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2024-03-27
È il solito metodo usato col Covid che trasforma lo Stato in terapeuta
Le bevande analcoliche, oggetto della sugar tax (IStock)
La sugar tax non è incostituzionale. L’ha sentenziato ieri la Consulta, interpellata dal Tar del Lazio, dove erano stati depositati due ricorsi contro il balzello varato dal Conte bis, la cui entrata in vigore è stata poi posticipata fino a luglio di quest’anno.
È un verdetto infelice. Non tanto per i 10 euro a ettolitro di Fanta, né per i 25 centesimi ogni chilo di dolcificante. È per il principio che la Corte ha definitivamente consacrato: quel «lo dice la scienza» in virtù del quale, sulla scia delle logiche adottate durante la pandemia, ci si è industriati per coprire decisioni molto politiche col velo dell’autorevolezza e della neutralità sapienziale.
Già i giudici amministrativi avevano blindato un paio di capisaldi dello Stato etico. In primo luogo - si legge nel «Ritenuto in fatto» della Consulta - la liceità di varare «una misura idonea allo scopo di ridurre il consumo delle bevande» edulcorate, «per preservare al meglio la salute pubblica, in un’ottica precauzionale». Un obiettivo che avrebbe reso la norma, a parere delle toghe, proporzionata. Poi, la possibilità - caratteristica, secondo i magistrati, di una legge ragionevole - di conferire al tributo una «prevalente finalità extrafiscale»: il «contrasto di specifiche patologie».
Al solito, il difetto dell’interventismo pubblico è che si sa dove inizia, ma non si capisce dove dovrebbe finire. Se l’idea è che, per «precauzione», vadano scoraggiate le abitudini insalubri, la lista delle gabelle rischia di essere interminabile: perché non mettere una bella tassa sulle fritture? E una sulle pastarelle? E una sul gelato? Nella vita, tutto ciò che è buono fa male.
Il criterio regolativo lo ha individuato la Consulta, ricordando che la legge di bilancio 2020 fece «esplicito riferimento» a un «invito dell’Oms […] a introdurre una specifica tassazione delle bevande analcoliche prodotte con l’aggiunta di sostanze dolcificanti […], con l’obiettivo di limitarne il consumo e, conseguentemente, di contribuire alla riduzione dei tassi di sovrappeso e obesità, oltre che di carie e diabete, anche in virtù dei risultati, attestati dalla medesima organizzazione e da studi scientifici […]». Basterebbe allora «la medesima giustificazione scientifica» a escludere l’unico profilo di potenziale incostituzionalità del tributo, che avevano ravvisato i magistrati del Tar: il fatto, cioè, che esso colpisse le bibite ma non «altri prodotti alimentari contenenti le medesime sostanze» edulcoranti. Nessuna discriminazione irragionevole, ha argomentato invece la Corte: la fondatezza dell’imposta è «puntualmente attestata da studi scientifici riversati in raccomandazioni di organismi internazionali». Lo dice la scienza, lo dice l’Oms. Che avete da protestare?
Sono le naturali conseguenze della filosofia sposata durante il Covid. Allora, il collegio aveva avallato i decreti di Mario Draghi sull’obbligo vaccinale, appoggiandosi a pareri istituzionali alquanto fragili sulla capacità dei farmaci disponibili di bloccare i contagi. In più, la Consulta aveva stabilito la conformità di quel provvedimento a due scopi: evitare il congestionamento degli ospedali, poiché gli inoculati avevano meno probabilità di essere ricoverati a causa del virus; e preservare il Servizio sanitario, confidando che il personale vaccinato, protetto dall’infezione, non si sarebbe assentato dal lavoro. È la ratio, tutta economica, della diminuzione delle «esternalità negative»: bevi la Sprite, ti viene il diabete, diventi un costo per l’erario; non ti vaccini, ti becchi il Covid, lasci sguarnito il reparto oppure «rubi» un posto letto, prezioso in quanto centellinato. Rimane il leggero sospetto che garantire copertura costituzionale alla colpevolizzazione del malato, sfruttando da paravento le valutazioni dei tecnici, serva a normalizzare la sistematica spoliazione dei sistemi sanitari pubblici.
