
Il conflitto yemenita, la telefonata «alla pari» con Xi e la mancanza di segnali forti all’Ue. Le prime uscite diplomatiche del dem sono da bocciare. E non aiutano un’America indebolita a farsi aiutare dagli alleatiLe prime mosse di Joe Biden in politica estera ne mostrano la difficoltà a calibrare sia bastone e carota sia soft e hard power nell’esecuzione della dottrina del re-ingaggio globale. Esempi. Primo, questione yemenita. Washington ha vietato la vendita di armi all’Arabia saudita per impieghi contro i ribelli sciiti Houti, sostenuti dall’Iran, in Yemen. Poi ha eliminato la classificazione degli Houti come gruppo terrorista, voluta da Donald Trump, con la motivazione che tale etichetta impedirebbe interventi umanitari nello Yemen in crisi totale. Allo stesso tempo ha fatto intendere all’Iran che questa non era un ammorbidimento nei suoi confronti. Ma l’Arabia, già sospettando che i consiglieri di Biden siano inclini ad interlocuzioni con l’Iran e che preferiscano relazioni con la corrente della «fratellanza musulmana» che è l’arcinemico dei sauditi-wahabiti entro l’area sunnita, come successo ai tempi della prima Amministrazione Obama (2008-12), ha colto un segnale di possibile fine dell’alleanza privilegiata che era stata rinforzata dall’amministrazione Trump. Ed ha aperto alla Cina un’ipotesi di relazioni portuali per mostrare all’America quale prezzo potrebbe pagare con una tale linea. La Turchia ha colto che la partita nello Yemen è centrale e, con la scusa di un gruppo di sunniti locali affiliati alla Fratellanza musulmana (che è sostenuto da Ankara e dal Qatar) ha preso posizione nel luogo creando un potenziale conflitto via proxy a tre (Arabia, Iran e Turchia) da cui trarre vantaggi. Anzi, a quattro: l’Egitto, che combatte la Fratellanza musulmana in casa e in Libia, ha subito reagito mandando navi da guerra al largo dello Yemen e della Somalia per difendere le rotte verso Suez. In realtà questa estensione di presidio è anche utile come deterrenza nei confronti dell’Etiopia in relazione alla guerra dell’acqua (diga alle fonti del Nilo). E per mostrare utilità come proxy contro la Turchia all’Arabia per ricevere in cambio soldi. In sintesi, la priorità di «de-trumpizzare» la politica estera americana rischia di aprire un vaso di Pandora. Dove il punto più delicato sono gli Emirati che hanno siglato un accordo di pace e di cooperazione con Israele con il sostegno statunitense e saudita, pur questo silenzioso per lo schiaffo ai palestinesi. Ma sostanzioso e stabilizzante. In sintesi, prima di cambiare politica nei confronti dell’Arabia, Biden doveva pensarci più a fondo, concordando le mosse con Arabia, Emirati e Israele e non cercando di mescolare caoticamente bastoni e carote. Secondo esempio. Ottima la scelta di creare un task force dedicata alla Cina, inserendo la tutela del criterio democratico. Ma poi Biden ha voluto parlare (o accettato di) con Xi Jinping. Il punto: se si decide di montare una struttura militare-politica-culturale finalizzata al contenimento e condizionamento della Cina autoritaria (su cui c’è un consenso bipartisan) e ispirata al criterio democratico (leggasi Hong Kong e Taiwan) poi non si parla direttamente con il bersaglio perché ciò riduce la dissuasione. Ovviamente si parla per mantenimento dei rapporti diplomatici, ma a un livello inferiore, tenendo quello superiore silente. Nella chat con Biden, infatti, Xi lo ha trattato come un dilettante: dobbiamo risolvere alcune questioni, istruirò i miei a farne lista e ad aprire un tavolo negoziale, dimostrando superiorità.Ma è non solo questo il punto. Lo è di più il fatto che la rappresentanza del criterio democratico non va fatta a livello bilaterale, ma prima chiedendo la delega alle democrazie alleate. Se avesse fatto così sarebbe stato Xi ad entrare in