
La votazione del Sinodo, che sdogana i movimenti gay, non agita solo l’ala conservatrice della Chiesa, ma anche i moderati. Monsignor Paccosi: «Forzature e proposte tendenziose». Zuppi conferma di essere orfano di Bergoglio e di ignorare Leone.Sarà una lievitazione lunga e accidentata. Dopo la votazione del Sinodo dei vescovi, che sdogana i movimenti gay e transgender nel segno del «riconoscimento e dell’accompagnamento», si nota una corsa sotterranea a frenare-interpretare-distinguere in modo meravigliosamente curiale i contenuti e il loro impatto. Il documento «Lievito di pace e di speranza» ha fatto parecchio rumore. E dopo essere passato nell’assemblea dell’Ergife a larga maggioranza, tenendo fede allo spirito del Conclave che ha eletto Leone XIV, ora è al centro delle critiche dentro le Mura Leonine e sul territorio.In Vaticano non è sfuggita la forzatura metodologica dei vertici della Cei, guidata dal cardinal Matteo Zuppi come se il Papa fosse ancora Francesco. Utilizzare la carità verso «la persona che soffre sotto la croce» per riconoscere la cultura Lgbtq+, il suo linguaggio e implicitamente i suoi eccessi viene considerato un escamotage di dubbio gusto. Il blitz degli ultraprogressisti non è piaciuto ai conservatori ma neppure ai moderati, convinti che il patto di concordia dovesse durare almeno fino alle prime nomine strategiche. Due le frasi più ricorrenti nei sacri corridoi: «Non c’era bisogno di quattro anni di lavoro per mettere nero su bianco che la Chiesa è contro l’omofobia» e «Purtroppo qualche prete che prenderà spunto per salire su un carro del pride lo si trova». Individuare chi conferma in chiaro il malessere è difficile ma non impossibile. Le parole di monsignor Giovanni Paccosi, vescovo di San Miniato, in uno scritto per il sito In Terris, aiutano a intuire gli animi in tumulto. «Il documento che abbiamo votato è un frutto del cammino sinodale, ma un frutto ancora embrionale. Ho sentito in più punti la forzatura di far diventare richiesta di tutti ciò che era solo di pochi e la difficoltà di chi doveva votare, senza ormai poter più far distinzioni, articoli in cui c’erano proposte non omogenee e - è una mia valutazione - tendenziose». Monsignor Paccosi è molto vicino a papa Leone, lo ha conosciuto e frequentato nel suo periodo alla diocesi di Lima in Perù. E i suoi distinguo rappresentano il pensiero dei moderati all’indomani del terremoto sinodale. «Il Cammino ci ha rilanciato nella missione e nella vicinanza a “tutti, tutti, tutti”, come ci diceva papa Francesco», sottolinea il vescovo di San Miniato. «Ma l’apertura senza limiti (cattolici) non era, per papa Francesco, senza criteri chiari. Invece nel nostro documento sinodale ci sono alcune espressioni ambigue: proprio quelle che adesso sono sulla bocca di tutti. Sul punto controverso dell’accoglienza delle persone omosessuali, per esempio, si aggiunge all’accoglienza auspicata il “riconoscimento”. Ma “riconoscere” non è sinonimo di “accogliere”. Ho ascoltato papa Francesco affermare che la Chiesa accoglie tutti ma non accetta che si portino bandiere, altrimenti si scade in una rivendicazione ideologica».Il distinguo è decisivo, la forzatura è palese e l’ideologia è parecchio radicata nella Conferenza episcopale zuppiana. Assorbire il linguaggio di una cultura dalla quale la dottrina prende le distanze da 2000 anni è una significativa fuga in avanti, per di più senza l’imprimatur del Papa. E se alcuni media campioni di anticlericalismo continuano a ripetere in modo infantile che «non significa partecipare al gay pride», quei pochi che hanno stilato e presentato il documento conoscono perfettamente la portata del voto. Lo stesso monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, conferma che lo sdoganamento transgender è un punto chiave. «Quello del riconoscimento e accompagnamento è un tema presente sin dalle prime fasi, per la sua attualità e per il significato simbolico che oggi riveste. Specialmente i giovani guardano all’atteggiamento della Chiesa verso le persone omoaffettive come a un segnale decisivo di apertura o chiusura. Riconoscere vuol dire partire dalla realtà della persona ma non vuol dire approvare moralmente. Accompagnare significa camminare insieme. L’intento non è aderire a logiche ideologiche, ma testimoniare rispetto e custodia della dignità umana». Poi monsignor Castellucci sembra tirare il freno a mano, affidandosi a procedure complesse. «L’Assemblea Cei di novembre dovrà dare una prima forma definitiva agli orientamenti, in quella di maggio sarà approvato un testo guida. Ci sono più di cento punti e vanno messi in fila». Ora sarà importante cogliere i segnali papali sull’argomento. Finora Leone XIV ha adottato il metodo della condivisione diplomatica, ma davanti ai blitz dell’ancien régime potrebbe anche cambiare marcia. Perché, come ha ricordato nel giorno uno del pontificato, «la Chiesa non è una democrazia».Il «Lievito» ha ribadito una realtà: gli orfani di Bergoglio hanno potere e tirano dritto. Ieri a Roma, all’auditorium Parco della Musica, la comunità di Sant’Egidio ha organizzato un convegno dal titolo «Ricordando papa Francesco», con in prima linea il teologo gesuita Antonio Spadaro. Una celebrazione legittima, doverosa. Ma anche la foto di gruppo di chi è entrato nel nuovo papato rimpiangendo il vecchio, con lo sguardo rivolto al retrovisore.
Sebastien Lai, figlio di Jimmy Lai, incarcerato a Hong Kong nel 2020 (Getty Images)
Sebastien Lai, figlio del giornalista in carcere dal 2020 a Hong Kong: «Per aver difeso la democrazia, rischia l’ergastolo. Ringrazio Trump per il sostegno e l’impegno per il suo rilascio. Spero che anche il Vaticano si faccia sentire».
Donald Trump (Getty Images)
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