2020-12-20
Su donne e famiglia la Costituzione assomiglia al programma di Orbán
La sinistra insorge per le norme ungheresi su unioni legali e adozioni. Eppure la legge fondamentale italiana ritiene che il matrimonio fondi una «società naturale» e parla di «essenziale funzione familiare» della madrePresidente di sezione a riposo della Corte di cassazione Le donne pensino meno ad affermarsi nel mondo del lavoro e si dedichino di più al loro compito essenziale, che è quello di mettere al mondo dei figli e di essere centro e motore della famiglia. Questo è l’incredibile messaggio che, secondo quanto riportato da tutti i mezzi d’informazione, è stato lanciato da una donna, Kataline Novak, nella sua veste di titolare del ministero per la Famiglia, in concomitanza con l’approvazione, da parte del Parlamento ungherese, nei giorni scorsi, della riforma costituzionale voluta dal primo ministro Viktor Orbán e dal suo partito; riforma con la quale è stata, in particolare, esclusa la possibilità del riconoscimento, in Ungheria, di un modello di famiglia diverso da quello tradizionale ed è stata conseguentemente esclusa anche la possibilità di adozione di minori da parte di coppie omosessuali. Inutile dire quale sia stata la scandalizzata e furibonda reazione espressa da tutto il vasto mondo del «politicamente corretto» a fronte di una tale affermazione, nel quadro di una più generalizzata, radicale demonizzazione dell’intero contenuto della suddetta riforma costituzionale, visto come incompatibile con quelli che vengono ormai dai più ritenuti come principi irrinunciabili del cosiddetto «stato di diritto» nell’ambito dell’Unione europea, di cui la stessa Ungheria fa parte. Può essere invece di una qualche utilità osservare che se qualcuno, a sostegno di tale reazione, volesse cercare appiglio anche nella Costituzione italiana, rischierebbe di trovarsi di fronte a delle brutte sorprese. Scoprirebbe, infatti, tanto per cominciare, che la Costituzione, all’articolo 29, oltre a riconoscere «i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» (e per «matrimonio», all’epoca in cui la Carta fu redatta, si intendeva solo ed esclusivamente quello che univa un uomo e una donna), afferma poi che il matrimonio è sì «ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», ma con la salvaguardia dei «limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». Il che altro non significa se non che quella eguaglianza non è, per la Costituzione, un principio assoluto ma ammette la possibilità di deroga quando ciò appaia ragionevolmente necessario a tutela di un bene ritenuto superiore, quale è appunto l’«unità familiare». Ciò equivaleva, nel contesto dell’epoca, a fornire copertura costituzionale a quella che era allora la normativa in materia di diritto di famiglia, a cominciare dal fondamentale articolo 144 del codice civile, nel quale si affermava che: «Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza». Come è noto, lo stesso articolo, insieme a tutti gli altri che riguardavano il matrimonio, fu poi riformulato con la legge di riforma del diritto di famiglia, nel 1975, e stabilisce ora che spetti non più al marito ma ad entrambi i coniugi, in posizione di assoluta parità, concordare ed attuare l’indirizzo della vita familiare. Tale riforma ha avuto, tuttavia, la sua ragion d’essere nell’avvertita necessità di un adeguamento della normativa riguardante la famiglia soltanto all’intervenuta evoluzione del costume sociale e non certo al testuale tenore del precetto costituzionale. Rispetto a quest’ultimo, infatti, essa si presenta, semmai, con caratteri di dissonanza, dal momento che il bene costituito dalla «unità familiare», che i Padri costituenti avevano inteso salvaguardare, risulta ormai del tutto soccombente a fronte di quello costituito dalla parità dei coniugi. Il fatto, però, che il precetto costituzionale non sia per nulla cambiato lascia teoricamente aperta la possibilità, sia pure remota, di una qualche forma di ritorno al passato, qualora giungesse al potere un Orbán in versione italiana. Ma, con più specifico riferimento alle dichiarazioni della Novak, altre e peggiori sorprese potrebbero derivare dalla lettura degli articoli 36 e 37 della Costituzione. Il primo di essi, infatti, si riferisce solo al «lavoratore» e non anche alla «lavoratrice» per stabilire che egli «ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera a dignitosa». Ciò nell’evidente presupposto che la «famiglia» sia appunto quella di cui lo stesso lavoratore, come marito, secondo la legislazione dell’epoca, era posto «a capo». E, d’altra parte, che l’articolo 36 sia stato concepito come riferibile al solo «lavoratore» maschio trova conferma nel fatto che si parla invece espressamente di «donna lavoratrice» nel successivo art. 37, per dire che essa ha sì «gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», aggiungendo però che «le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata protezione». È la stessa Costituzione, dunque, ad affermare esplicitamente che, per la donna, la funzione familiare è quella che riveste carattere di essenzialità. Il che comporta che essa deve avere la prevalenza su tutte le altre, a cominciare da quelle lavorative, tanto che si grava il legislatore ordinario dell’obbligo di far sì che al suo adempimento non possa mai risultare di ostacolo alcuno l’esercizio di un’attività lavorativa; e ciò indipendentemente dalla natura di tale attività come pure dalla circostanza che essa sia frutto di necessità o di libera scelta. Di qui la conseguenza che, a termini di Costituzione, la legge potrebbe addirittura vietare alle donne (come avvenuto, del resto, fino ad un non lontanissimo passato) l’esercizio di determinate attività lavorative ove queste, per la loro intrinseca natura, quali che siano le condizioni nelle quali possano essere svolte, appaiano ragionevolmente tali da risultare in assoluto come inconciliabili con l’adempimento della funzione familiare. Stando così le cose, coloro che, da sinistra, sostengono le posizioni del più radicale ed intransigente femminismo possono anche continuare a ripetere, all’unisono con Roberto Benigni, che quella italiana è la Costituzione «più bella del mondo». Contenti loro...
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)