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2023-03-06
Sprechi da Covid
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Sono stati costruiti in piena emergenza Covid per far fronte alla carenza di posti letto nei reparti di terapia intensiva e ora sono vuoti, senza personale, senza pazienti, inutilizzati. Investimenti di miliardi che si stanno trasformando in sprechi mentre gli ospedali sono sempre alle prese con fondi all’osso e bilanci in rosso. Così mentre non si bandiscono i concorsi per le scuole di specializzazione a causa del tetto alla spesa sanitaria, altrove si buttano risorse preziose. È uno dei paradossi della gestione della pandemia che ora sta emergendo in tutta la sua gravità. Stiamo parlando dei cosiddetti ospedali modulari, messi su in gran fretta e che ora rischiano di trasformarsi in cattedrali nel deserto. Nessuna amministrazione ha un piano per il loro utilizzo e il tema viene liquidato dicendo che sono a disposizione, qualora dovesse esserci un’altra emergenza, e che soffrono della carenza di personale come tutte le strutture della sanità pubblica.
Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, fece degli ospedali modulari il fiore all’occhiello della strategia anti Covid, ponendosi addirittura come un modello nazionale e sottolineando di aver anticipato le «virtuose» Regioni del nord. Una grande operazione di marketing politico con tanto di inaugurazioni in pompa magna rimbalzate anche sulle televisioni. In tutto tre strutture per una spesa totale di 15,5 milioni di euro suddivisi in 10,3 milioni per l’Ospedale del Mare di Napoli, 2,6 milioni per il Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta e 2,6 milioni per il San Giovanni e Ruggi D’Aragona di Salerno. Il bando se lo aggiudicò la Manufacturing Engineering Development di Padova con un offerta totale di quasi 12,3 milioni di euro.
Dopo i fuochi d’artificio del taglio del nastro e anche un’inchiesta giudiziaria sul numero dei posti letto realizzati che sarebbero stati di meno rispetto al previsto, quelle che dovevano essere le eccellenze regionali della lotta al Covid, sono state abbandonate. I moduli ora sono chiusi a chiave e, al massimo, ogni tanto qualcuno va ad azionare i macchinari per assicurarsi che la loro funzionalità non venga meno per l’incuria. Che fine faranno non è dato sapere. Ci sono vaghi progetti di destinazione ad altro uso ma i direttori sanitari non si addentrano in dettagli. La struttura del presidio di Ponticelli, costato 7 milioni, con 72 posti e relative apparecchiature, dovrebbe essere utilizzata, secondo il direttore della Asl Napoli 1, Ciro Verdoliva, per i pazienti sottoposti a cure lunghe ma di minore intensità. Anche l’ospedale modulare di Caserta è chiuso e le apparecchiature all’avanguardia sono ferme. Il direttore generale, Gaetano Gubitosa, ha detto al Corriere del Mezzogiorno che la struttura potrebbe essere convertita per la radioterapia, la medicina nucleare e la radioterapia.
Inutilizzato pure l’ospedale modulare di Salerno ma in attesa di una destinazione precisa, nel frattempo negli spazi potrebbero essere trasferite le attività della rianimazione quando saranno avviati i lavori di ristrutturazione del reparto del Ruggi. Sono progetti però scritti sull’acqua che si scontrano con la mancanza di una programmazione precisa soprattutto per quanto riguarda il personale. Possibile che quando tali strutture sono state realizzate non si è pensato quale sarebbe stato il loro futuro alla fine della pandemia e con quali medici avrebbero continuato a funzionare considerata le carenze di professionisti dovute ai tetti alle assunzioni?
C’è il rischio che con il passare del tempo vadano persi anche i macchinari.
La costruzione dei tre ospedali modulari a Napoli, Caserta e Salerno è entrata anche sotto il faro della Corte dei conti. Nella sua relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario, a marzo 2021, il procuratore Maurizio Stanco parlò dell’apertura di un «fascicolo istruttorio riguardante un’ipotesi di rilevante danno erariale» relativa «alla procedura di gara d’appalto» per la costruzione dei tre Covid hospital. «L’ufficio requirente», c’era scritto nella relazione di Stanco, «ha proceduto al riguardo, a nominare esperti consulenti tecnici».
C’è poi il pasticciaccio dell’ospedale Covid realizzato all’interno della Fiera del Levante di Bari, costo presunto di circa 25 milioni di euro, ovvero 50.000 euro a paziente e che ora deve essere smantellato. Cifre da capogiro, lievitate secondo una procedura che ha ancora punti oscuri. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, lo definì allora «un miracolo». In attesa che la struttura sia smontata, il salasso per la Regione continua. Innanzitutto c’è l’affitto dei padiglioni pari a 114.000 euro al mese da versare alla Fiera del Levante, come da contratto, che fanno 1.332.000 euro in un anno. Ci sono poi le bollette anche per il periodo in cui è stata chiusa, cioè settembre e ottobre 2021. Per questi due mesi, nonostante nella struttura non ci fosse alcun paziente, il Policlinico di Bari che ha gestito il presidio e a cui la Regione trasferisce le risorse, ha versato per l’elettricità ben 439.000 euro. Da aprile (lo stato di emergenza è terminato il 30 marzo 2021) a ottobre, per acqua e luce, il conto è stato pari a 1.200.000 euro.
