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2023-02-10
I «rinnegati» italiani. Da prigionieri a corsari dell'Islam
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(Getty Images)
Che il fenomeno della pirateria nel Mediterraneo si perdesse nella notte dei tempi è cosa nota. Il bacino del mare nostrum, per la conformazione geografica e per la storia delle popolazioni che lo abitarono è sempre stato un terreno estremamente fertile per lo sviluppo delle incursioni piratesche. I grandi classici hanno lasciato diverse testimonianze del fenomeno in scritti o poemi epici. Sopra tutti Omero, che nel libro Quattordicesimo dell’Odissea (versi da 245 in avanti) canta le gesta corsare dei suoi stessi Achei che giunti in Egitto si lasciarono andare a saccheggi, rapimenti di donne e omicidi, di prigionieri fatti schiavi. E così Tucidide che racconta della prima forma di contrasto al fenomeno da parte della potenza marittima di Minosse che da Creta organizzò la difesa ed ebbe ragione per un periodo dei pirati che infestavano le isole dell’Egeo. L’azione dei corsari, dalla Dalmazia fino alla Turchia passando per Egitto, Libia e Tunisia fu un fenomeno ciclico in quanto seguiva le sorti geopolitiche del territorio, a seconda del dominio o della decadenza di una popolazione mediterranea. Anche Roma fu un esempio di reazione alle scorribande corsare, e da Aquileia riuscì a controllare l’Adriatico minacciato dai pirati della costa dalmata e albanese. Al declino dell’Impero seguì una nuova ripresa dei saccheggi per mare, la cui potenza è ancora testimoniata oggi dalle caratteristica geografica di molte città italiane, sviluppatesi nell’entroterra per difendersi dagli assalti dei pirati. Basti pensare alle tante «marine» nei comuni costieri italiani, toponomastica derivata dalla necessità di mantenere il centro abitato nell’entroterra a difesa dagli assalti dal mare. La storia della pirateria o della guerra di corsa (nel caso le autorità avessero rilasciato la relativa patente affinché i pirati assalissero naviglio o territorio di un Paese ostile) come già accennato, fu un fenomeno endemico e ciclico, che ebbe i picchi più alti quando le condizioni geopolitiche erano segnate dal declino delle potenze dominanti (come ad esempio l’Impero romano). Grandi ondate di corsari si ebbero infatti durante le invasioni barbariche e nel medioevo. Dopo le Crociate il fenomeno assunse anche un importante risvolto religioso che risultò in quella che oggi verrebbe definita come una guerra a bassa intensità tra mondo cristiano e Islam. Questo aspetto dominò gli attacchi dei pirati barbareschi contro la Penisola italiana tra il Cinquecento e il Seicento. Fenomeno che colpì in particolare il regno di Napoli sotto il dominio spagnolo, interessò in diverse occasioni la costa della Liguria e, ad Est, quella adriatica fino a Venezia e fu alimentato dalla crescente influenza ottomana sul Mediterraneo. La Puglia fu una delle regioni più martoriate nella prima metà del secolo XVI, vittima di continui attacchi in cui spiccò la figura di uno dei pirati turchi più famosi, Dragut. Dopo aver assalito più volte le coste della Liguria difese dalla flotta di Andrea Doria, il «capitano del mare» si ripeté in incursioni sulla costa campana e contro l’isola d’Elba, che non riuscì tuttavia ad espugnare grazie alla fortificata Portoferraio. Tuttavia la ferocia di Dragut pascià si risolse in una delle più efferate stragi che la storia ricordi. Nel luglio 1554 la flotta corsara dei turchi assalì Vieste e il Gargano dove saccheggiò l’abitato, fece innumerevoli prigionieri e assassinò circa 5.000 persone. Alla ferocia dei pirati musulmani (che avevano una grande sede operativa ad Algeri) non risposero le autorità spagnole del Regno di Napoli, le quali avevano esautorato la nobiltà napoletana dal comando (l’unica che avesse un vero interesse nella difesa costiera) in quanto consideravano il Mezzogiorno poco più che un serbatoio di tributi per Madrid. Fu anche per motivi politici che il Sud continuò a subire saccheggi, omicidi e deportazioni almeno fino al secolo successivo quando il mutamento delle condizioni politiche degli Stati pre-unitari permise la formazione dei primi nuclei di marina in grado di contrastare l’azione dei pirati barbareschi, il cui declino avverrà soltanto nei primi decenni del secolo XIX. Durante i due secoli di scorrerie sulle coste italiane furono migliaia i prigionieri che, fatti schiavi, venivano impiegati come forza lavoro o merce di scambio. Tra i tanti deportati nei domini del sultano, vi erano numerosi italiani. Tra questi ultimi spiccano tre «rinnegati» (costretti cioè ad abiurare il Cristianesimo per l’Islam) che si distinsero per la grande carriera che li portò a diventare «Kapudàn pascià», (in italiano Capitano del Mare) ossia grandi ammiragli comandanti della flotta ottomana, una carica appena sotto a quella del Sultano. Le loro storie, che in un caso si intrecciano, riguardano tre uomini di mare provenienti da punti diversi della Penisola: Calabria, Venezia e Genova.