Il guaio, appunto, è che la trasformazione dello Stato in terapeuta e quella del cittadino in paziente sono processi difficili da arrestare. Sapete quante ne dice l’Oms? Se dovessimo dar retta al Global report on the use of alcohol taxes 2023, pubblicato lo scorso dicembre, non dovremmo forse introdurre un’accisa pure su birra e vino?
Chi si era opposto alla sugar tax aveva toccato un punto dolente: se non va bene la Fanta, come mai vanno bene le merendine? La Consulta ha risposto che il «tertium comparationis» del ricorso, cioè l’allusione ad «altri prodotti alimentari», era troppo generico. D’accordo. Resta il fatto che, se al governo arrivasse la coalizione dei salutisti, in effetti nulla potrebbe impedirle di stangare le caciotte che aumentano il colesterolo, il Montepulciano che affatica il fegato, la carne rossa che dicono sia cancerogena e con gli allevamenti in cui le vacche scoreggiano inquina pure il pianeta.
L’inghippo sta nell’ormai noto vezzo della Corte: aggrapparsi agli efori in camice bianco, ai funzionari di un’agenzia globale, oppure al diritto Ue, per convalidare scelte essenzialmente arbitrarie. Attenzione: arbitrario non significa illegittimo. Significa soltanto che, dove si vuol vedere il referto di una casta di esperti, in realtà c’è una volontà politica. L’errore è cercare nel posto sbagliato il fondamento extragiuridico delle decisioni. Questo maquillage sta cambiando i connotati alle nostre democrazie. Che valgono più dei tre centesimi di tassa sulla bottiglietta di Coca Cola.
A rischio 5.000 impieghi. E l’erario ci perde
La sugar tax tassa lo zucchero anche quando non c’è. Questa è la frase che racchiude il pensiero di Assobibe, l’associazione di Confindustria che rappresenta i produttori di bevande analcoliche, dopo che la sugar tax è stata dichiarata costituzionalmente legittima dalla Consulta. Secondo i magistrati della Corte costituzionale, infatti, la norma compenserebbe le spese che dovrebbe affrontare lo Stato per i possibili danni alla salute dei cittadini.
Il problema è che, secondo Assobibe, questa norma rischia solo di tassare maggiormente bevande il cui apporto di zucchero è già limitato e non nuoce alla salute, con l’unico effetto di affossarne il mercato e di ridurne il gettito fiscale tanto utile alla salute pubblica.
In particolare, secondo uno studio di Nomisma, visto che la sugar tax colpisce anche le bevande senza zucchero (come quelle spesso definite light o zero), si stima che il mercato, con l’entrata in vigore della norma, subirà una contrazione delle vendite del 16% con un mancato gettito Iva per 275 milioni di euro. Inoltre, tutto questo potrebbe mettere a rischio anche i 5.050 posti di lavoro del settore, poiché si prevede un aumento medio del 28% della pressione fiscale per singolo litro di soft drink. Non solo, secondo lo studio, la sugar tax potrebbe portare a una riduzione di 46 milioni di euro di investimenti da parte delle imprese produttrici del settore per il biennio 2024-2025, senza considerare la riduzione da 400 milioni di euro degli acquisti di materie prime sempre dalle compagnie del comparto.
Secondo le stime dell’associazione, questa norma porterà un gettito di poco superiore ai 100 milioni di euro, una cifra piuttosto bassa se si considerano le perdite che la sugar tax comporterà in termini di gettito, vendite e potenziale impatto sui posti di lavoro.
Come fa sapere Assobibe, «siamo davvero stupiti dalla pronuncia della Consulta, ma ancora di più dalle motivazioni che si basano su un razionale scientifico contestabile e, soprattutto, slegato dai consumi reali in Italia», spiega il presidente dell’associazione Giangiacomo Pierini. «I Paesi agiscono con approcci diversi e in molti casi la sugar tax è stata introdotta per incentivare la riformulazione: noi l’abbiamo fatto senza bisogno di tasse arrivando a tagliare del 41% lo zucchero immesso a scaffale, anche attraverso azioni volontarie e protocolli siglati con il ministero della Salute, e applicando rigide autolimitazioni nella vendita verso i consumatori più fragili come i bambini. Lasciamo da parte cavilli giuridici in cui giudici affermano che lo zucchero sia da contrastare solo se presente nelle bibite», fa sapere Pierini.