Inoltre la Regione dovrebbe farsi carico delle spese di smontaggio, 3,3 milioni, anche se l’intenzione (chissà se andrà a buon fine) è di girare il conto alla Protezione civile nazionale.
Che dire degli sprechi al Moscati di Taranto denunciati dal vice presidente della Commissione Sanità della Regione Puglia e consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Renato Perrini. All’inizio del novembre 2020, in piena ondata Covid, la Rete Covid programmata dalla Regione Puglia prevedeva 3.062 posti letto suddivisi in 26 ospedali pubblici e sei cliniche private accreditate. Per raggiungere quel numero di posti letto furono fatti acquisti straordinari di attrezzature idonee ad assistere i contagiati. Ma questo materiale, avverte Perrini, «mi risulta, giace ora accumulato e ammassato, e soprattutto non utilizzato, in alcune stanze degli stessi ospedali». E il consigliere allega le foto del Moscati. Uno spreco di denaro pubblico al quale si aggiunge il mancato utilizzo di letti e macchinari di ultima generazione, mentre «mi giunge voce », afferma Perrini, «che si sta provvedendo ad acquistare altre attrezzature. Meglio sarebbe procedere ad un inventario per verificare le attrezzature già presenti negli ospedali, non più Covid, per poterle riutilizzare».
I reparti di Ponticelli appena inaugurati già non servivano più
Costo 7 milioni di euro, 72 posti di terapia intensiva ma appena inaugurato il direttore della Asl Napoli1, Ciro Verdoliva, ammette: «Le terapie intensive non servono più. La struttura modulare sarà destinata a pazienti Covid con altre patologie di base». Si riassume in poche righe la surreale vicenda del prefabbricato costruito nel parcheggio dell’Ospedale del Mare a Ponticelli, il primo di tre strutture che la Regione Campania aveva commissionato all’azienda veneta Med, e che avrebbe dovuto essere di aiuto nella fase di picco della pandemia. In pratica, appena terminato ci si è accorti che non era più necessario.
Verdoliva, interpellato dai giornalisti all’inaugurazione, ad aprile 2020, si affrettava a chiarire: «Avevamo pensato a questa struttura in uno scenario di guerra, quello del mese di marzo, poi le curve sono scese, sono diminuiti i contagi e non abbiamo più bisogno delle terapie intensive. Se in futuro ci troveremo con una nuova ondata di contagi, questo ospedale è riconvertibile in 6 ore, per oggi lo mettiamo a disposizione dei pazienti positivi con patologie di base e che dovrebbero andare negli ospedali».
Insomma le strutture ospedaliere in funzione erano in grado di reggere tranquillamente la pressione dei malati di Covid in condizioni gravi. Tant’è che Verdoliva affermava tranquillamente che «sulle degenze, terapie intensive e subintensive abbiamo più posti letto che domanda». Insomma il trasferimento dei pazienti sarebbe avvenuto, a quanto parve subito chiaro, per dare un senso a quella spesa di 7 milioni che si configurava come uno spreco.
Il caso dell’Ospedale del Mare insieme alle altre due strutture volute dal governatore De Luca per l’emergenza della pandemia, quella presso l’ospedale San Sebastiano, a Caserta e presso il Ruggi D’Aragona, a Salerno, è finito anche in Parlamento con un’interrogazione parlamentare presentata dalla senatrice Paola Nugnes, e sottoscritta dalle colleghe Loredana De Pretis, Margherita Corrado, Elena Fattori, Danila De Lucia e Simona Nocerino, per chiedere al ministro della Salute Roberto Speranza e a quello degli Affari regionali Francesco Boccia di chiarire la vicenda. In particolare, perché in Campania vi è stata la necessità di investire milioni di euro per un ospedale prefabbricato dentro ad un ospedale con 10 reparti chiusi. Le parlamentari chiedevano anche di intervenire per chiarire l’aggiudicazione dell’appalto di tutti e tre i lotti unicamente alla veneta Med e di dar conto dell’utilizzo futuro della struttura di Napoli, vista la paradossale situazione che si registrava all’Ospedale del Mare con diversi reparti chiusi.
I tempi della riconversione degli spazi modulari sono rimasti oscuri e ancora oggi non si sa quale sarà la destinazione della struttura. Suggerimenti ce ne sono tanti anche per alleggerire il peso che grava sugli altri ospedali sempre in carenza di spazi, ma fino ad ora l’amministrazione non ha messo nulla nero su bianco.
Un altro caso è quello dell’ospedaletto di Caserta, riservato ai pazienti in terapia intensiva, realizzato nel parcheggio del Sant’Anna e San Sebastiano, nella primavera 2020. A dicembre dello stesso anno, però, l’ospedale di Caserta ha espresso la necessità di spendere un milione e mezzo per ulteriori dodici letto di terapia intensiva Covid. Nel giro di pochi mesi la Regione Campania ha dovuto spendere 3 milioni e 354 mila euro. Una cifra significativa che avrebbe dovuto avere una giustificazione altrettanto importante. Eppure la struttura poteva ospitare al massimo 14 pazienti ed è rimasta quasi sempre inutilizzata.