Luca Galeni noto come Uluç Alì detto anche «Occhialì». (Le Castella, Crotone 1519 - Costantinopoli 1587)
Figlio di pescatori e avviato in seminario, Luca Galeni fu rapito durante un incursione di pirati nel 1536 nel golfo di Squillace e ridotto in schiavitù al remo di una galera dopo essere stato acquistato da un Raìs anch’esso di origini calabresi. Dopo una violenta lite con un «rinnegato» napoletano decide di vendicarsi uccidendolo e abbracciando l’Islam per essere affrancato. Stimato dal padrone, ne sposa più tardi la figlia lanciandosi nella carriera di corsaro con l’acquisto di una nave e diventando a sua volta Raìs. La sua attività piratesca si concentrerà in particolare contro la costa Ligure dopo aver partecipato nei ranghi di Dragut a ripetuti attacchi contro Puglia e Calabria, che gli varranno la presentazione ufficiale al Sultano. Nemico giurato di Andrea Doria, che gli diede la caccia fino al covo di Djerba. Per vendicarsi dell’affondamento di due navi, Occhialì attaccò Oneglia, possedimento dei Doria. Durante un raid nel mar Egeo Uluç Alì rapiva il visconte Vincenzo Cicala, Genovese e padre di Scipione Cicala, futuro «rinnegato» d’eccellenza. Negli anni Sessanta del secolo XVI Occhialì fu il terrore del Mediterraneo dal 1561 attaccò Taggia e Villefranche in Costa Azzurra, dove catturò 300 prigionieri chiedendo riscatto a Emanuele Filiberto di Savoia. Nel 1565 subentra a Dragut come governatore di Tripoli, mentre l’anno successivo mette a ferro e fuoco il Tirreno scontrandosi con i Cavalieri di Santo Stefano del principe Appiani. Nel decennio successivo Occhialì strappò Tunisi agli Spagnoli mettendo a comando della nuova base corsara un rinnegato sardo, Cayto Ramadan, quindi rivolse le armi all’Adriatico controllato dalla Serenissima impedendo al doge Sebastiano Venier di unire le forze a quelle degli Spagnoli. Partecipò alla battaglia di Lepanto con la flotta ottomana, riuscendo ad affondare 12 galee prima di fuggire dopo la sconfitta turca. Per le sue azioni Solimano III lo nominò Kapudan pascià, donandogli il nome di Kilige Alì, vale a dire «Alì la spada». Insieme a Scipione Cicala (di cui si parlerà più avanti) il kapudàn pascià calabrese occupava nel 1574 la roccaforte spagnola de La Goletta uccidendo tutti i difensore tranne i comandanti per il riscatto. Dopo aver rinnovato la flotta ottomana con armamenti simili a quelli delle navi occidentali, nel 1582 si ritirava presso il colle Tophane di Costantinopoli, da lui ribattezzato Nuova Calabria dove terminò la sua esistenza cinque anni più tardi, probabilmente per un ictus fulminante come documentato dalla missiva per la Serenissima inviata dal bailo (ambasciatore) di Venezia di stanza a Istanbul.
Andrea Celeste noto come Hasan Venedikli. (Venezia 1544 - Costantinopoli 1591)
Poco si conosce della gioventù di Andreéta (come veniva chiamato a Venezia) se non che fosse imbarcato come scrivano e che fu rapito da Dragut, il dominatore del Mediterraneo e che fu venduto a Tripoli e costretto ad abbracciare la religione islamica. Ereditato prima da Dragut stesso e quindi dal calabrese Uluç Alì, divenne il suo prediletto e fu da lui nominato pascià di Algeri e quindi di Tripoli. La carriera di Hasan procedette spedita a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento quando fu nominato Berlybey di Algeri, corrispondente alla carica di governatore. Durante la sua reggenza ad Algeri giunse uno schiavo illustre, Cervantes, verso cui Hasan fu sempre clemente nonostante i numerosi tentativi di fuga del letterato spagnolo. Alla morte di Uluç fu momentaneamente sorpassato nella corsa alla carica di kapudan pascià da Ibrahim il Serbo. Hasan il Veneziano, scaltro e ambizioso, intrecciò trame una volta giunto a Costantinopoli, erodendo il potere di Ibrahim a suon di soldi guadagnati nelle imprese di pirateria contro Venezia stessa e sottolineando presso il Sultano la scarsa conoscenza del mestiere del mare da parte del Serbo. Per dimostrare le proprie capacità riprese il mare e catturò un galeone maltese facendo bottino e attendendo che l’opera di corruzione dell’harem di Costantinopoli cambiasse il vento a suo favore complice anche l’appoggio del nuovo ambasciatore veneziano. L’impresa riuscì nel 1588 quando Andreéta fu nominato nuovo Kapudan pascià. Durante la carica Hasan agì come un pirata-commerciante, soprattutto con la nativa Venezia che a differenza dei regni europei non disdegnava di fare affari con il mondo islamico dei Barbareschi, avendo mantenuto contatti con i parenti e in particolare con la sorella Camilla Celeste e con il cugino Livio. Ai congiunti Andrea continuò a mandare ingenti somme e impose al governo della Serenissima di mantenere la sorella, che sposò il veneziano Marcantonio della Vedova. Quest’ultimo approfittò della parentela acquisita con Hasan pascià per fare ottimi affari, dopo che il kapudan lo aveva raccomandato al bailo di Costantinopoli. Tra le grandi ricchezze di Hasan vi furono i proventi derivati dall’importante commercio di schiavi con i quali fu particolarmente duro, anche nei confronti di quei prigionieri di alto rango che potevano fruttare fortune. L’ultimo periodo fu caratterizzato dalla sfortuna e dalle sconfitte nelle spedizioni corsare, tanto che il suo potere vacillò più volte attaccato dagli avversari e talvolta anche dal Sultano. Negli ultimi anni si occupò dell’Arsenale e si scontrò con un astro nascente dell’harem, il suo connazionale e rivale Sinan Pascià parente indiretto del Sultano. Mentre preparava una spedizione contro la Spagna, il 12 luglio 1591 colto da improvviso malore si spegneva. La testimonianza del suo carattere di «rinnegato» fu raccolta dagli ambasciatori veneziani di cui era confidente, le cui memorie raccontano di un uomo fondamentalmente solo, spregiudicato e malvivente per necessità e nostalgico della sua gioventù persa a Venezia.