Fatto sta che la sentenza numero 49 della Consulta ha dichiarato legittima la sugar tax, questione sollevata dalla seconda sezione del Tar del Lazio che l’aveva censurata per violazione del principio di eguaglianza tributaria, visto che si trattava di una tassa destinata a colpire solo alcune bevande analcoliche.
La norma era stata voluta inizialmente dal governo Conte 2 a fine del 2019. Poi innumerevoli proroghe ne hanno ritardato l’applicazione fino al primo luglio di quest’anno, quando quindi dovrebbe entrare in vigore con un importo di 10 euro per ettolitro nel caso di prodotti finiti e di 0,25 euro per chilogrammo nel caso di prodotti predisposti ad essere utilizzati previa diluizione.
Il punto, spiega Assobibe, è che l’Italia è all’ultimo posto nell’Unione europea per consumi pro capite di bevande analcoliche (54 litri annui) e che l’impatto dei soft drink sulla dieta degli italiani è infinitesimale: 1% per gli adulti, 0,6% per i bambini. Inoltre, l’efficacia della tassa sulla riduzione dell’incidenza di sovrappeso, obesità e diabete non è dimostrata: nell’area definita come Zona Europa, che comprende oltre 53 paesi, l’Oms ha registrato che, al 2020, la sugar tax era stata inserita in 10 dei 53 Stati, il 19% del totale, producendo una contrazione dei consumi solo nel breve periodo per poi tornare ai livelli pre tassa. In mercati con tasse sulle bevande analcoliche come Messico, Finlandia, Cile, Regno Unito, Francia e Irlanda i tassi di obesità sono risultati persino in crescita, a dimostrazione che la tassa non si traduce in un miglioramento della dieta, tanto che alcuni Paesi hanno iniziato a eliminare la tassa sui soft drink. È stato così in Danimarca nel 2016, in Norvegia nel 2000, in Islanda nel 2000, in Israele nel 2022 e in Australia nel 2018.
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La filosofia della sugar tax è la stessa del siero obbligatorio: ai cittadini, ancora una volta colpevolizzati, va tolta la gazzosa altrimenti sviluppano il diabete e diventano un costo per la salute. Che intanto si può continuare a tagliare. A fronte dei 100 milioni di entrate generati dalla tassa, il gettito Iva calerà di 275 milioni. Assobibe: «Stupiti». Lo speciale contiene due articoli. La sugar tax non è incostituzionale. L’ha sentenziato ieri la Consulta, interpellata dal Tar del Lazio, dove erano stati depositati due ricorsi contro il balzello varato dal Conte bis, la cui entrata in vigore è stata poi posticipata fino a luglio di quest’anno. È un verdetto infelice. Non tanto per i 10 euro a ettolitro di Fanta, né per i 25 centesimi ogni chilo di dolcificante. È per il principio che la Corte ha definitivamente consacrato: quel «lo dice la scienza» in virtù del quale, sulla scia delle logiche adottate durante la pandemia, ci si è industriati per coprire decisioni molto politiche col velo dell’autorevolezza e della neutralità sapienziale. Già i giudici amministrativi avevano blindato un paio di capisaldi dello Stato etico. In primo luogo - si legge nel «Ritenuto in fatto» della Consulta - la liceità di varare «una misura idonea allo scopo di ridurre il consumo delle bevande» edulcorate, «per preservare al meglio la salute pubblica, in un’ottica precauzionale». Un obiettivo che avrebbe reso la norma, a parere delle toghe, proporzionata. Poi, la possibilità - caratteristica, secondo i magistrati, di una legge ragionevole - di conferire al tributo una «prevalente finalità extrafiscale»: il «contrasto di specifiche patologie». Al solito, il difetto dell’interventismo pubblico è che si sa dove inizia, ma non si capisce dove dovrebbe finire. Se l’idea è che, per «precauzione», vadano scoraggiate le abitudini insalubri, la lista delle gabelle rischia di essere interminabile: perché non mettere una bella tassa sulle fritture? E una sulle pastarelle? E una sul gelato? Nella vita, tutto ciò che è buono fa male. Il criterio regolativo lo ha individuato la Consulta, ricordando che la legge di bilancio 2020 fece «esplicito riferimento» a un «invito dell’Oms […] a introdurre una specifica tassazione delle bevande analcoliche prodotte con l’aggiunta di sostanze dolcificanti […], con