2020-12-21
Speranza smaschera sé stesso
Nel libro subito ritirato, il ministro ammette: «Eravamo impreparati». Peccato che lui abbia ignorato il piano pandemico: seppur vecchio, era l’unica guida a disposizioneRoberto Speranza, grande ammiratore degli scienziati, negli ultimi giorni ha sorprendentemente adottato un approccio quasi magico. Pensa che, ignorandoli con tutte le forze, i problemi spariranno. Come, appunto, per magia. A dirla tutta si è comportato così anche durante l’estate. Invece di prendere i necessari provvedimenti per garantire una ripartenza autunnale sicura, si è convinto che sarebbe andato tutto benissimo e si è affidato al destino. Non è andata benissimo, come sappiamo. Eppure lui era proprio convinto che fosse tutto risolto a giugno-luglio, tanto da aver scritto un libro gravido di ottimismo intitolato Perché guariremo (Feltrinelli). Il prezioso volume è stato pubblicato e il giorno stesso ritirato. Coincidenza significativa: è capitata la stessa cosa al report realizzato per l’Oms da Francesco Zambon. Lo hanno fatto uscire e subito ritirato. In entrambi i casi, scopo della censura (autocensura per quanto riguarda il libro) era quello di non mettere in imbarazzo il governo. In effetti, la storia del saggio di Speranza e quella del report di Zambon sono intrecciate. Il ministro ha esibito lo stesso approccio in entrambe le circostanze: ha negato e mistificato. Per esempio, parlando a Porta a porta pochi giorni fa, ha tentato di sminuire l’importanza del piano pandemico. Come noto, l’Italia ne aveva uno fermo al 2006 e mai aggiornato. Secondo Speranza, anche averlo aggiornato sarebbe stato inutile: si trattava, ha detto, di un piano contro l’influenza, non contro il Covid. Peccato che i piani pandemici servano ad affrontare tutte le pandemie e se ne avessimo avuto uno ci saremmo risparmiati migliaia di morti (come vari analisti hanno rimarcato). A questo punto direte: ma che c’entra il libro di Speranza con le sue dichiarazioni sul piano pandemico? C’entra eccome. Anche nel libro, dicevamo, il ministro fa il pesce in barile, ripetendo che la pandemia era imprevedibile e ci ha colto di sorpresa. Peccato però che, così scrivendo, egli si smascheri da solo, svelando la propria inadeguatezza. Facciamo qualche esempio.Gran parte del saggio del ministro è sottoforma di diario. Nel capitolo datato 22 febbraio 2020, egli scrive: «Non ho un manuale di istruzioni per questa emergenza, nessuno di noi ce l’ha. In Occidente non ci sono soluzioni già sperimentate con successo da replicare. Siamo dentro una tempesta senza precedenti e non abbiamo un manuale da consultare che ci possa indicare una rotta sicura». Ecco il problema: un manuale da consultare lo avevano eccome. Si chiamava piano pandemico, e spiegava per filo e per segno che cosa fare in caso di pandemia. Certo, il nostro era datato, ma nemmeno quello è stato applicato (come certificato, tra gli altri, da Walter Ricciardi, consulente speciale di Speranza). E infatti il diario di Speranza nei primi giorni della pandemia è il resoconto di un politico che brancola nel buio: «No ho certezze assolute», scrive, «e i dubbi anche fra i miei collaboratori non mancano. Mi guidano un’idea molto chiara della pericolosità di questo virus, che ho ricavato dagli studi e dalle conversazioni con gli scienziati, e una linea di massima precauzione». Studi? Scienziati? Precauzione? Di nuovo: a guidare le azioni del governo avrebbe dovuto essere il piano pandemico, che però è stato ignorato.Sempre scorrendo il libro troviamo un altro passaggio suggestivo. Quello in cui Speranza parla della famigerata «task force» contro il Covid. Ne elenca i componenti, riempiendoli di complimenti. Spiega che il gruppo di lavoro è stato per lui fondamentale e ha contribuito a «costruire una relazione positiva e proficua tra politica e scienza». «La task force si riunirà, alla mia presenza, tutti i giorni alle 9 del mattino», rivela il ministro. E ancora: «In un’emergenza come quella del coronavirus, rimarrà fondamentale per chi prende le decisioni poter contare su un supporto scientifico di grande qualità». Si capisce dunque che Speranza ha basato le sue azioni sulle indicazioni della task force. Ecco perché sarebbe interessante poter leggere i verbali di quelle riunioni, ad esempio per sapere che cosa si siano detti gli esperti a proposito del piano pandemico. Tuttavia, a Galeazzo Bignami di Fratelli d’Italia che aveva richiesto i documenti, è stato risposto la settimana scorsa che non si potevano avere perché «l’attività della task force si è caratterizzata nel consistere in un tavolo di consultazione informale del ministro della Salute, tanto è vero che nemmeno sussiste un decreto ministeriale istitutivo o altro atto regolamentare [...] che ne disciplini formalmente l’attività, i tempi e modalità di procedimento». Dunque ora, secondo il capo di gabinetto di Speranza, la task force era composta da persone che si riunivano «informalmente». Nel libro di Speranza, tuttavia, viene dipinta come una squadra ben poco informale, piena di illustri tecnici e fior di professoroni. Curioso davvero.Fortuna che nel libro, a pagina 53, Speranza rivendica: «La linea della trasparenza è fin da subito la nostra stella polare: dinanzi a un’emergenza sanitaria è fondamentale un rapporto sincero con l’opinione pubblica». Bene, bravo. Ma allora perché non si decide a parlare del piano pandemico? Perché non si esprime sulla censura del report firmato da Francesco Zambon? Perché non produce i verbali della task force?Solo su una cosa il ministro dice il vero nel suo saggio. A pagina 187 scrive: «Credo che chiunque abbia avuto e abbia responsabilità di governo in questi mesi difficili debba essere pronto a rendere conto in ogni sede di quello che ha fatto. Vale per tutti, dal capo dell’Oms al sindaco del più piccolo Comune». Giusto: quelli dell’Oms dovranno di sicuro rendere conto, magari anche alla Procura di Bergamo (che ha sentito anche il ministro e potrebbe risentirlo). Poi però dovranno rendere conto anche i vari dirigenti del ministero della Salute che non hanno aggiornato il piano pandemico e ci hanno mandati allo sbaraglio. E dovrà rendere conto pure Speranza. Lo ha scritto nel libro, ora non gli resta che farlo davvero.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
A Fuori dal coro Raffaella Regoli mostra le immagini sconvolgenti di un allontanamento di minori. Un dramma che non vive soltanto la famiglia nel bosco.
Le persone sfollate da El Fasher e da altre aree colpite dal conflitto sono state sistemate nel nuovo campo di El-Afadh ad Al Dabbah, nello Stato settentrionale del Sudan (Getty Images)