Scipione Cicala noto come Sinàn Çigala-Zade Kapudan Pascià. (Messina 1544 -Diyarbakir 1605)
Figlio del visconte Vincenzo Cicala, genovese capitano al servizio della famiglia Doria, Scipione nasce a Messina da madre montenegrina, che fece il percorso inverso lasciando l’Islam per amore del marito. Fu rapito, come noto, insieme al padre dalle orde di Occhialì il calabrese al largo delle isole Egadi. A differenza del padre, che fu liberato su riscatto, il diciannovenne Scipione fu fatto schiavo e portato a Tripoli, quindi a Costantinopoli nel 1561. Qui ebbe l’occasione, dopo la conversione all’Islam, di entrare nel corpo militare turco dei Giannizzeri dove, messo a servizio al palazzo imperiale, entrò nelle grazie di Solimano II si dice anche per la sua bellezza. L’ingresso nell’harem aprì le porte al Cicala, come testimoniato dal ballo veneziano Marcantonio Barbaro, che più tardi sposò una parente del Sultano. Temerario e spietato non solo per mare, Scipione fu protagonista di una spedizione in Valacchia (Moldavia) atta a ripristinare il dominio turco nel 1574. A Costantinopoli, ormai capo dei giannizzeri, Sinàn dovette fare i conti con la perdita del favore e gli intrighi di corte seguiti alla morte prematura della prima moglie. Inviato momentaneamente a Bassora, lontano dall’harem, fu in grado di risalire la china sposando una sorella della defunta moglie. Grazie alle sue capacità militari in occasione della difesa contro un’incursione persiana il genovese guadagnò progressivamente prestigio fino ad arrivare alla candidatura per la carica suprema di Kapudan Pascià concessa dalla Sublime Porta. Abile negli intrighi e nella corruzione per mezzo di ricchi doni provenienti dai saccheggi in particolare ai danni delle navi veneziane, in spregio ai contatti commerciali tra la Serenissima e Costantinopoli. Vizioso e feroce soprattutto contro i Cristiani, si narra nelle cronache degli ambasciatori che Cicala facesse uso di alcool e droghe (il mangiar ch’egli fa di una certa erba che rende pazzo (…)). Tra le incursioni in tutto il Mediterraneo quelle più efferate si ebbero nell’Adriatico, data l’ossessione di Cicala nel voler un giorno espugnare Venezia. La carica ambita di Kapudàn Pascià giunse nel 1591, ma la sua carriera non si fermò al capitanato del mare. Nel 1595 diventa Gran visir rafforzando ancora di più l’azione militare di terra (imponendo una rigida disciplina all’esercito turco) e per mare dove mette a ferro e fuoco le coste dell’Italia Meridionale. Il malumore dovuto al proprio carattere inflessibile e spregiudicato assieme ad una serie di sconfitte militari ne portarono alla deposizione, anche se per la seconda volta nel 1599 è nominato Kapudàn pascià. Tre anni più tardi Cicala cercò la presa di Reggio Calabria, ma fu sconfitto pur essendo in superiorità numerica. L’ultima battaglia di Cicala fu combattuta contro i Persiani dove le cronache ne registrarono la morte presso la fortezza di Diyarbakir in Anatolia nell’anno 1605. Un quartiere di Istanbul, Cagaloglu, è a lui dedicato. Scipione Cicala è raccontato da Fabrizio De André nel brano Sinàn Capudàn Pascià del 1984 cantato in dialetto genovese. Come in una autobiografia il Cicala racconta con orgoglio misto a rabbia la sua carriera di «rinnegato», perché i posteri lo ricordino nella sua potenza: e questa è la mæ storia/ e va voeggiu cuntà/un pö prima c’ha vegiaia/ a mè pesta intu murtà/ e questa è la memoja/à memoja du Cigä/ ma insci libri de stöia/ Sinàn Capudàn Pascià (E questa è la mia storia/e ve la voglio raccontare/prima che la vecchiaia/mi pesti nel suo mortaio/ E questa è la memoria/la memoria del Cicala/ ma sui libri di storia/Sinàn Capudàn Pascià).
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La pirateria «barbaresca» investì le coste italiane nel secolo XVI, in una guerra di corsa che fu anche di religione. Tra i molti prigionieri italiani che abbracciarono l'Islam alcuni fecero grandi carriere, dal remo della galera alla corte del Sultano. Tre storie.Che il fenomeno della pirateria nel Mediterraneo si perdesse nella notte dei tempi è cosa nota. Il bacino del mare nostrum, per la conformazione geografica e per la storia delle popolazioni che lo abitarono è sempre stato un terreno estremamente fertile per lo sviluppo delle incursioni piratesche. I grandi classici hanno lasciato diverse testimonianze del fenomeno in scritti o poemi epici. Sopra tutti Omero, che nel libro Quattordicesimo dell’Odissea (versi da 245 in avanti) canta le gesta corsare dei suoi stessi Achei che giunti in Egitto si lasciarono andare a saccheggi, rapimenti di donne e omicidi, di prigionieri fatti schiavi. E così Tucidide che racconta della prima forma di contrasto al fenomeno da parte della potenza marittima di Minosse che da Creta organizzò la difesa ed ebbe ragione per un periodo dei pirati che infestavano le isole dell’Egeo. L’azione dei corsari, dalla Dalmazia fino alla Turchia passando per Egitto, Libia e Tunisia fu un fenomeno ciclico in quanto seguiva le sorti geopolitiche del territorio, a seconda del dominio o della decadenza di una popolazione mediterranea. Anche Roma fu un esempio di reazione alle scorribande corsare, e da Aquileia riuscì a controllare l’Adriatico minacciato dai pirati della costa dalmata e albanese. Al declino dell’Impero seguì una nuova ripresa dei saccheggi per mare, la cui potenza è ancora testimoniata oggi dalle caratteristica geografica di molte città italiane, sviluppatesi nell’entroterra per difendersi dagli assalti dei pirati. Basti pensare alle tante «marine» nei comuni costieri italiani, toponomastica derivata dalla necessità di mantenere il centro abitato nell’entroterra a difesa dagli assalti dal mare. La storia della pirateria o della guerra di corsa (nel caso le autorità avessero rilasciato la relativa patente affinché i pirati assalissero naviglio o territorio di un Paese ostile) come già accennato, fu un fenomeno endemico e ciclico, che ebbe i picchi più alti quando le condizioni geopolitiche erano segnate dal declino delle potenze dominanti (come ad esempio l’Impero romano). Grandi ondate di corsari si ebbero infatti durante