l’obiettivo di limitarne il consumo e, conseguentemente, di contribuire alla riduzione dei tassi di sovrappeso e obesità, oltre che di carie e diabete, anche in virtù dei risultati, attestati dalla medesima organizzazione e da studi scientifici […]». Basterebbe allora «la medesima giustificazione scientifica» a escludere l’unico profilo di potenziale incostituzionalità del tributo, che avevano ravvisato i magistrati del Tar: il fatto, cioè, che esso colpisse le bibite ma non «altri prodotti alimentari contenenti le medesime sostanze» edulcoranti. Nessuna discriminazione irragionevole, ha argomentato invece la Corte: la fondatezza dell’imposta è «puntualmente attestata da studi scientifici riversati in raccomandazioni di organismi internazionali». Lo dice la scienza, lo dice l’Oms. Che avete da protestare? Sono le naturali conseguenze della filosofia sposata durante il Covid. Allora, il collegio aveva avallato i decreti di Mario Draghi sull’obbligo vaccinale, appoggiandosi a pareri istituzionali alquanto fragili sulla capacità dei farmaci disponibili di bloccare i contagi. In più, la Consulta aveva stabilito la conformità di quel provvedimento a due scopi: evitare il congestionamento degli ospedali, poiché gli inoculati avevano meno probabilità di essere ricoverati a causa del virus; e preservare il Servizio sanitario, confidando che il personale vaccinato, protetto dall’infezione, non si sarebbe assentato dal lavoro. È la ratio, tutta economica, della diminuzione delle «esternalità negative»: bevi la Sprite, ti viene il diabete, diventi un costo per l’erario; non ti vaccini, ti becchi il Covid, lasci sguarnito il reparto oppure «rubi» un posto letto, prezioso in quanto centellinato. Rimane il leggero sospetto che garantire copertura costituzionale alla colpevolizzazione del malato, sfruttando da paravento le valutazioni dei tecnici, serva a normalizzare la sistematica spoliazione dei sistemi sanitari pubblici. Il guaio, appunto, è che la trasformazione dello Stato in terapeuta e quella del cittadino in paziente sono processi difficili da arrestare. Sapete quante ne dice l’Oms? Se dovessimo dar retta al Global report on the use of alcohol taxes 2023, pubblicato lo scorso dicembre, non dovremmo forse introdurre un’accisa pure su birra e vino? Chi si era opposto alla sugar tax aveva toccato un punto dolente: se non va bene la Fanta, come mai vanno bene le merendine? La Consulta ha risposto che il «tertium comparationis» del ricorso, cioè l’allusione ad «altri prodotti alimentari», era troppo generico. D’accordo. Resta il fatto che, se al governo arrivasse la coalizione dei salutisti, in effetti nulla potrebbe impedirle di stangare le caciotte che aumentano il colesterolo, il Montepulciano che affatica il fegato, la carne rossa che dicono sia cancerogena e con gli allevamenti in cui le vacche scoreggiano inquina pure il pianeta. L’inghippo sta nell’ormai noto vezzo della Corte: aggrapparsi agli efori in camice bianco, ai funzionari di un’agenzia globale, oppure al diritto Ue, per convalidare scelte essenzialmente arbitrarie. Attenzione: arbitrario non significa illegittimo. Significa soltanto che, dove si vuol vedere il referto di una casta di esperti, in realtà c’è una volontà politica. L’errore è cercare nel posto sbagliato il fondamento extragiuridico delle decisioni. Questo maquillage sta cambiando i connotati alle nostre democrazie. Che valgono più dei tre centesimi di tassa sulla bottiglietta di Coca Cola. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sugar-tax-italia-2667609991.