Un imprenditore non versa le tasse perché vanta un credito con la Pa. La Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia delle entrate con questa motivazione: che l’amministrazione non saldi nei tempi è un «fenomeno ricorrente», quindi il privato deve regolarsi.
Un imprenditore non versa le tasse perché vanta un credito con la Pa. La Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia delle entrate con questa motivazione: che l’amministrazione non saldi nei tempi è un «fenomeno ricorrente», quindi il privato deve regolarsi.Se lo Stato è in ritardo con i pagamenti, la colpa è delle aziende che devono prevederlo. Quello che si legge nelle otto pagine dell’ordinanza numero 12708 pubblicata lo scorso 9 maggio dalla Corte di Cassazione ha quasi dell’incredibile. La vicenda riguarda la Servizi tecnici Srl, una società che fornisce impianti usati per effettuare intercettazioni ambientali a procure e tribunali e che dunque ha come unico committente la pubblica amministrazione. Tutto ha inizio nel 2009 quando l’agenzia delle entrate le notifica una cartella esattoriale con sanzioni e interessi conseguenti al ritardato pagamento del primo e secondo acconto Ires, in relazione appunto all’anno 2009. Importo complessivo: 113.349,08 euro. La società impugna la cartella davanti alla Commissione tributaria provinciale di Milano, contestando che il proprio ritardo nei pagamenti degli acconti era dovuto all’inadempienza della pubblica amministrazione, la quale aveva sistematicamente tardato nell’onorare i propri debiti nei suoi confronti. Essendoci, quindi, una causa di forza maggiore, questo escludeva la colpevolezza. La Commissione tributaria ritiene fondate le difese della Servizi tecnici e annulla la cartella di pagamento. A quel punto, l’amministrazione finanziaria fa appello alla stessa commissione che però conferma la decisione di primo grado. L’agenzia delle entrate non molla e ricorre in Cassazione affidandosi «ad un articolato motivo di impugnazione» sottolineando che nel caso di specie, «il contribuente non ha affatto dimostrato (né allegato) l’impossibilità di fronteggiare le difficoltà con altre misure (la richiesta di mutuo, ad esempio)». Della serie: non riesci a pagare le tasse? Fai un mutuo. La società ribadisce che all’epoca in cui è maturato il termine per il versamento degli acconti, si era registrato «un sistematico e grave ritardo nei pagamenti da parte della committente Pa, tanto che risultavano pagate solo minime percentuali del dovuto». Si era così trovata nell’impossibilità di adempiere tempestivamente all’obbligazione tributaria non per propria volontà, o comunque per propria colpa, bensì perché incapace di far fronte all’onere a causa della condotta di terzi, quindi per causa di forza maggiore. La Cassazione risponde però dando ragione all’agenzia delle entrate. Perché? Tenetevi forte. La Corte premette che «la forza maggiore va riferita ad un avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, elidendo il requisito della coscienza e volontarietà della condotta; ne consegue che non risponde a tale nozione la crisi di liquidità derivante dal reiterato, per quanto grave, inadempimento di pubbliche amministrazioni debitrici, peraltro prevedibile». Ed eccoci al paradosso: secondo la Corte, «nel caso di specie non ricorre alcun evento imprevedibile, essendo il ritardato pagamento della Pa un fenomeno (purtroppo) ricorrente, ed essendo onere dell’imprenditore predisporre quanto necessario (accantonamenti, mutui) per poter versare il dovuto all’Erario, pur in presenza di significativi ritardi della Pa nella corresponsione anche di cospicui importi». Riassumendo: i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione sono ricorrenti e prevedibili («purtroppo»). Quindi gli imprenditori hanno l’obbligo, si legge nell’ordinanza, «di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in sacrifici eccessivi». Del resto, viene aggiunto, «l’attività d’impresa è per sua natura rischiosa». Morale: la Cassazione ha accolto il ricorso dell’agenzia delle entrate e ha condannato la Srl al pagamento delle spese di lite in favore della stessa agenzia, liquidandole in complessivi 4mila euro «per compensi, oltre spese prenotate a debito». Lo Stato può pagare in ritardo alle aziende ma le aziende devono essere puntuali con i pagamenti allo Stato. Non solo. La cartella, come abbiamo scritto all’inizio di questo articolo, è partita nel 2009. Quindici anni fa. Ma negli ultimi anni la Pa non ha accelerato molto i tempi per pagare il debito con i fornitori. Secondo gli ultimi dati della Cgia di Mestre, i debiti commerciali della nostra pubblica amministrazione ammontano a circa 50 miliardi, un importo che è lo stesso da almeno cinque anni, a danno soprattutto delle piccole imprese. Vi sblocchiamo un ricordo. A marzo 2014 nel salotto tv di Porta a Porta l’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, assicura a Bruno Vespa che entro il 21 settembre, giorno del suo onomastico, il governo avrebbe completato la restituzione alle imprese dei 56 miliardi di debiti maturati dalla pubblica amministrazione entro il 31 dicembre 2013. E lancia la sfida a Vespa: «Il 21 settembre, a San Matteo, ultimo giorno d’estate, se abbiamo sbloccato tutti i debiti della Pa lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario», santuario sulle colline del capoluogo toscano. Come era finita? I soldi erano stati stanziati (anche se Bakitalia valutava i debiti in 75 miliardi) ma alla data del 21 settembre oltre venti miliardi ancora non erano entrati nelle casse delle imprese. Ancora oggi, per le imprese italiane che devono essere ancora pagate dalla Pa, più che a Monte Senario forse è meglio andare direttamente a Lourdes.
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Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.