le invasioni barbariche e nel medioevo. Dopo le Crociate il fenomeno assunse anche un importante risvolto religioso che risultò in quella che oggi verrebbe definita come una guerra a bassa intensità tra mondo cristiano e Islam. Questo aspetto dominò gli attacchi dei pirati barbareschi contro la Penisola italiana tra il Cinquecento e il Seicento. Fenomeno che colpì in particolare il regno di Napoli sotto il dominio spagnolo, interessò in diverse occasioni la costa della Liguria e, ad Est, quella adriatica fino a Venezia e fu alimentato dalla crescente influenza ottomana sul Mediterraneo. La Puglia fu una delle regioni più martoriate nella prima metà del secolo XVI, vittima di continui attacchi in cui spiccò la figura di uno dei pirati turchi più famosi, Dragut. Dopo aver assalito più volte le coste della Liguria difese dalla flotta di Andrea Doria, il «capitano del mare» si ripeté in incursioni sulla costa campana e contro l’isola d’Elba, che non riuscì tuttavia ad espugnare grazie alla fortificata Portoferraio. Tuttavia la ferocia di Dragut pascià si risolse in una delle più efferate stragi che la storia ricordi. Nel luglio 1554 la flotta corsara dei turchi assalì Vieste e il Gargano dove saccheggiò l’abitato, fece innumerevoli prigionieri e assassinò circa 5.000 persone. Alla ferocia dei pirati musulmani (che avevano una grande sede operativa ad Algeri) non risposero le autorità spagnole del Regno di Napoli, le quali avevano esautorato la nobiltà napoletana dal comando (l’unica che avesse un vero interesse nella difesa costiera) in quanto consideravano il Mezzogiorno poco più che un serbatoio di tributi per Madrid. Fu anche per motivi politici che il Sud continuò a subire saccheggi, omicidi e deportazioni almeno fino al secolo successivo quando il mutamento delle condizioni politiche degli Stati pre-unitari permise la formazione dei primi nuclei di marina in grado di contrastare l’azione dei pirati barbareschi, il cui declino avverrà soltanto nei primi decenni del secolo XIX. Durante i due secoli di scorrerie sulle coste italiane furono migliaia i prigionieri che, fatti schiavi, venivano impiegati come forza lavoro o merce di scambio. Tra i tanti deportati nei domini del sultano, vi erano numerosi italiani. Tra questi ultimi spiccano tre «rinnegati» (costretti cioè ad abiurare il Cristianesimo per l’Islam) che si distinsero per la grande carriera che li portò a diventare «Kapudàn pascià», (in italiano Capitano del Mare) ossia grandi ammiragli comandanti della flotta ottomana, una carica appena sotto a quella del Sultano. Le loro storie, che in un caso si intrecciano, riguardano tre uomini di mare provenienti da punti diversi della Penisola: Calabria, Venezia e Genova.Luca Galeni noto come Uluç Alì detto anche «Occhialì». (Le Castella, Crotone 1519 - Costantinopoli 1587)Figlio di pescatori e avviato in seminario, Luca Galeni fu rapito durante un incursione di pirati nel 1536 nel golfo di Squillace e ridotto in schiavitù al remo di una galera dopo essere stato acquistato da un Raìs anch’esso di origini calabresi. Dopo una violenta lite con un «rinnegato» napoletano decide di vendicarsi uccidendolo e abbracciando l’Islam per essere affrancato. Stimato dal padrone, ne sposa più tardi la figlia lanciandosi nella carriera di corsaro con l’acquisto di una nave e diventando a sua volta Raìs. La sua attività piratesca si concentrerà in particolare contro la costa Ligure dopo aver partecipato nei ranghi di Dragut a ripetuti attacchi contro Puglia e Calabria, che gli varranno la presentazione ufficiale al Sultano. Nemico giurato di Andrea Doria, che gli diede la caccia fino al covo di Djerba. Per vendicarsi dell’affondamento di due navi, Occhialì attaccò Oneglia, possedimento dei Doria. Durante un raid nel mar Egeo Uluç Alì rapiva il visconte Vincenzo Cicala, Genovese e padre di Scipione Cicala, futuro «rinnegato» d’eccellenza. Negli anni Sessanta del secolo XVI Occhialì fu il terrore del Mediterraneo dal 1561 attaccò Taggia e Villefranche in Costa Azzurra, dove catturò 300 prigionieri chiedendo riscatto a Emanuele Filiberto di Savoia. Nel 1565 subentra a Dragut come governatore di Tripoli, mentre l’anno successivo mette a ferro e fuoco il Tirreno scontrandosi con i Cavalieri di Santo Stefano del principe Appiani. Nel decennio successivo Occhialì strappò Tunisi agli Spagnoli mettendo a comando della nuova base corsara un rinnegato sardo, Cayto Ramadan, quindi rivolse le armi all’Adriatico controllato dalla Serenissima impedendo al doge Sebastiano Venier di unire le forze a quelle degli Spagnoli. Partecipò alla battaglia di Lepanto con la flotta ottomana, riuscendo ad affondare 12 galee prima di fuggire dopo la sconfitta turca. Per le sue azioni Solimano III lo nominò Kapudan pascià, donandogli il nome di Kilige Alì, vale a dire «Alì la spada». Insieme a Scipione Cicala (di cui si parlerà più avanti) il kapudàn pascià calabrese occupava nel 1574 la roccaforte spagnola de La Goletta uccidendo tutti i difensore tranne i comandanti per il riscatto. Dopo aver rinnovato la flotta ottomana con armamenti simili a quelli delle navi occidentali, nel 1582 si ritirava presso il colle Tophane di Costantinopoli, da lui ribattezzato Nuova Calabria dove terminò la sua esistenza cinque anni più tardi, probabilmente per un ictus fulminante come documentato dalla missiva per la Serenissima inviata dal bailo (ambasciatore) di Venezia di stanza a Istanbul.Andrea Celeste noto come Hasan Venedikli. (Venezia 1544 - Costantinopoli 1591)Poco si conosce della gioventù di Andreéta (come veniva chiamato a Venezia) se non che fosse imbarcato come scrivano e che fu rapito da Dragut, il dominatore del Mediterraneo e che fu venduto a Tripoli e costretto ad abbracciare la religione islamica. Ereditato prima da Dragut stesso e quindi dal calabrese Uluç Alì, divenne il suo prediletto e fu da lui nominato pascià di Algeri e quindi di Tripoli. La carriera di Hasan procedette spedita a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento quando fu nominato Berlybey di Algeri, corrispondente alla carica di governatore. Durante la sua reggenza ad Algeri giunse