ansia e a chiedere un incontro con Biden da una posizione di inferiorità. Ciò è correlato al terzo esempio. Biden ha mostrato l’intenzione di stringere meglio i rapporti con gli alleati per dare più forza all’azione americana e riparare le fratture avvenute nel periodo Trump. In realtà Trump, ben guidato dall’abile Mike Pompeo, aveva già iniziato a farlo. In questi casi bisogna subito far seguire alle parole i fatti (e non basta il ritorno nel trattato di Parigi sul clima) ma l’Ue non li ha ancora visti, dando motivo alla Francia di insistere sullo scenario francocentrico post Nato e alla Germania di tenere i piedi in due scarpe, cioè America e Cina, «ambiguando» tutta la postura Ue e indebolendola. Senza un chiaro segnale di convergenza euroamericana, infatti, Mosca sta prendendo a sberle l’Ue stessa. L’effetto di una percepita indecisione statunitense indebolisce il mondo delle democrazie. Ma è solo indecisione? No, c’è anche il fatto che l’America non è forte come nel passato: un bastone più corto fa perdere potenza alla carota e al soft power - che è la dottrina preferita dai democratici - per difetto di potere dissuasivo. Per tale motivo gli alleati non possono più aspettarsi che l’America risolva tutti i problemi e l’America stessa pensare ad un re-ingaggio globale senza la convinta convergenza degli alleati. Mi chiedo se la postura nettamente euroamericana del Quirinale e di Mario Draghi possa portare l’Italia a spingere l’Ue verso questa direzione di nuova alleanza tra democrazie, iniziando da un chiarimento in sede di G7. www.carlopelanda.com
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».
(Guardia di Finanza)
I finanzieri del Comando Provinciale di Palermo, grazie a una capillare attività investigativa nel settore della lotta alla contraffazione hanno sequestrato oltre 10.000 peluches (di cui 3.000 presso un negozio di giocattoli all’interno di un noto centro commerciale palermitano).
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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Stefano Arcifa
Parla il neopresidente dell’Aero Club d’Italia: «Il nostro Paese primeggia in deltaplano, aeromodellismo, paracadutismo e parapendio. Rivorrei i Giochi della gioventù dell’aria».
Per intervistare Stefano Arcifa, il nuovo presidente dell’Aero Club d’Italia (Aeci), bisogna «intercettarlo» come si fa con un velivolo che passa alto e veloce. Dalla sua ratifica da parte del governo, avvenuta alla fine dell’estate, è sempre in trasferta per restare vicino ai club, enti federati e aggregati, che riuniscono gli italiani che volano per passione.
Arcifa, che cos’è l’Aero Club d’Italia?
«È il più antico ente aeronautico italiano, il riferimento per l’aviazione sportiva e turistica italiana, al nostro interno abbracciamo tutte le anime di chi ha passione per ciò che vola, dall’aeromodellismo al paracadutismo, dagli ultraleggeri al parapendio e al deltaplano. Da noi si insegna l’arte del volo con un’attenzione particolare alla sicurezza e al rispetto delle regole».
Riccardo Molinari (Ansa)
Il capogruppo leghista alla Camera: «Stiamo preparando un pacchetto sicurezza bis: rafforzeremo la legittima difesa ed estenderemo la legge anti sgomberi anche alla seconda casa. I militari nelle strade vanno aumentati».
«Vi racconto le norme in arrivo sul comparto sicurezza, vogliamo la legittima difesa “rinforzata” e nuove regole contro le baby gang. L’esercito nelle strade? I soldati di presidio vanno aumentati, non ridotti. Landini? Non ha più argomenti: ridicolo scioperare sulla manovra».
Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, la Cgil proclama l’ennesimo sciopero generale per il 12 dicembre.
«Non sanno più di cosa parlare. Esaurito il filone di Gaza dopo la firma della tregua, si sono gettati sulla manovra. Ma non ha senso».