Ma gli sprechi non finiscono qui perché all’ospedaletto è stato assegnato ad agosto 2020 un servizio di vigilanza del costo di diverse decine di migliaia di euro, tramite affidamento diretto alla Ssd di Nocera Inferiore. Un contratto che continua ancora, di proroga in proroga e dovrebbe scadere il 31 marzo prossimo secondo quanto disposto dalla delibera del direttore generale, Gaetano Gubitosa. La motivazione, messa nera su bianco, è «la necessità di salvaguardare le attrezzature e gli impianti del Presidio Modulare Ospedaliero Esterno Covid per una eventuale ripresa dei contagi per l’autunno/inverno 2022-2023». Tre mesi, da gennaio a marzo, verranno a costare 15.710 euro. Dopo più di due anni continuano a sopravvivere le motivazioni delle procedure di appalto d’emergenza legate al Covid.
Il padiglione di Bari? Ora costa troppo perfino smantellarlo
Il pasticciaccio dell’ospedale realizzato all’interno della Fiera del Levante di Bari può essere considerato l’emblema delle spese scellerate effettuate durante la pandemia. Il 13 novembre 2020, il sindaco di Bari, Antonio Decaro, annuncia la realizzazione di uno ospedale da campo dentro la Fiera. Seguono una serie di smentite da Asl e Regione, salvo poi venire fuori sul Corriere del Mezzogiorno, che il bando c’è ed ha scadenza di ore. Ma non si tratta di un ospedale da campo come quello realizzato a Barletta con le tende, facile da smontare e nemmeno dei moduli prefabbricati allestiti fuori degli ospedali. È un vero e proprio ospedale con 160 posti da terapia intensiva e costo di 9,6 milioni. La gara viene vinta da un raggruppamento pugliese guidato dalla Cobar, nota per la ricostruzione del Petruzzelli, con un’offerta da 8,5 milioni, al 12% di ribasso. Il commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, chiede al prefetto di Bari la requisizione di 3 padiglioni. Passano alla gestione della Regione che da quel momento dovrà versare alla Fiera un affitto mensile di 114.000 euro.
Ma era proprio necessaria questa operazione quando si sarebbero potuti utilizzare gli ospedali nuovi sparsi in tutta la Puglia, semivuoti, creando spazi ad hoc per le terapie intensive? È la domanda che si posero in molti. Tra questi Raffaele Fitto che paventò subito uno spreco di 10 milioni di euro. Ma l’operazione non si ferma e l’ospedale, a marzo 2021, è inaugurato con rulli di tamburo sui media. Dal taglio del nastro passano due mesi e l’ospedale nella Fiera non apre. C’è un intoppo: mancano i bagni. Il problema sorge perché nel frattempo i posti in terapia intensiva sono passati da 160 a 14 e quindi i ricoveri ordinari hanno bisogno dei servizi igienici. Quando tutto sembra pronto, ci si accorge che non ci sono i medici. La carenza di personale ospedaliero è una realtà nota ma nessuno se ne era ricordato.
Intanto i 9 milioni iniziali del bando lievitano e alla fine si arriverà a una spesa presunta, secondo la magistratura, di circa 25 milioni. La procura di Bari apre un’inchiesta, fioccano le interrogazioni parlamentari che chiedono al ministro della Salute Roberto Speranza di inviare gli ispettori. A settembre 2021 salta la Fiera del Levante, non era mai successo in 74 anni di storia. Scattano le inchieste e il capo della Protezione civile Mario Lerario è arrestato mentre intasca una mazzetta e oggi è agli arresti domiciliari.
La storia dell’ospedale Covid continua ancora, con tanti punti oscuri da chiarire. Il 24 marzo 2021 è pubblicato il decreto che sancisce la fine dello stato di emergenza ma questo non sembra valere per la Fiera. A fine marzo c’erano ancora pazienti nella struttura. L’assessorato dal Salute chiede al Policlinico di accelerare il trasferimento dei malati ma l’operazione va avanti fino a settembre. Intanto da aprile a ottobre sono arrivate bollette di luce e acqua per 1.200.000 euro che comprendono anche gli ultimi due mesi in cui l’ospedale era chiuso. In particolare l’elettricità di settembre e ottobre ammonta a 439.000 euro. A pagare per ora è il Policlinico, che ha gestito il presidio e a cui la Regione trasferirà anche i soldi per le spese di gestione e le utenze dell’ospedale chiuso, così come aveva fatto quando era operativo. C’è poi l’affitto dei padiglioni: 114.000 euro al mese come da accordi con la Fiera.
I macchinari, 153 ventilatori polmonari acquistati nel 2021 dalla Protezione civile, sono stati trasferiti presso il padiglione di Asclepios 3 del Policlinico, di prossima apertura e sono in corso le operazioni tecniche per rimetterli in funzione e riassegnarli ai reparti.