uno schiavo illustre, Cervantes, verso cui Hasan fu sempre clemente nonostante i numerosi tentativi di fuga del letterato spagnolo. Alla morte di Uluç fu momentaneamente sorpassato nella corsa alla carica di kapudan pascià da Ibrahim il Serbo. Hasan il Veneziano, scaltro e ambizioso, intrecciò trame una volta giunto a Costantinopoli, erodendo il potere di Ibrahim a suon di soldi guadagnati nelle imprese di pirateria contro Venezia stessa e sottolineando presso il Sultano la scarsa conoscenza del mestiere del mare da parte del Serbo. Per dimostrare le proprie capacità riprese il mare e catturò un galeone maltese facendo bottino e attendendo che l’opera di corruzione dell’harem di Costantinopoli cambiasse il vento a suo favore complice anche l’appoggio del nuovo ambasciatore veneziano. L’impresa riuscì nel 1588 quando Andreéta fu nominato nuovo Kapudan pascià. Durante la carica Hasan agì come un pirata-commerciante, soprattutto con la nativa Venezia che a differenza dei regni europei non disdegnava di fare affari con il mondo islamico dei Barbareschi, avendo mantenuto contatti con i parenti e in particolare con la sorella Camilla Celeste e con il cugino Livio. Ai congiunti Andrea continuò a mandare ingenti somme e impose al governo della Serenissima di mantenere la sorella, che sposò il veneziano Marcantonio della Vedova. Quest’ultimo approfittò della parentela acquisita con Hasan pascià per fare ottimi affari, dopo che il kapudan lo aveva raccomandato al bailo di Costantinopoli. Tra le grandi ricchezze di Hasan vi furono i proventi derivati dall’importante commercio di schiavi con i quali fu particolarmente duro, anche nei confronti di quei prigionieri di alto rango che potevano fruttare fortune. L’ultimo periodo fu caratterizzato dalla sfortuna e dalle sconfitte nelle spedizioni corsare, tanto che il suo potere vacillò più volte attaccato dagli avversari e talvolta anche dal Sultano. Negli ultimi anni si occupò dell’Arsenale e si scontrò con un astro nascente dell’harem, il suo connazionale e rivale Sinan Pascià parente indiretto del Sultano. Mentre preparava una spedizione contro la Spagna, il 12 luglio 1591 colto da improvviso malore si spegneva. La testimonianza del suo carattere di «rinnegato» fu raccolta dagli ambasciatori veneziani di cui era confidente, le cui memorie raccontano di un uomo fondamentalmente solo, spregiudicato e malvivente per necessità e nostalgico della sua gioventù persa a Venezia.Scipione Cicala noto come Sinàn Çigala-Zade Kapudan Pascià. (Messina 1544 -Diyarbakir 1605)Figlio del visconte Vincenzo Cicala, genovese capitano al servizio della famiglia Doria, Scipione nasce a Messina da madre montenegrina, che fece il percorso inverso lasciando l’Islam per amore del marito. Fu rapito, come noto, insieme al padre dalle orde di Occhialì il calabrese al largo delle isole Egadi. A differenza del padre, che fu liberato su riscatto, il diciannovenne Scipione fu fatto schiavo e portato a Tripoli, quindi a Costantinopoli nel 1561. Qui ebbe l’occasione, dopo la conversione all’Islam, di entrare nel corpo militare turco dei Giannizzeri dove, messo a servizio al palazzo imperiale, entrò nelle grazie di Solimano II si dice anche per la sua bellezza. L’ingresso nell’harem aprì le porte al Cicala, come testimoniato dal ballo veneziano Marcantonio Barbaro, che più tardi sposò una parente del Sultano. Temerario e spietato non solo per mare, Scipione fu protagonista di una spedizione in Valacchia (Moldavia) atta a ripristinare il dominio turco nel 1574. A Costantinopoli, ormai capo dei giannizzeri, Sinàn dovette fare i conti con la perdita del favore e gli intrighi di corte seguiti alla morte prematura della prima moglie. Inviato momentaneamente a Bassora, lontano dall’harem, fu in grado di risalire la china sposando una sorella della defunta moglie. Grazie alle sue capacità militari in occasione della difesa contro un’incursione persiana il genovese guadagnò progressivamente prestigio fino ad arrivare alla candidatura per la carica suprema di Kapudan Pascià concessa dalla Sublime Porta. Abile negli intrighi e nella corruzione per mezzo di ricchi doni provenienti dai saccheggi in particolare ai danni delle navi veneziane, in spregio ai contatti commerciali tra la Serenissima e Costantinopoli. Vizioso e feroce soprattutto contro i Cristiani, si narra nelle cronache degli ambasciatori che Cicala facesse uso di alcool e droghe (il mangiar ch’egli fa di una certa erba che rende pazzo (…)). Tra le incursioni in tutto il Mediterraneo quelle più efferate si ebbero nell’Adriatico, data l’ossessione di Cicala nel voler un giorno espugnare Venezia. La carica ambita di Kapudàn Pascià giunse nel 1591, ma la sua carriera non si fermò al capitanato del mare. Nel 1595 diventa Gran visir rafforzando ancora di più l’azione militare di terra (imponendo una rigida disciplina all’esercito turco) e per mare dove mette a ferro e fuoco le coste dell’Italia Meridionale. Il malumore dovuto al proprio carattere inflessibile e spregiudicato assieme ad una serie di sconfitte militari ne portarono alla deposizione, anche se per la seconda volta nel 1599 è nominato Kapudàn pascià. Tre anni più tardi Cicala cercò la presa di Reggio Calabria, ma fu sconfitto pur essendo in superiorità numerica. L’ultima battaglia di Cicala fu combattuta contro i Persiani dove le cronache ne registrarono la morte presso la fortezza di Diyarbakir in Anatolia nell’anno 1605. Un quartiere di Istanbul, Cagaloglu, è a lui dedicato. Scipione Cicala è raccontato da Fabrizio De André nel brano Sinàn Capudàn Pascià del 1984 cantato in dialetto genovese. Come in una autobiografia il Cicala racconta con orgoglio misto a rabbia la sua carriera di «rinnegato», perché i posteri lo ricordino nella sua potenza: e questa è la mæ storia/ e va voeggiu cuntà/un pö prima c’ha vegiaia/ a mè pesta intu murtà/ e questa è la memoja/à memoja du Cigä/ ma insci libri de stöia/ Sinàn Capudàn Pascià (E questa è la mia storia/e ve la voglio raccontare/prima che la vecchiaia/mi pesti nel suo mortaio/ E questa è la memoria/la memoria del Cicala/ ma sui libri di storia/Sinàn Capudàn Pascià).
