2021-07-25
Stop ai licenziamenti imposto di fatto: aziende bloccate
Dal 1° luglio non è cambiato nulla: le regole rendono impossibili le ristrutturazioni ed espongono a sconfitte in tribunale.Nell'ultimo anno e mezzo i tavoli di crisi al Mise si sono ridotti sensibilmente. Da 120 a circa 80. Una apparente buona notizia dovuta all'uso massiccio della cassa integrazione e, al tempo stesso, al divieto di avviare i licenziamenti collettivi e pure quelli individuali per giusta causa. L'aver ingessato il mondo del lavoro ha infatti contribuito a ridurre i tavoli di crisi tradizionali, ma ha ingrandito in modo abnorme il perimetro del Far West, cioè di tutte quelle piccole aziende che viaggiano sul filo del rasoio delle tutele sindacali. Le norme anti Covid, infilate in numerosi decreti poi diventati legge, consentono alle imprese di interrompere i rapporti di lavoro soltanto se i soci le mettono in liquidazione o fanno fallimento. Ed è quello che sta accadendo anche in queste ore.I licenziamenti denunciati dalla politica, da Pd e Leu, (un caso su tutti la fiorentina Gkn) sarebbero avvenuti anche lo scorso inverno in pieno Conte bis. Chi chiude e liquida, infatti, lascia a casa i lavoratori. I recenti decreti (Sostegni e Sostegni bis) che avrebbero dovuto sbloccare lo stop e riaprire il mercato del lavoro sono stati frutto di scontro politico. Da un lato Lega e Forza Italia, dall'altro Pd e Leu. In mezzo a fare da arbitro di parte il ministro Andrea Orlando. Tanto di parte che ha sempre sostenuto il blocco a oltranza e il divieto per le aziende di riorganizzare le strutture. Così in occasione della sudata conferenza stampa dello scorso 25 maggio, il premier Mario Draghi fece capire di aver portato a termine una mediazione sullo sblocco e trovato la quadra. La realtà è che dal 1° luglio non è cambiato nulla. La possibilità di licenziare vige sulla carta, nei fatti i rivoli burocratici e le scelte applicative hanno dettato la linea. Non solo è impossibile per le aziende attivare uscite collettive o individuali per giusta causa, ma è anche pericoloso perché - a dispetto delle dichiarazioni del governo - chi adesso allontana un dipendente domani rischierebbe di soccombere davanti a un giudice. A separare i fatti dalle dichiarazioni è un documento della «Direzione centrale tutela, sicurezza e vigilanza del lavoro» diretto ai vari ispettorati territoriali. La nota redatta dalla Direzione del ministero, e datata 16 luglio, spiega nel dettaglio le fasi legislative che hanno portato all'ultimo decreto, il numero 99, poi confluito nel Sostegni bis. Dopo aver fatto il lungo elenco di quelle aziende che potranno licenziare dopo il primo novembre, spiega che tutti gli imprenditori che hanno attivato ammortizzatori sociali in deroga o strumenti per il settore agricolo con estensione fino al 31 dicembre dovranno attendere la fine dell'anno per riorganizzare le strutture interne. In più, il Sostegni bis ha introdotto un ulteriore cavillo. Chi chiede l'esonero dei contributi previdenziali, fruibile entro il 31 dicembre, automaticamente accetta l'opzione del divieto di licenziamento.Gli ulteriori interventi normativi del decreto del 30 giugno, il numero 99, aggiungono dettagli non da poco. «Il divieto opera a prescindere dalla effettiva fruizione degli strumenti di integrazione salariale», si legge nella nota che poco più avanti specifica: «La ratio delle norme in questione (il riferimento è anche alle aziende che chiedono e hanno chiesto la cassa ordinaria, ndr) risiede nel collegare il divieto di licenziamento alla domanda di integrazione salariale e dunque al periodo di trattamento autorizzato e non a quello effettivamente fruito». Ecco, l'arcano è qui. Se non bastasse, lo stesso criterio viene applicato anche ai contratti di solidarietà e pure per le fattispecie di licenziamento per giusta causa. Per finire e sommare alla burocrazia ulteriore disagio, il ministero ha pensato bene di dover acquisire ulteriori informazioni per ciascuna domanda. Sia sul fronte dell'integrazione salariale sia su quello della conciliazione. Così spetta all'Ispettorato organizzare le singole riunioni. Inutile dire che i tempi di attesa difficilmente scendono sotto i 45 giorni. Ma si arriva anche a 60. Tradotto, al di fuori dei termini tecnici. Anche quelle poche aziende dell'industria e del manifatturiero che sulla carta possono licenziare, non riescono a farlo. Dovranno attendere nei fatti la data del primo novembre. E anche a quel punto dovranno aggiungere almeno 45 giorni. In pratica sarà arrivato il 2022. Se poi i vincoli già sulla carta prevedono l'attesa della fine dell'anno, a quel punto si arriverà alla primavera. D'altronde, le ultime righe del documento spiegano che i sindacati e le associazioni di categoria si sono impegnate a usare gli ammortizzatori in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Esattamente le parole di Orlando durante la ormai famosa conferenza stampa del 25 maggio. «Di tale orientamento si terrà conto in sede di riunione anche ai fini del monitoraggio degli accordi», conclude la Direzione centrale. Peccato che in italiano «si invita a» dovrebbe rimanere nel perimetro dei suggerimenti, e non degli obblighi. L'invito invece è divenuto una impossibilità di fatto, secondo la migliore burocrazia sovietica. A questo punto, sarebbe stato meglio che il ministero dicesse le cose come stanno. Far sapere alle aziende che non possono licenziare, invece che lasciarle nel limbo ed esporle a débâcle giudiziarie. Non siamo a favore dei licenziamenti in quanto tali, ma il divieto creerà altro impoverimento. Farà morire più aziende. E la sinistra avrà la scusa di quanto sta scritto sulla carta per non prendersene la responsabilità.