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="a-rischio-5-000-impieghi-e-lerario-ci-perde" data-post-id="2667609991" data-published-at="1711528340" data-use-pagination="False"> A rischio 5.000 impieghi. E l’erario ci perde La sugar tax tassa lo zucchero anche quando non c’è. Questa è la frase che racchiude il pensiero di Assobibe, l’associazione di Confindustria che rappresenta i produttori di bevande analcoliche, dopo che la sugar tax è stata dichiarata costituzionalmente legittima dalla Consulta. Secondo i magistrati della Corte costituzionale, infatti, la norma compenserebbe le spese che dovrebbe affrontare lo Stato per i possibili danni alla salute dei cittadini. Il problema è che, secondo Assobibe, questa norma rischia solo di tassare maggiormente bevande il cui apporto di zucchero è già limitato e non nuoce alla salute, con l’unico effetto di affossarne il mercato e di ridurne il gettito fiscale tanto utile alla salute pubblica. In particolare, secondo uno studio di Nomisma, visto che la sugar tax colpisce anche le bevande senza zucchero (come quelle spesso definite light o zero), si stima che il mercato, con l’entrata in vigore della norma, subirà una contrazione delle vendite del 16% con un mancato gettito Iva per 275 milioni di euro. Inoltre, tutto questo potrebbe mettere a rischio anche i 5.050 posti di lavoro del settore, poiché si prevede un aumento medio del 28% della pressione fiscale per singolo litro di soft drink. Non solo, secondo lo studio, la sugar tax potrebbe portare a una riduzione di 46 milioni di euro di investimenti da parte delle imprese produttrici del settore per il biennio 2024-2025, senza considerare la riduzione da 400 milioni di euro degli acquisti di materie prime sempre dalle compagnie del comparto. Secondo le stime dell’associazione, questa norma porterà un gettito di poco superiore ai 100 milioni di euro, una cifra piuttosto bassa se si considerano le perdite che la sugar tax comporterà in termini di gettito, vendite e potenziale impatto sui posti di lavoro. Come fa sapere Assobibe, «siamo davvero stupiti dalla pronuncia della Consulta, ma ancora di più dalle motivazioni che si basano su un razionale scientifico contestabile e, soprattutto, slegato dai consumi reali in Italia», spiega il presidente dell’associazione Giangiacomo Pierini. «I Paesi agiscono con approcci diversi e in molti casi la sugar tax è stata introdotta per incentivare la riformulazione: noi l’abbiamo fatto senza bisogno di tasse arrivando a tagliare del 41% lo zucchero immesso a scaffale, anche attraverso azioni volontarie e protocolli siglati con il ministero della Salute, e applicando rigide autolimitazioni nella vendita verso i consumatori più fragili come i bambini. Lasciamo da parte cavilli giuridici in cui giudici affermano che lo zucchero sia da contrastare solo se presente nelle bibite», fa sapere Pierini. Fatto sta che la sentenza numero 49 della Consulta ha dichiarato legittima la sugar tax, questione sollevata dalla seconda sezione del Tar del Lazio che l’aveva censurata per violazione del principio di eguaglianza tributaria, visto che si trattava di una tassa destinata a colpire solo alcune bevande analcoliche. La norma era stata voluta inizialmente dal governo Conte 2 a fine del 2019. Poi innumerevoli proroghe ne hanno ritardato l’applicazione fino al primo luglio di quest’anno, quando quindi dovrebbe entrare in vigore con un importo di 10 euro per ettolitro nel caso di prodotti finiti e di 0,25 euro per chilogrammo nel caso di prodotti predisposti ad essere utilizzati previa diluizione. Il punto, spiega Assobibe, è che l’Italia è all’ultimo posto nell’Unione europea per consumi pro capite di bevande analcoliche (54 litri annui) e che l’impatto dei soft drink sulla dieta degli italiani è infinitesimale: 1% per gli adulti, 0,6% per i bambini. Inoltre, l’efficacia della tassa sulla riduzione dell’incidenza di sovrappeso, obesità e diabete non è dimostrata: nell’area definita come Zona Europa, che comprende oltre 53 paesi, l’Oms ha registrato che, al 2020, la sugar tax era stata inserita in 10 dei 53 Stati, il 19% del totale, producendo una contrazione dei consumi solo nel breve periodo per poi tornare ai livelli pre tassa. In mercati con tasse sulle bevande analcoliche come Messico, Finlandia, Cile, Regno Unito, Francia e Irlanda i tassi di obesità sono risultati persino in crescita, a dimostrazione che la tassa non si traduce in un miglioramento della dieta, tanto che alcuni Paesi hanno iniziato a eliminare la tassa sui soft drink. È stato così in Danimarca nel 2016, in Norvegia nel 2000, in Islanda nel 2000, in Israele nel 2022 e in Australia nel 2018.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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