(IStock)
Tecnologia e innovazione, poi, vanno in scena nel centro di intrattenimento multidisciplinare Area15, che ha di recente ampliato la sua offerta con nuove installazioni di realtà virtuale e aumentata, rendendo ogni visita un’esperienza immersiva e coinvolgente. Qui si può vivere il brivido di un viaggio nello spazio, partecipare a giochi interattivi o assistere a performance artistiche che uniscono arte, musica e tecnologia.
Per chi cerca un’esperienza più avventurosa, sono state inaugurate nuove attrazioni come il Flyover Las Vegas, un’attività di volo simulato che permette di sorvolare paesaggi spettacolari di tutto il mondo, e la Zero Gravity Experience, un volo parabolico che permette di provare la sensazione di assenza di gravità. L’High Roller presso il Linq Hotel è uno straordinario esempio di architettura e ingegneria moderna. Con un’altezza di 167 metri, questa meraviglia di vetro e acciaio è la ruota panoramica più alta degli Stati Uniti e la seconda più alta del mondo. Insomma, ce n’è davvero per tutti i gusti. Las Vegas, la città che non dorme mai, rappresenta da decenni uno dei poli turistici più iconici al mondo. Famosa per i suoi casinò sfavillanti, i suoi spettacoli di livello mondiale e la vita notturna sfrenata, questa città del Nevada ha saputo reinventarsi nel tempo, offrendo ai visitatori esperienze sempre nuove e coinvolgenti.
Uno degli aspetti più evidenti delle novità della città riguarda il settore alberghiero. Accanto ai famosissimi e spettacolari Caesars Palace; Circus Circus, Bellagio, Paris, The Venetian, la destinazione ha visto l’apertura di hotel di lusso e resort innovativi, capaci di attirare un pubblico sempre più eterogeneo. Tra i progetti più importanti va segnalato il Resorts World Las Vegas, un complesso di oltre 6.000 camere che combina tecnologia all’avanguardia, design sostenibile e un’offerta di intrattenimento di livello superiore. Questo resort si distingue per le sue strutture eco-compatibili, tra cui sistemi di risparmio energetico e gestione sostenibile delle risorse idriche.
D’altronde Las Vegas è nata negli anni Cinquanta dal nulla in mezzo al deserto al termine dalla «Valle della Morte» e, grazie alla monumentale diga di Hoover, è completamente autonoma dal punto di vista di acqua ed energia per tutte le luci, i neon, le insegne e la potente aria condizionata che consente di resistere anche a temperature esterne che raggiungono i cinquanta gradi.
L’attrazione più popolare della città è il Las Vegas Boulevard, comunemente noto come The Strip. Tutti i nuovi e lussuosi casinò sono costruiti su questa strada.
Nel centro della città «vecchia» degli anni Cinquanta ci sono, invece, alcuni hotel e casinò più retrò. Qui una delle attrazioni più distintive dell’area urbana è Fremont Street. Questa strada ha un enorme schermo sul soffitto dove vengono proiettate immagini di ogni tipo, e offre anche una divertente zipline, che permette di restare sospesi in aria da un’estremità all’altra della strada.
La parte di ristorazione è davvero molto variegata e va dai ristoranti gourmet a quelli etnici. Molti i piatti interessanti, nessuno a buon mercato. Ovviamente, come in tutti gli Stati Uniti, si trovano fast food a ogni angolo per chi non vole spendere troppo. Tra questi, l’ottimo e moderno Washin Patato at Fontainebleau o al Stubborn Seed at Resorts World.
Per raggiungere Las Vegas una delle combinazioni più interessanti è quella con la compagnia aerea Condor (www.condor.com/it) via Francoforte con ottimi orari di volo, coincidenze e comodità a bordo. Per maggiori informazioni sulla destinazione: www.lvcva.com.
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Bill Clinton e Jeffrey Epstein (Ansa)
Neanche a dirlo, è scoppiato uno scontro tra il Dipartimento di Giustizia e alcuni parlamentari. «La legge approvata dal Congresso e firmata dal presidente Trump era chiarissima: l’amministrazione Trump aveva 30 giorni di tempo per pubblicare tutti i file di Epstein, non solo alcuni. Non farlo equivale a violare la legge. Questo dimostra che il Dipartimento di Giustizia, Donald Trump e Pam Bondi sono determinati a nascondere la verità», ha tuonato il capogruppo dell’Asinello al Senato, Chuck Schumer, mentre il deputato dem Ro Khanna ha ventilato l’ipotesi di un impeachment contro la Bondi. Strali all’amministrazione Trump sono arrivati anche dai deputati Thomas Massie e Marjorie Taylor Greene: due dei principali critici repubblicani dell’attuale presidente americano.
«Il Dipartimento di Giustizia sta pubblicando una massiccia tranche di nuovi documenti che le amministrazioni Biden e Obama si sono rifiutate di divulgare. Il punto è questo: l’amministrazione Trump sta garantendo livelli di trasparenza che le amministrazioni precedenti non avevano mai nemmeno preso in considerazione», ha replicato il dicastero guidato dalla Bondi, per poi aggiungere: «La scadenza iniziale è stata rispettata mentre lavoriamo con diligenza per proteggere le vittime». Insomma, se per i critici di Trump la deadline di venerdì era assoluta e perentoria, il Dipartimento di Giustizia l’ha interpretata come una «scadenza iniziale». Ma non è finita qui. Ulteriori polemiche sono infatti sorte a causa del fatto che numerosi documenti pubblicati venerdì fossero pesantemente segretati: un’accusa a cui il Dipartimento di Giustizia ha replicato, sostenendo di aver voluto tutelare le vittime di Epstein.