C’è poi il problema di smantellare la struttura ma l’operazione si sta rivelando più complicata del previsto, anche in virtù del fatto che non esiste il collaudo. La nuova commissione, nominata dopo l’arresto di Lerario, ha ritenuto che l’opera non fosse collaudabile e quindi non è chiaro come dovrà agire il Consorzio Agoraa di Catania, che ha vinto la gara del Policlinico per lo smontaggio di ciò che ancora è rimasto. Costo 3,3 milioni. Un salasso che la Regione vorrebbe girare alla Protezione civile nazionale in base al ragionamento che siccome la struttura è stata realizzata nell’emergenza, l’onere è di competenza del bilancio nazionale non di quello regionale. Ma non è detto che la richiesta vada a buon fine dal momento che, si potrebbe obiettare, tale onere doveva essere previsto dal principio.
«Certo è che quei 25 milioni sperperati potevano essere investiti per migliorare il sistema sanitario pugliese. Sarebbe bastato adeguare una struttura già esistente come l’ospedale militare a Bari che si poteva usare anche alla fine della pandemia, riconvertendolo in istituto di ricerca e a disposizione per momenti di emergenza», afferma Giosafatte Pallotta, esecutivo nazionale Anaao-Assomed, il sindacato dei medici e dirigenti ospedalieri. E sottolinea le difficoltà nello smantellamento. «La ricollocazione del materiale biomedico va a rilento mentre nessuno si è interessato a rilevare gli arredi e i moduli di cartongesso che comunque potevano essere riutilizzati. Ai bandi nessuno ha risposto anche se la cessione era praticamente gratuita».
«Almeno ricollochino i macchinari non usati»

Lorenzo Latella, segretario regionale di Cittadinanzattiva in Campania (YouTube)
«Ora gli ospedali modulari costruiti in Campania sull’onda dell’emergenza Covid sono vuoti, in gran parte non hanno nemmeno funzionato a pieno ritmo per come erano stati programmati oppure, come nel caso dell’Ospedale del Mare, hanno assorbito l’utenza proveniente dall’ospedale. Allo scoppio della pandemia la Campania era sotto stress e non me la sento di criticare la realizzazione di questi spazi per ospitare le terapie intensive. Il tema però è la mancanza di una programmazione sul futuro. Sul loro utilizzo e con quale personale, non ci sono risposte». Lorenzo Latella, segretario regionale di Cittadinanzattiva, associazione di difesa dei consumatori, è tra coloro che hanno inviato al presidente della Regione De Luca un piano per la riconversione degli ospedali modulari.
Avete avuto risposte?
«Abbiamo ricordato che le strutture non si possono lasciare chiuse con il rischio di un progressivo degrado. C’è stato un errore iniziale nella previsione della capacità ricettiva dei moduli, superiore alla domanda, ma capisco che in quei momenti era difficile stimare l’andamento dei contagi. Ma il fatto grave è stato non programmare il futuro. Va cambiata la loro destinazione d’uso. Le idee non mancano. Si possono utilizzare per gli screening oncologici, per i centri di specializzazione, per gli ambulatori, per le scuole di preparazione dei medici di pronto soccorso o di formazione per le malattie rare. I macchinari potrebbero essere allocati in altri ospedali. Bisogna fare presto prima che tutto sprofondi nell’incuria. È questo ciò che abbiamo fatto presente a De Luca, ma non abbiamo avuto risposte».
Quali sono gli ostacoli?
«La mia impressione è che l’amministrazione, non considerando più il Covid una priorità, abbia dimenticato anche ciò che ha fatto parte della battaglia contro il virus. Magari fa più notizia l’ampliamento dell’ospedale Cardarelli anche se poi il numero dei medici resta invariato, o si preferisce puntare sull’abbattimento delle liste d’attesa e sul recupero dei test per i malati oncologici. È un errore politico non avere un buon assessorato che si occupi della gestione ordinaria che come le emergenze resta nelle mani del presidente. Il problema della riconversione degli ospedali modulari si potrebbe risolvere in un paio di settimane ma servirebbero anche norme in deroga alla giungla di autorizzazioni che sono tornate in vigore al termine dello stato di emergenza».
Una volta riconvertite le strutture ad altro uso, ci sono i medici per riempirle?
«Durante la pandemia sono stati impiegati gli specializzandi e i pensionati mentre il personale organico ha aumentato i turni. Terminata l’emergenza i padiglioni si sono svuotati. De Luca afferma che la formazione dei medici non può esser delegata soltanto alle università ma andrebbe fatta anche negli ospedali in numero adeguato al fabbisogno. Ecco quindi che le strutture modulari avrebbero una funzione. Ma per questo occorre una decisione del governo».
