un altro passo sulla via che dovrebbe portare, pur in assenza di un intervento del legislatore, all'ammissione del pieno ed incondizionato diritto delle coppie omosessuali all'adozione di minori. Ed è, al riguardo, appena il caso di ricordare il fin troppo noto aforisma comunemente attribuito a Giulio Andreotti secondo cui «a pensar male si fa peccato, ma il più delle volte si indovina».
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