Ma che cosa c’è di interessante nei file divulgati venerdì? Innanzitutto, tra i documenti pubblicati l’altro ieri, compare la denuncia presentata all’Fbi nel 1996 contro Epstein da una sua vittima, Maria Farmer. In secondo luogo, sono rispuntate le figure di Trump e Bill Clinton, anche se in misura differente. «Trump è appena visibile nei documenti, con le poche foto che lo ritraggono che sembrano essere di pubblico dominio da decenni. Tra queste, due in cui Trump ed Epstein posano con l’attuale first lady Melania Trump nel febbraio 2000 durante un evento nel suo resort di Mar-a-Lago», ha riferito The Hill. Svariate foto riguardano invece Bill Clinton. In particolare, una ritrae l’ex presidente dem in una piscina insieme alla socia di Epstein, Ghislaine Maxwell, e a un’altra donna dal volto oscurato. In un’altra, Clinton è in una vasca idromassaggio sempre in compagnia di una donna dall’identità celata: una donna che, secondo quanto affermato su X dal portavoce del Dipartimento di Giustizia Gates McGavick, risulterebbe una «vittima». In un’altra foto ancora, l’ex presidente dem è sul sedile di un aereo, con una ragazza che gli cinge il collo con un braccio. Clinton compare infine in foto anche con i cantanti Mick Jagger e Michael Jackson.
«La Casa Bianca non ha nascosto questi file per mesi, per poi pubblicarli a tarda notte di venerdì per proteggere Bill Clinton», ha dichiarato il portavoce di Clinton, Angel Ureña, che ha aggiunto: «Si tratta di proteggersi da ciò che verrà dopo, o da ciò che cercheranno di nascondere per sempre. Così possono pubblicare tutte le foto sgranate di oltre 20 anni che vogliono, ma non si tratta di Bill Clinton». «Persino Susie Wiles ha detto che Donald Trump si sbagliava su Bill Clinton», ha concluso. «Questa è la sua resa dei conti», ha invece dichiarato al New York Post un ex assistente di Clinton, riferendosi proprio all’ex presidente dem. «Voglio dire, se accendete la Cnn, è di questo che stanno parlando. Ho ricevuto un milione di messaggi a riguardo», ha proseguito. «La gente pensa: non posso credere che fosse in una vasca idromassaggio. Chi è quella donna lì dentro?», ha continuato, per poi aggiungere: «Voglio dire, è incredibile. È semplicemente scioccante», ha continuato. Vale la pena di sottolineare che né Trump né Clinton sono accusati di reati in riferimento al caso Epstein. Caso su cui i coniugi Clinton si sono tuttavia recentemente rifiutati di testimoniare alla Camera. Per questo, il presidente della commissione Sorveglianza della Camera stessa, il repubblicano James Comer, ha offerto loro di deporre a gennaio: in caso contrario, ha minacciato di avviare un procedimento per oltraggio al Congresso contro la coppia.
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Il Tribunale dei minori de l'Aquila. Nel riquadro, la famiglia Trevallion Birmingham (Ansa)
Un bambino è un teste fragile estremamente suggestionabile, perché è abituato al fatto che non deve contraddire un adulto, e, soprattutto se il bambino è spaventato, tende a compiacere l’adulto e a dire quello che l’adulto vuole. Ricordiamo che esiste la Carta di Noto, un protocollo di linee guida per l’ascolto del minore in caso di presunti abusi sessuali o maltrattamenti, elaborato da esperti di diverse discipline (magistrati, avvocati, psicologi, ecc.), che sono state sistematicamente disattese per esempio a Bibbiano. Un bambino deportato dalla sua famiglia è per definizione terrorizzato. Il termine corretto per i bambini tolti dalle famiglie dalle assistenti sociali è deportazione. La deportazione avviene all’improvviso, da un istante all’altro, con l’interruzione totale di tutti gli affetti, genitori, nonni, amici, eventuali animali domestici. Il deportato è privato dei suoi oggetti e del suo ambiente e con la proibizione di contatti con la sua vita precedente. Il deportato non ha nessuna padronanza della sua vita. Questo è lo schema della deportazione. Assistenti sociali possono mentire e psicologi possono avvallare queste menzogne con interrogatori suggestivi che portano i bambini a mentire. I motivi sono tre: compiacenza verso superiori o colleghi (è già successo), interesse economico (è già successo), fanatismo nell’applicare le proprie teorie: l’abuso sessuale dei padri sui bambini è diffusissimo, una famiglia non ha il diritto di vivere in un bosco, una madre povera non ha diritto ad allevare suo figlio, i bambini appartengono allo Stato, a meno che non siano rom allora appartengono al clan, un non vaccinato è un nemico del popolo oltre che della scienza e va deportato e vaccinato (è già successo).
Un’assistente sociale può mentire. E dato che la menzogna è teoricamente possibile deve essere necessario, per legge, che a qualsiasi interazione tra lo psicologo e l’assistente sociale e il bambino sia presente un avvocato di parte o un perito di parte, psicologo o altra figura scelta dalla famiglia. È necessario quindi che venga fatta immediatamente una legge che chiarisca che sia vietato una qualsiasi interazione tra il bambino e un adulto, assistente sociale, psicologo, ovviamente magistrato, dove non sia presente un perito di parte o un avvocato. Facciamo un esempio a caso. Supponiamo (siamo nell’ambito delle supposizioni, il posto fantastico dei congiuntivi e dei condizionali) che l’assistente sociale che ha dichiarato che i bambini della famiglia del Bosco sono analfabeti, oltre ad aver compiuto il crimine deontologico gravissimo della violazione di segreto professionale, abbia mentito. Certo è estremamente probabile che i figli di una famiglia con un livello culturale alto, poliglotta, la cui madre lavora in smart working siano analfabeti. È la cosa più logica che ci sia, però supponiamo per ipotesi fantastica che l’assistente sociale abbia mentito. In questo caso è evidente che i bambini non possono tornare a casa per Natale. Se i bambini tornassero a casa in tempi brevi, non sarebbe difficile fare un video dove si dimostra che scrivono benissimo, che leggono benissimo, molto meglio dei coetanei in scuole dove il 90% degli utenti sono stranieri che non sanno nemmeno l’italiano e meno che mai l’inglese, si potrebbe dimostrare che sono perfettamente in grado di farsi una doccia da soli e anche di cucinare un minestrone.