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In Puglia e in Campania, gli ospedali costruiti durante la pandemia venivano presentati come fiori all’occhiello. Oggi sono vuoti, senza personale medico e senza pazienti. E le apparecchiature, a causa del lungo inutilizzo, rischiano di guastarsi. Beffa finale: oltre alle decine di milioni già sborsati, bisogna continuare a pagare le bollette.Il direttore della Asl ammise subito: «Di quelle terapie intensive non c’è bisogno». E a Caserta si sono spesi 3 milioni per 14 letti.Il pasticciaccio della struttura nella Fiera di Bari: prezzi triplicati in pochi mesi. E capo della protezione civile agli arresti.Il segretario campano di Cittadinanzattiva, Lorenzo Latella: «Riprogrammare è urgente. Abbiamo scritto a De Luca, ma non ci risponde».Lo speciale contiene quattro articoli.Sono stati costruiti in piena emergenza Covid per far fronte alla carenza di posti letto nei reparti di terapia intensiva e ora sono vuoti, senza personale, senza pazienti, inutilizzati. Investimenti di miliardi che si stanno trasformando in sprechi mentre gli ospedali sono sempre alle prese con fondi all’osso e bilanci in rosso. Così mentre non si bandiscono i concorsi per le scuole di specializzazione a causa del tetto alla spesa sanitaria, altrove si buttano risorse preziose. È uno dei paradossi della gestione della pandemia che ora sta emergendo in tutta la sua gravità. Stiamo parlando dei cosiddetti ospedali modulari, messi su in gran fretta e che ora rischiano di trasformarsi in cattedrali nel deserto. Nessuna amministrazione ha un piano per il loro utilizzo e il tema viene liquidato dicendo che sono a disposizione, qualora dovesse esserci un’altra emergenza, e che soffrono della carenza di personale come tutte le strutture della sanità pubblica. Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, fece degli ospedali modulari il fiore all’occhiello della strategia anti Covid, ponendosi addirittura come un modello nazionale e sottolineando di aver anticipato le «virtuose» Regioni del nord. Una grande operazione di marketing politico con tanto di inaugurazioni in pompa magna rimbalzate anche sulle televisioni. In tutto tre strutture per una spesa totale di 15,5 milioni di euro suddivisi in 10,3 milioni per l’Ospedale del Mare di Napoli, 2,6 milioni per il Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta e 2,6 milioni per il San Giovanni e Ruggi D’Aragona di Salerno. Il bando se lo aggiudicò la Manufacturing Engineering Development di Padova con un offerta totale di quasi 12,3 milioni di euro. Dopo i fuochi d’artificio del taglio del nastro e anche un’inchiesta giudiziaria sul numero dei posti letto realizzati che sarebbero stati di meno rispetto al previsto, quelle che dovevano essere le eccellenze regionali della lotta al Covid, sono state abbandonate. I moduli ora sono chiusi a chiave e, al massimo, ogni tanto qualcuno va ad azionare i macchinari per assicurarsi che la loro funzionalità non venga meno per l’incuria. Che fine faranno non è dato sapere. Ci sono vaghi progetti di destinazione ad altro uso ma i direttori sanitari non si addentrano in dettagli. La struttura del presidio di Ponticelli, costato 7 milioni, con 72 posti e relative apparecchiature, dovrebbe essere utilizzata, secondo il direttore della Asl Napoli 1, Ciro Verdoliva, per i pazienti sottoposti a cure lunghe ma di minore intensità. Anche l’ospedale modulare di Caserta è chiuso e le apparecchiature all’avanguardia sono ferme. Il direttore generale, Gaetano Gubitosa, ha detto al Corriere del Mezzogiorno che la struttura potrebbe essere convertita per la radioterapia, la medicina nucleare e la radioterapia. Inutilizzato pure l’ospedale modulare di Salerno ma in attesa di una destinazione precisa, nel frattempo negli spazi potrebbero essere trasferite le attività della rianimazione quando saranno avviati i lavori di ristrutturazione del reparto del Ruggi. Sono progetti però scritti sull’acqua che si scontrano con la mancanza di una programmazione precisa soprattutto per quanto riguarda il personale. Possibile che quando tali strutture sono state realizzate non si è pensato quale sarebbe stato il loro futuro alla fine della pandemia e con quali medici avrebbero continuato a funzionare considerata le carenze di professionisti dovute ai tetti alle assunzioni? C’è il rischio che con il passare del tempo vadano persi anche i macchinari. La costruzione dei tre ospedali modulari a Napoli, Caserta e Salerno è entrata anche sotto il faro della Corte dei conti. Nella sua relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario, a marzo 2021, il procuratore Maurizio Stanco parlò dell’apertura di un «fascicolo istruttorio riguardante un’ipotesi di rilevante danno erariale» relativa «alla procedura di gara d’appalto» per la costruzione dei tre Covid hospital. «L’ufficio requirente», c’era scritto nella relazione di Stanco, «ha proceduto al riguardo, a nominare esperti consulenti tecnici». C’è poi il pasticciaccio dell’ospedale Covid realizzato all’interno della Fiera del Levante di Bari, costo presunto di circa 25 milioni di euro, ovvero 50.000 euro a paziente e che ora deve essere smantellato. Cifre da capogiro, lievitate secondo una procedura che ha ancora punti oscuri. