2024-09-17
Stellantis tifa green: meno auto ma prezzi cresciuti del 30%. E sussidi a pioggia
Con i sostegni, le case riducono il numero di vetture, che costano di più. Un mercato drogato che danneggia clienti e casse statali.La reazione dell’ad di Stellantis alla richiesta di una parte dei produttori d’auto di stoppare l’inasprimento delle regole sulle emissioni a primo acchito sembra lunare. Acea chiede all’Ue di congelare le norme al 2024. Con le nuove l’anno prossimo il mercato perderebbe di colpo 2 milioni di auto (che si troverebbero fuori regola) o rischierebbe circa 14 miliardi di multe. Carlos Tavares ha reagito con un secco no. «L’intervento era noto da tempo e tutte le case hanno avuto modo di organizzarsi e prepararsi». Vero. Peccato che il mercato, e lo dimostrano i numeri, va nella direzione opposta dell’elettrico. Evidentemente i colossi come Stellantis, ma vale pure per Volkswagen e altri brand, si sono tarati su un modello basato su numeri inferiori di produzione e una elevata quantità di sussidi. Si sono abituati a un modello statalista che però alle holding (a differenza dei fornitori, dei concessionari) porta risultati. Nel 2023 il prezzo medio di un’auto (venduta in Italia a privati, aziende e car sharing) si è aggirato poco sotto i 29.000 euro. Prima del Covid il prezzo medio era di 21.000 euro. Nel 2013 la cifra era di 18.000. Significa che negli ultimi 4 anni la cifra è crescita di circa il 30%. Non a caso il fatturato complessivo (in Italia) è stato di circa 45 miliardi a fronte di 1,6 milioni di nuovi mezzi. Il record di fatturato (46 miliardi) si è registrato 9 anni fa. Ma all’epoca le auto vendute erano state 2,6 milioni. Va detto che nel 2020 e nel 2021 l’effetto lockdown ha portato enormi rincari sulla filiera, ma ciò non basta a giustificare quasi 8.000 euro in più di prezzo medio. Tra il 2022 e il 2023, quando i valori della catena produttiva hanno cominciato ad assestarsi, il prezzo medio dell’auto è comunque salito di 2.000 euro. In un solo anno. Stellantis, ad esempio, per ogni vettura messa sul mercato ha un margine di circa 3.600 euro. Meglio fanno Tesla, Bmw, Mercedes e Ferrari (che però è altra categoria).È chiaro che potendo scegliere quali macchine produrre, le compagnie si sono concentrate su quelle di valore medio-alto dove i margini sono migliori. In buona sostanza l’industria sta vendendo meno ma guadagna di più. D’altronde gli investimenti sull’elettrificazione sono ingentissimi e dal ritorno nullo, salvo che attirano notevoli somme di incentivi. Sia diretti che indiretti. Solo nel 2023 Francia, Italia e Germania hanno speso 5 miliardi di aiuti all’acquisto in vetture elettriche. Un sistema drogato che apparentemente aiuta gli acquirenti, ma che in realtà sostiene lo schema della deindustrializzazione. Questa situazione, infatti, porta a creare un vuoto di offerta per chi desidera un prodotto più economico, com’era abituato fino a pochi anni fa, e che oggi ha di fatto due alternative. La prima alternativa è quella di andare nel mercato dell’usato: nel 2010 il 77% delle macchine acquistate usate avevano meno di dieci anni, nel 2022 siamo scesi al 45%. E per di più con prezzi più alti.La seconda alternativa, è quella di rivolgersi ai costruttori cinesi per le auto nuove. Se le auto economiche le importiamo, naturalmente a fabbricarle non saremo noi ma gli asiatici. Un’analisi di Bain evidenzia come dal 2015 al 2022 la produzione di auto cinesi sia salita dal 27 al 33% del totale mondiale, mentre quella europea scendeva dal 24 al 19%, perdendo 5,3 milioni di pezzi e relativi addetti.Sul fronte occupazionale quindi non ci siamo proprio. Se l’industria persegue i profitti, e la Cina punta a esportare e conquistare i mercati, non sono per nulla chiare le strategie del legislatore per contrastare l’impatto devastante sul lavoro causato dalla forte spinta all’elettrificazione voluta dallo stesso legislatore. Il quale, per il timore di finire senza produttori, farebbe bene a non inseguire le sirene di Pechino. Giusto due giorni fa i vertici del Pcc hanno fatto presente ai propri costruttori che è bene non esportare tecnologia all’estero. Europa compresa. Il che significa che anche quei brand disposti ad investire e aprire fabbriche nel Vecchio Continente si limiteranno ad assemblare. Quindi nel breve tempo qualche occupato in più e nel medio nessun ritorno. Quindi la soluzione non sta ad Est e tanto meno non sta in nuovi incentivi o sussidi, ma sta nel ritorno del libero mercato. Concorrenza e offerta di nuovi prodotti. Il che presuppone l’eliminazione dello stop ai motori endotermici. Altrimenti il circolo vizioso proseguirà. Le holding guadagnano producendo meno auto. Così sono costrette a chiudere, come sta facendo Volkswagen in Germania e un po’ negli Usa. Almeno 15.000 posti di lavoro pronti a svanire. Se la politica vuole imporre strategie e strade obbligate all’industria in cambio di sussidi, a perdere non è l’industria, ma il cliente e il cittadino. Il primo paga di più il prodotto, il secondo finanzia con le tasse i sussidi e tutti e due subiranno i tagli al lavoro, la diminuzione dell’Irpef, dei contributi pensionistici e di tutto ciò che l’industria porta al Pil.
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)