La deportazione di un bambino, coi rapporti troncati da un colpo di ascia, produce danni incalcolabili. I bambini sono stati sottratti ai loro affetti per darli in mano a una tizia talmente interessata al loro interesse che sputtana loro e la loro famiglia davanti a tutta l’Italia e per sempre (il Web non dimentica) con affermazioni (vere?) sul loro analfabetismo e sulla loro incapacità a fare una doccia. Questi bambini rischiano di essere aggrediti e sfottuti dai coetanei per questo, si è spianata la strada a renderli vittime di bullismo per decenni. Con impressionante sprezzo di qualsiasi straccio di deontologia gli operatori, tutti felici di squittire a cani e porci informazioni che dovrebbero essere assolutamente riservate (anche questi il segreto professionale e la deontologia non sanno che cosa siano), ci informano che i bambini annusano con perplessità i vestiti che profumano di pulito. I vestiti non profumano di pulito. Hanno l’odore dei pessimi detersivi industriali reclamizzati alla televisione che deve essere la fonte principale se non l’unica da cui nasce la cultura degli operatori. I loro componenti sono pessimi, non solo inquinanti, ma anche pericolosi per la salute umana a lungo termine: stesso discorso per lo sciampo e il bagno schiuma, soprattutto negli orfanatrofi di Stato, le cosiddette case famiglie, dove si comprano i prodotti meno cari, quindi quelli con i componenti peggiori.
Nessuno dei libricini su cui hanno studiato gli operatori ha spiegato che ci sono ben altri sistemi per garantire una pulizia impeccabile. In tutte le foto che li ritraggono con i genitori, ai tempi distrutti per sempre in cui erano felici, i bambini sono pulitissimi. Tra l’altro tutte queste incredibili esperte di comportamento infantile, non hanno mai sentito parlare di comportamento oppositivo? Un bambino normale, una volta deportato con arbitrio dalla sua vita e dalla sua famiglia, può spezzarsi ed essere malleabile o può resistere ed essere oppositivo. Fai la doccia. Non la voglio fare. Scrivi. Non sono capace. Il bambino oppositivo deve essere frantumato. Non ti mando a casa nemmeno per Natale.
Sia fatta una legge immediatamente. Subito. I bambini del bosco devono avere di fianco un avvocato. Noi popolo italiano, che con le nostre tasse paghiamo i servizi sociali e la deportazione dei bambini, abbiamo il diritto a pretendere che non siano soli. I bambini nel bosco passeranno un Natale da deportati. Qualcuno si sentirà in dovere di informarci che in vita loro non avevano mai mangiato un qualche dolce industriale a base di zucchero, grassi idrogenati e coloranti e che grazie alla deportazione questa lacuna è stata colmata.
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La famiglia Trevallion-Birmingham (Ansa)
È infatti una prepotenza senza significato confrontare una bomba affettiva e esistenziale come tre fratellini che giocano e si vogliono evidentemente bene, accompagnata da genitori altrettanto uniti, e naturalmente affettivi con norme e abitudini di un Paese dove il nucleo abitativo più frequente nelle città più prestigiose consiste in un cittadino singolo. Pretendere che i pochi figli superstiti in qualche «terra di nessuno», con i suoi boschi e le affettuosità (che ancora esistono fuori dalle famiglie-tipo), si uniformino ai secchi diritti e cupe abitudini del sociologico e disperato «gruppo dei pari» è un’operazione di una freddezza stalinista, per fortuna destinata allo scacco. È coltivata da burocrazie che scambiano relazioni profonde e vere, comunque indispensabili alla vita e alla sua felicità, con strumenti tecnici, adoperabili solo quando la famiglia purtroppo non c’è più, molto spesso per l’ottusità e la corruzione dello Stato stesso che le subentra (come racconta Hanna Arendt) quando è riuscito a distruggerla. Se non si vuole creare danni inguaribili, tutti, anche i funzionari dello Stato, dovrebbero fare attenzione a non sostituire gli aspetti già legati all’umano fin dalla creazione del mondo, con pratiche esterne magari infiocchettate dalle burocrazie ma che non c’entrano nulla con la sostanza dell’uomo e la sua capacità di sopravvivere.
Certo, la bimba Utopia Rose, citata nel bel pezzo di Francesco Borgonovo del 18 dicembre, è una testimone insostituibile di un’altra visione del mondo rispetto alle varie ideologie che prevalgono in questo momento, unendo ferocia e ricchezza, cinismo e follia. Impossibile di fronte ai fratellini che tanto scandalizzano le burocrazie perbene non ricordare (oltretutto a pochi giorni dal Natale) l’ordine di Gesù: «Lasciate che questi piccoli vengano a me». Nessuno dubita che entreranno nel Regno prima degli assistenti sociali. Utopia Rose, la più grande, è affettuosa e impegnata, lavoratrice e giocattolona, organizzatrice e sognatrice. Però non è sola (Come si fa a non amarla, e anche un po’ invidiarla?). Non soltanto perché ha i suoi due fratellini, e i tre quarti del pubblico fa il tifo per loro. Ma perché questa visione loro e dei genitori di cercare una vita buona e naturale, semplicemente felice e affettuosa verso sé e verso gli altri e tutto il mondo vivente, cresce con la stessa velocità con la quale si sviluppa l’idolatria verso tutto ciò che è artificiale, fabbricato, mentale, non affettivo. È già qualche anno che chi viene in analisi scopre soprattutto questo: l’urgenza di mettersi al riparo dagli egoismi e pretese grandiose, vuote e fredde, e invece amare. Ormai il fenomeno trasborda nelle cronache. Trasgressione conclusiva, dialettale e popolaresca (milanese): «Spérèm»!
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