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, lo definì allora «un miracolo». In attesa che la struttura sia smontata, il salasso per la Regione continua. Innanzitutto c’è l’affitto dei padiglioni pari a 114.000 euro al mese da versare alla Fiera del Levante, come da contratto, che fanno 1.332.000 euro in un anno. Ci sono poi le bollette anche per il periodo in cui è stata chiusa, cioè settembre e ottobre 2021. Per questi due mesi, nonostante nella struttura non ci fosse alcun paziente, il Policlinico di Bari che ha gestito il presidio e a cui la Regione trasferisce le risorse, ha versato per l’elettricità ben 439.000 euro. Da aprile (lo stato di emergenza è terminato il 30 marzo 2021) a ottobre, per acqua e luce, il conto è stato pari a 1.200.000 euro.Inoltre la Regione dovrebbe farsi carico delle spese di smontaggio, 3,3 milioni, anche se l’intenzione (chissà se andrà a buon fine) è di girare il conto alla Protezione civile nazionale. Che dire degli sprechi al Moscati di Taranto denunciati dal vice presidente della Commissione Sanità della Regione Puglia e consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Renato Perrini. All’inizio del novembre 2020, in piena ondata Covid, la Rete Covid programmata dalla Regione Puglia prevedeva 3.062 posti letto suddivisi in 26 ospedali pubblici e sei cliniche private accreditate. Per raggiungere quel numero di posti letto furono fatti acquisti straordinari di attrezzature idonee ad assistere i contagiati. Ma questo materiale, avverte Perrini, «mi risulta, giace ora accumulato e ammassato, e soprattutto non utilizzato, in alcune stanze degli stessi ospedali». E il consigliere allega le foto del Moscati. Uno spreco di denaro pubblico al quale si aggiunge il mancato utilizzo di letti e macchinari di ultima generazione, mentre «mi giunge voce », afferma Perrini, «che si sta provvedendo ad acquistare altre attrezzature. 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Si riassume in poche righe la surreale vicenda del prefabbricato costruito nel parcheggio dell’Ospedale del Mare a Ponticelli, il primo di tre strutture che la Regione Campania aveva commissionato all’azienda veneta Med, e che avrebbe dovuto essere di aiuto nella fase di picco della pandemia. In pratica, appena terminato ci si è accorti che non era più necessario. Verdoliva, interpellato dai giornalisti all’inaugurazione, ad aprile 2020, si affrettava a chiarire: «Avevamo pensato a questa struttura in uno scenario di guerra, quello del mese di marzo, poi le curve sono scese, sono diminuiti i contagi e non abbiamo più bisogno delle terapie intensive. Se in futuro ci troveremo con una nuova ondata di contagi, questo ospedale è riconvertibile in 6 ore, per oggi lo mettiamo a disposizione dei pazienti positivi con patologie di base e che dovrebbero andare negli ospedali». Insomma le strutture ospedaliere in funzione erano in grado di reggere tranquillamente la pressione dei malati di Covid in condizioni gravi. Tant’è che Verdoliva affermava tranquillamente che «sulle degenze, terapie intensive e subintensive abbiamo più posti letto che domanda». Insomma il trasferimento dei pazienti sarebbe avvenuto, a quanto parve subito chiaro, per dare un senso a quella spesa di 7 milioni che si configurava come uno spreco. Il caso dell’Ospedale del Mare insieme alle altre due strutture volute dal governatore De Luca per l’emergenza della pandemia, quella presso l’ospedale San Sebastiano, a Caserta e presso il Ruggi D’Aragona, a Salerno, è finito anche in Parlamento con un’interrogazione parlamentare presentata dalla senatrice Paola Nugnes, e sottoscritta dalle colleghe Loredana De Pretis, Margherita Corrado, Elena Fattori, Danila De Lucia e Simona Nocerino, per chiedere al ministro della Salute Roberto Speranza e a quello degli Affari regionali Francesco Boccia di chiarire la vicenda. In particolare, perché in Campania vi è stata la necessità di investire milioni di euro per un ospedale prefabbricato dentro ad un ospedale con 10 reparti chiusi. Le parlamentari chiedevano anche di intervenire per chiarire l’aggiudicazione dell’appalto di tutti e tre i lotti unicamente alla veneta Med e di dar conto dell’utilizzo futuro della struttura di Napoli, vista la paradossale situazione che si registrava all’Ospedale del Mare con diversi reparti chiusi. I tempi della riconversione degli spazi modulari sono rimasti oscuri e ancora oggi non si sa quale sarà la destinazione della struttura. Suggerimenti ce ne sono tanti anche per alleggerire il peso che grava sugli altri ospedali sempre in carenza di spazi, ma fino ad ora l’amministrazione non ha messo nulla nero su bianco. Un altro caso è quello dell’ospedaletto di Caserta, riservato ai pazienti in terapia intensiva, realizzato nel parcheggio del Sant’Anna e San Sebastiano, nella primavera 2020. A dicembre dello stesso anno, però, l’ospedale di Caserta ha espresso la necessità di spendere