2024-09-13
Stellantis ferma la 500 elettrica
Carlos Tavares e John Elkann (Ansa)
Le vendite dei veicoli a batteria languono: costano troppo e sono scomodi. I marchi del Vecchio continente precipitano anche in Borsa, mentre i colossi esteri salgono. Il bando ai motori termici va modificato subito.Stellantis ferma la catena di montaggio di Mirafiori. Fino a metà ottobre, dallo storico stabilimento della Fiat non usciranno nuove 500 elettriche. Perché? La spiegazione fornita dall’azienda, che ha contestualmente comunicato la messa in cassa integrazione di operai e impiegati, è laconica: assenza di domanda. In altre parole, la richiesta di veicoli a batteria è al minimo e dunque non ha senso sfornare altre vetture per lasciarle a marcire sui piazzali dei concessionari. Qualcuno potrebbe pensare che a restare invenduta sia la sola 500 a pila e che dunque il destino della storica utilitaria convertita alla transizione energetica sia a rischio. In realtà, a mancare non sono gli acquirenti dell’auto che nella versione a benzina sessant’anni fa rappresentò il boom economico italiano, ma in generale i compratori di vetture elettriche. E il problema non riguarda solo il nostro Paese, ma più in generale l’Europa. Nonostante Ursula von der Leyen, spalleggiata da una maggioranza arcobaleno di cui fanno parte socialisti e verdi insista, la virata dal motore termico a quello a batteria non sta suscitando fra i consumatori grande entusiasmo. Le vendite delle auto elettriche infatti, restano fiacche in tutta Europa. Vuoi per gli alti costi, vuoi per i problemi di autonomia e di ricarica, sta di fatto che le previsioni di sostituzione del parco auto alimentato da combustibili fossili con motori a pila entro la data fissata dalla Ue sembrano sempre più campate in aria. E fin qui saremmo nel campo degli errori della politica a cui da sempre siamo abituati, visto che sui tassi di crescita dell’area euro la classe dirigente di stanza a Bruxelles e Francoforte quasi mai ci azzecca. Prova ne sia che per fermare l’inflazione, gli euroburocrati uniti alla Lagarde hanno fermato l’economia dell’intero continente, Germania compresa. Però la clamorosa cantonata dell’auto elettrica non è un fatto limitato alla singola industria e nemmeno a un singolo Paese. È vero che se a Mirafiori si ferma la catena di montaggio, a fermarsi è gran parte dell’indotto e questo è un danno per il Paese, ma lo stop della produzione per assenza di domanda rappresenta qualche cosa di più di un problema limitato allo stabilimento di Torino: è il fallimento di una politica industriale europea. Anzi, il suicidio di un settore che per circa un secolo e mezzo ha rappresentato la grande industria. Infatti, gli effetti di quella che chiamano transizione energetica stanno cambiando il volto delle fabbriche, condannando il cosiddetto settore dell’automotive all’estinzione.La mancanza di ordini che costringe Stellantis a fermare la produzione delle 500 elettriche perché non c’è mercato la ritroviamo anche in Germania, con lo stop di Volkswagen e Audi e l’annuncio di prossimi licenziamenti. Le fabbriche chiudono perché producono auto che la grande massa dei consumatori o non si può permettere o per problemi pratici non è interessata a comprare. E che questo sia un suicidio di massa lo dimostrano i dati e non soltanto quelli delle auto vendute, ma anche quelli degli andamenti di Borsa del settore in Europa. Da Volkswagen a Porsche, da Renault a Stellantis (con le poche eccezioni di Bmw e Mercedes), la media dei prezzi a cinque anni mostra un calo delle quotazioni, qualche volta anche del 40 per cento, a fronte di colossi stranieri, come Ford e Gm o Toyota, che hanno visto il valore delle proprie azioni aumentare. Secondo un’analisi di eToro, le sei maggiori case automobilistiche europee dall’inizio dell’anno hanno perso 69 miliardi di capitalizzazione, poco meno dell’intero valore di una sola azienda, come per esempio Enel. Se si considera che il comparto auto in Europa offre occupazione diretta e indiretta a 13,8 milioni di persone, pari al 6,1 dell’intera forza lavoro del continente, si capisce che i danni per l’Europa potrebbero essere enormi.Insomma, il discorso è chiaro: o si cambia linea, rivedendo alcune scelte e rinviando alcune date che obbligano a interrompere la produzione di motori termici, o si rischia il disastro, finanziario e occupazionale.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)