un milione e mezzo per ulteriori dodici letto di terapia intensiva Covid. Nel giro di pochi mesi la Regione Campania ha dovuto spendere 3 milioni e 354 mila euro. Una cifra significativa che avrebbe dovuto avere una giustificazione altrettanto importante. Eppure la struttura poteva ospitare al massimo 14 pazienti ed è rimasta quasi sempre inutilizzata. Ma gli sprechi non finiscono qui perché all’ospedaletto è stato assegnato ad agosto 2020 un servizio di vigilanza del costo di diverse decine di migliaia di euro, tramite affidamento diretto alla Ssd di Nocera Inferiore. Un contratto che continua ancora, di proroga in proroga e dovrebbe scadere il 31 marzo prossimo secondo quanto disposto dalla delibera del direttore generale, Gaetano Gubitosa. La motivazione, messa nera su bianco, è «la necessità di salvaguardare le attrezzature e gli impianti del Presidio Modulare Ospedaliero Esterno Covid per una eventuale ripresa dei contagi per l’autunno/inverno 2022-2023». Tre mesi, da gennaio a marzo, verranno a costare 15.710 euro. Dopo più di due anni continuano a sopravvivere le motivazioni delle procedure di appalto d’emergenza legate al Covid. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sprechi-da-covid-2659502576.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="il-padiglione-di-bari-ora-costa-troppo-perfino-smantellarlo" data-post-id="2659502576" data-published-at="1678033389" data-use-pagination="False"> Il padiglione di Bari? Ora costa troppo perfino smantellarlo Il pasticciaccio dell’ospedale realizzato all’interno della Fiera del Levante di Bari può essere considerato l’emblema delle spese scellerate effettuate durante la pandemia. Il 13 novembre 2020, il sindaco di Bari, Antonio Decaro, annuncia la realizzazione di uno ospedale da campo dentro la Fiera. Seguono una serie di smentite da Asl e Regione, salvo poi venire fuori sul Corriere del Mezzogiorno, che il bando c’è ed ha scadenza di ore. Ma non si tratta di un ospedale da campo come quello realizzato a Barletta con le tende, facile da smontare e nemmeno dei moduli prefabbricati allestiti fuori degli ospedali. È un vero e proprio ospedale con 160 posti da terapia intensiva e costo di 9,6 milioni. La gara viene vinta da un raggruppamento pugliese guidato dalla Cobar, nota per la ricostruzione del Petruzzelli, con un’offerta da 8,5 milioni, al 12% di ribasso. Il commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, chiede al prefetto di Bari la requisizione di 3 padiglioni. Passano alla gestione della Regione che da quel momento dovrà versare alla Fiera un affitto mensile di 114.000 euro. Ma era proprio necessaria questa operazione quando si sarebbero potuti utilizzare gli ospedali nuovi sparsi in tutta la Puglia, semivuoti, creando spazi ad hoc per le terapie intensive? È la domanda che si posero in molti. Tra questi Raffaele Fitto che paventò subito uno spreco di 10 milioni di euro. Ma l’operazione non si ferma e l’ospedale, a marzo 2021, è inaugurato con rulli di tamburo sui media. Dal taglio del nastro passano due mesi e l’ospedale nella Fiera non apre. C’è un intoppo: mancano i bagni. Il problema sorge perché nel frattempo i posti in terapia intensiva sono passati da 160 a 14 e quindi i ricoveri ordinari hanno bisogno dei servizi igienici. Quando tutto sembra pronto, ci si accorge che non ci sono i medici. La carenza di personale ospedaliero è una realtà nota ma nessuno se ne era ricordato. Intanto i 9 milioni iniziali del bando lievitano e alla fine si arriverà a una spesa presunta, secondo la magistratura, di circa 25 milioni. La procura di Bari apre un’inchiesta, fioccano le interrogazioni parlamentari che chiedono al ministro della Salute Roberto Speranza di inviare gli ispettori. A settembre 2021 salta la Fiera del Levante, non era mai successo in 74 anni di storia. Scattano le inchieste e il capo della Protezione civile Mario Lerario è arrestato mentre intasca una mazzetta e oggi è agli arresti domiciliari. La storia dell’ospedale Covid continua ancora, con tanti punti oscuri da chiarire. Il 24 marzo 2021 è pubblicato il decreto che sancisce la fine dello stato di emergenza ma questo non sembra valere per la Fiera. A fine marzo c’erano ancora pazienti nella struttura. L’assessorato dal Salute chiede al Policlinico di accelerare il trasferimento dei malati ma l’operazione va avanti fino a settembre. Intanto da aprile a ottobre sono arrivate bollette di luce e acqua per 1.200.000 euro che comprendono anche gli ultimi due mesi in cui l’ospedale era chiuso. In particolare l’elettricità di settembre e ottobre ammonta a 439.000 euro. A pagare per ora è il Policlinico, che ha gestito il presidio e a cui la Regione trasferirà anche i soldi per le spese di gestione e le utenze dell’ospedale chiuso, così come aveva fatto quando era operativo. C’è poi l’affitto dei padiglioni: 114.000 euro al mese come da accordi con la Fiera. I macchinari, 153 ventilatori polmonari acquistati nel 2021 dalla Protezione civile, sono stati trasferiti presso il padiglione di Asclepios 3 del Policlinico, di prossima apertura e sono in corso le operazioni tecniche per rimetterli in funzione e riassegnarli ai reparti. C’è poi il problema di smantellare la struttura ma l’operazione si sta rivelando più complicata del previsto, anche in virtù del fatto che non esiste il collaudo. La nuova commissione, nominata dopo l’arresto di Lerario, ha ritenuto che l’opera non fosse collaudabile e quindi non è chiaro come dovrà agire il Consorzio Agoraa di Catania, che ha vinto la gara del Policlinico per lo smontaggio di ciò che ancora è rimasto. Costo 3,3 milioni. Un salasso che la Regione vorrebbe girare alla Protezione civile nazionale in base al ragionamento che siccome la struttura è stata realizzata nell’emergenza, l’onere è di competenza del bilancio nazionale non di quello regionale. Ma non è detto che la richiesta vada a buon fine dal momento che, si potrebbe obiettare, tale onere doveva essere previsto dal principio. «Certo è che quei 25 milioni sperperati potevano essere investiti per migliorare il sistema sanitario pugliese. Sarebbe bastato adeguare una struttura già esistente come l’ospedale militare a Bari che si poteva usare anche alla fine della pandemia, riconvertendolo in istituto di ricerca e a disposizione per momenti di emergenza», afferma Giosafatte Pallotta, esecutivo nazionale Anaao-Assomed, il sindacato dei medici e dirigenti ospedalieri. E sottolinea le difficoltà nello smantellamento. «La ricollocazione del materiale biomedico va a rilento mentre nessuno si è interessato a rilevare gli arredi e i moduli di cartongesso che comunque potevano essere riutilizzati. Ai bandi nessuno ha risposto anche se la cessione era praticamente gratuita». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/sprechi-da-covid-2659502576.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="almeno-ricollochino-i-macchinari-non-usati" data-post-id="2659502576" data-published-at="1678033389" data-use-pagination="False"> «Almeno ricollochino i macchinari non usati» Lorenzo Latella, segretario regionale di Cittadinanzattiva in Campania (YouTube) «Ora gli ospedali modulari costruiti in Campania sull’onda dell’emergenza Covid sono vuoti, in gran parte non hanno nemmeno funzionato a pieno ritmo per come erano stati programmati oppure, come nel caso dell’Ospedale del Mare, hanno assorbito l’utenza proveniente dall’ospedale. Allo scoppio della pandemia la Campania era sotto stress e non me la sento di criticare la realizzazione di questi spazi per ospitare le terapie intensive. Il tema però è la mancanza di una programmazione sul futuro. Sul loro utilizzo e con quale personale, non ci sono risposte». Lorenzo Latella, segretario regionale di Cittadinanzattiva, associazione di difesa dei consumatori, è tra coloro che hanno inviato al presidente della Regione De Luca un piano per la riconversione degli ospedali modulari. Avete avuto risposte? «Abbiamo ricordato che le strutture non si possono lasciare chiuse con il rischio di un progressivo degrado. C’è stato un errore iniziale nella previsione della capacità ricettiva dei moduli, superiore alla domanda, ma capisco che in quei momenti era difficile stimare l’andamento dei contagi. Ma il fatto grave è stato non programmare il futuro. Va cambiata la loro destinazione d’uso. Le idee non mancano. Si possono utilizzare per gli screening oncologici, per i centri di specializzazione, per gli ambulatori, per le scuole di preparazione dei medici di pronto soccorso o di formazione per le malattie rare. I macchinari potrebbero essere allocati in altri ospedali. Bisogna fare presto prima che tutto sprofondi nell’incuria. È questo ciò che abbiamo fatto presente a De Luca, ma non abbiamo avuto risposte». Quali sono gli ostacoli? «La mia impressione è che l’amministrazione, non considerando più il Covid una priorità, abbia dimenticato anche ciò che ha fatto parte della battaglia contro il virus. Magari fa più notizia l’ampliamento dell’ospedale Cardarelli anche se poi il numero dei medici resta invariato, o si preferisce puntare sull’abbattimento delle liste d’attesa e sul recupero dei test per i malati oncologici. È un errore politico non avere un buon assessorato che si occupi della gestione ordinaria che come le emergenze resta nelle mani del presidente. Il problema della riconversione degli ospedali modulari si potrebbe risolvere in un paio di settimane ma servirebbero anche norme in deroga alla giungla di autorizzazioni che sono tornate in vigore al termine dello stato di emergenza». Una volta riconvertite le strutture ad altro uso, ci sono i medici per riempirle? «Durante la pandemia sono stati impiegati gli specializzandi e i pensionati mentre il personale organico ha aumentato i turni. Terminata l’emergenza i padiglioni si sono svuotati. De Luca afferma che la formazione dei medici non può esser delegata soltanto alle università ma andrebbe fatta anche negli ospedali in numero adeguato al fabbisogno. Ecco quindi che le strutture modulari avrebbero una funzione. Ma per questo occorre una decisione del governo».
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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